La crisi istituzionale in Bosnia Erzegovina



Ciao a tutti e tutte,
a seguire trovate due articoli da Osservatorio Balcani sulla crisi politico-istituzionale in atto in Bosnia Erzegivina; per chi ha voglia di approfondire consiglio il lungo e dettagliato report (in inglese) dell'International Crisis Group, potete scaricare il pdf a questo indirizzo: http://www.crisisgroup.org/en/regions/europe/balkans/bosnia-herzegovina/b062-bosnia-state-institutions-under-attack.aspx
Ettore



La scelta di Inzko ita

Nella crisi aperta in Bosnia Erzegovina la comunità internazionale deve evitare la trappola dello scontro, riportando al centro del dibattito politico il percorso di integrazione europeo. In una Bosnia senza Alto Rappresentante. Nostro commento

Il 13 aprile il parlamento della Republika Srpska (RS) ha deciso di sottoporre a referendum l'operato dell'Alto Rappresentante, della Corte e della Procura di Stato. Il quesito referendario sottoposto ai residenti dell'entità bosniaca a maggioranza serba è: “Sostieni le leggi imposte dall'Alto Rappresentante e dalla comunità internazionale, in particolare quelle sulla Corte e sulla Procura di Stato della Bosnia Erzegovina, e la loro verifica incostituzionale nell’Assemblea parlamentare della BiH?”

La decisione è stata presa a larga maggioranza (66 voti a favore, 10 contrari), e pubblicata sulla Gazzetta ufficiale della RS 14 giorni dopo, il 26 aprile. Il voto è previsto per la prima metà di giugno.

Il referendum proposto dalla RS rappresenta una brusca accelerazione nella crisi aperta in Bosnia Erzegovina. L'accelerazione è stata impressa da Milorad Dodik, presidente della RS, e dal suo partito (SNSD), ed è diretta in prima istanza contro le istituzioni giudiziarie comuni. In gioco c'è però molto di più. La ridefinizione del delicato equilibrio tra potere centrale e poteri delle entità, il ruolo della comunità internazionale nel Paese e, secondo alcuni, la stessa sopravvivenza della Bosnia Erzegovina come Stato sovrano.

Una parola sinistra

La parola referendum, in Bosnia, risuona sinistra alla luce della storia recente del Paese. Secondo Nenad Stojanović, ricercatore presso il Centro per la Democrazia di Aarau e docente all'Università di Losanna, “la democrazia diretta può portare vantaggi alla coesione sociale in Bosnia, i cui cittadini si allontanano sempre di più dalla politica. Ma purtroppo in Bosnia la democrazia diretta è sinonimo di referendum unilaterali. Referendum che non vengono dal basso, ma dall'alto, cioè da leader politici che indicono queste votazioni solo perché sanno in anticipo quale sarà il risultato. Questo vuol dire manipolare i cittadini e Dodik è un esempio emblematico di questo atteggiamento."

Sul banco, secondo gli osservatori più pessimisti, e nonostante le rassicurazioni fatte in tal senso sia da Dodik che dal presidente serbo Tadic a margine del recente incontro di Karadjordjevo, ci sarebbe la prova generale di qualcosa di più grande: il referendum – più volte evocato – sulla secessione della RS dalla Bosnia Erzegovina.

Diversi giuristi si sono confrontati sul significato che l'attuale referendum potrebbe avere. Molti concordano sul fatto che il voto non avrebbe valore legale, dato che si tratta di una questione di pertinenza dello Stato e non delle entità. La creazione della Corte è stata infatti ratificata dal Parlamento statale, con il sostegno – a suo tempo – dei rappresentanti serbi. Allo stesso tempo, però, molti sottolineano che il referendum potrebbe avere importanti conseguenze pratiche, specie se i giudici e i procuratori serbi lasciassero i loro posti nelle istituzioni comuni. La presidente della Corte, Meddžida Kreso, ha dichiarato che le conseguenze del referendum sarebbero catastrofiche coinvolgendo “in un effetto domino [...] altre istituzioni”.

L'Unione Europea ha reagito prontamente alla crisi aperta. L'Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza, Catherine Ashton, ha dichiarato (14 aprile) che “la decisione dell'Assemblea della RS rappresenta un passo nella direzione sbagliata”, e che “l'Unione Europea sostiene il lavoro della Corte e della Procura di Stato della BiH.”

Lo stesso concetto è stato ribadito la settimana scorsa dall'inviato dell'UE Miroslav Lajčak, il quale ha dichiarato che si tratta di una decisione irresponsabile che “non risolve alcuna questione ma al contrario ne apre di nuove, rovina l'atmosfera, crea sfiducia e allontana ulteriormente la Bosnia Erzegovina dall'Unione Europea.”

La Federazione di Bosnia/Erzegovina

Il parlamento della Federazione di Bosnia Erzegovina, la seconda entità che compone lo Stato bosniaco, in una riunione d'emergenza il 27 aprile ha approvato una risoluzione che ribadisce il desiderio di proseguire nel percorso di integrazione euro atlantico, rafforzare lo stato di diritto e sostenere un sistema giudiziario funzionale e centralizzato.

La sessione parlamentare è stata però disertata dai rappresentanti croati dell'HDZ e HDZ 1990, i due maggiori partiti croato bosniaci. Solo pochi giorni prima infatti (19 aprile), i due partiti – insieme ad altre formazioni minori – avevano dichiarato a Mostar la creazione di una “Assemblea Nazionale Croata”, sorta di governo inter-municipale che dovrebbe unire le aree a maggioranza croata con compiti di “coordinamento”. L'operazione richiama alla memoria quella tentata nel 2001 da Ante Jelavić che, secondo i supervisori internazionali di allora (Jelavić fu destituito dalle sue funzioni dall'allora Alto Rappresentante Petritsch per “attività contrarie alla Costituzione”) era diretta a creare una terza entità in Bosnia Erzegovina. Dieci anni dopo, ci risiamo.

Dom Naroda

Il referendum proposto dalla RS avrebbe potuto essere bloccato dalla Camera dei Popoli dell'entità, nella quale siedono rappresentanti di tutti e 3 i popoli costituenti. I rappresentanti bosgnacchi però, pur essendo contrari alla decisione, non hanno utilizzato il proprio diritto di veto. In Bosnia Erzegovina è ormai prassi comune attendere che i problemi vengano risolti da un deus ex machina, l'Alto Rappresentante della comunità internazionale, in questo momento l'austriaco Valentin Inzko.

Inzko ha dichiarato di non poter ignorare il referendum, dato che rappresenta “un diretto attacco agli accordi di Dayton, alla Costituzione e alle istituzioni della Bosnia”. Più esplicitamente, sulle colonne del quotidiano britannico The Guardian (28 aprile), Inzko ha detto che l'Alto Rappresentante “dovrà intervenire per bloccare il referendum” e che “la Bosnia è di fronte alla peggiore crisi dalla fine della guerra”.

Secondo una fonte dell'OHR, che ha preferito rimanere anonima, l'atmosfera all'interno dell'organizzazione era più distesa dopo la riunione del Consiglio di Implementazione della Pace (PIC, la conferenza intergovernativa da cui l'OHR dipende) di venerdì scorso (29 aprile). Superando le consuete divisioni, tutti gli ambasciatori presenti – tranne il russo – si sarebbero infatti mostrati solidali con la posizione espressa da Inzko, e favorevoli a prendere misure contro la decisione della RS.

Lunedì l'agenzia di stampa FoNet ha infatti comunicato che Inzko utilizzerà i propri poteri esecutivi per annullare il referendum. La stessa agenzia ha dichiarato che “secondo fonti diplomatiche a Sarajevo, l'Alto Rappresentante intende anche 'sanzionare' alcuni politici, compreso il presidente della RS Milorad Dodik e il portavoce del parlamento della RS, Igor Radojičić.”

Escalation

Seguendo il copione dell'inevitabile (e prevedibile) escalation, fonti vicine al governo della RS, citate dal quotidiano Glas Srpske, hanno però fatto sapere subito dopo (mercoledì 4 maggio) che i rappresentanti serbi abbandoneranno le istituzioni comuni se l'Alto Rappresentante prenderà queste misure. La “contromisura” potrebbe coinvolgere il rappresentante della presidenza tripartita bosniaca, Nebojša Radmanović, i rappresentanti serbi nel Consiglio dei Ministri, oltre a deputati, giudici e procuratori serbi.

Mercoledì sera Valentin Inzko e Milorad Dodik si sono incontrati, ma la riunione non ha prodotto risultati, come poi dichiarato ai giornalisti dallo stesso Inzko.

Ieri l'Alto Rappresentante ha fatto pubblicare sulla stampa locale un commento in cui ricorda che “nessuna entità in base alla Costituzione può interferire con un'istituzione dello Stato”, e che “i politici della RS lo sanno, e dovrebbero sapere che portare una minaccia agli Accordi di Pace rappresenta un'avventura politica pericolosa, che può avere conseguenze imprevedibili.” Lo stesso concetto è stato ribadito dopo una nuova riunione del PIC, ieri a Sarajevo. Al termine dell'incontro però non sono state annunciate misure concrete.

La scelta di Inzko

La posizione di Inzko è stata riassunta in una recente intervista (Euractiv.com, 3 maggio). Inzko ha dichiarato che “ci sono solo due possibilità. O la RS annulla la decisione [di convocare il referendum], o lo farà la comunità internazionale.”

Esiste una terza possibilità: lasciare che il referendum si svolga. L'utilizzo dei poteri dell'Alto Rappresentante non risolverà la situazione. Al contrario, la aggraverà. Il voto referendario non può che avere un valore consultivo. Dopo il referendum, se ne valuteranno le conseguenze pratiche. La pronuncia di una parte del Paese non potrà essere ignorata nel dibattito politico bosniaco. Ma non si può cambiare l'assetto costituzionale di Dayton con la volontà di una sola parte. Questo lo sanno sia Dodik che Čović o Lagumdžija. Non ci sono alternative ad un percorso condiviso di riforme. Ma la cosa più importante, in questa fase, è evitare la trappola dello scontro. Sarebbe molto grave se la spirale della crisi si avvitasse ulteriormente. In un conflitto aperto con la RS, la comunità internazionale ha solo da perdere.

In generale, l'intervento dell'Alto Rappresentante nelle questioni politiche interne sembra ormai produrre effetti controproducenti, sia sotto il profilo della soluzione di problemi concreti che sotto quello del rafforzamento delle istituzioni locali. È tempo per l'OHR di cedere il testimone. Fino a quando i politici bosniaci non saranno pienamente responsabili di fronte al proprio elettorato, prevarrà la retorica e sarà difficile che il Paese faccia progressi nel suo principale obiettivo di politica estera, l'ingresso nell'Unione Europea. Il percorso di integrazione comporta il rafforzamento delle istituzioni dello Stato. Uno Stato disfunzionale non può entrare in Europa. Di questo i politici locali, a cominciare da Dodik, sono ben consapevoli. Per questo la chimera europea, unanimemente invocata, è anche temuta. Il rischio è quello di perdere posizioni di rendita. Ed è per questo che il dibattito politico continua ad essere dirottato su altre questioni, sull'eterno conflitto tra Dodik e l'Alto Rappresentante. Nel percorso europeo, che deve essere sostenuto da una rafforzata delegazione della Commissione in Bosnia Erzegovina, non ci possono essere altri attori oltre a quelli locali. Altrimenti la crisi di Dayton può durare a lungo.


Republika Srpska: c'è vita oltre Dodik? 

Le recenti iniziative della società civile in Republika Srpska, mentre il dibattito pubblico è monopolizzato dalla richiesta di referendum sulla comunità internazionale e le istituzioni giuridiche statali. “Rumore”, gli “Zero pungenti” e la “Voce del Popolo”

La Republika Srspka (RS), entità a maggioranza serba della Bosnia Erzegovina, non è un contesto facile dove essere attivisti, e lo sanno bene i 4 fondatori di Oštra nula, studenti di sociologia e di belle arti di Banja Luka che, alla fine del 2009, hanno deciso di smettere di lamentarsi davanti ad una birra e di diventare degli “zero pungenti” (oštra nula). “Perché se in questo paese i cittadini sono considerati degli zero, almeno che siano degli zero pungenti”, spiega Dejan, mentre mi racconta dei 25 milioni di marchi convertibili dati dal presidente Dodik a Kusturica per costruire la città di Ivo Andrić, elargiti “come se fossero soldi suoi, di Dodik”, o della figlia del presidente che, appena finita l'Accademia di belle arti a Milano, è stata messa a capo di una commissione governativa.

La prima volta che sono andati (in quattro) davanti al parlamento, per protestare contro l'innalzamento dei prezzi, sono stati presi per attivisti di un gay pride improvvisato, ma da allora "Oštra nula" ha portato avanti molte battaglie. Ad esempio per educare ad una consapevolezza civica, o per spingere le persone ad andare a votare alle elezioni dello scorso ottobre. Ma la reazione è sempre stata molto debole. “Quello che ci chiedevano, al massimo, era: chi vi paga? Quando postavamo le nostre iniziative su Facebook ricevevamo centinaia di 'I like' – continua Dejan. Sul posto, però, non c'era nessuno”. Insomma Facebook non ovunque aiuta le rivoluzioni.

La voce del popolo

Come in tutta la Bosnia Erzegovina, anche in RS l'apatia è la cifra con cui leggere la società civile. In più, a Banja Luka la vita pubblica è schiacciata dalla presenza dell'uomo forte, il presidente Milorad Dodik, che in cinque anni di governo (prima come premier e, dalle ultime elezioni, come presidente) è diventato il padre padrone dell'entità serba esercitando, attraverso il suo partito, l'SNSD, un controllo ferreo dei gangli principali della società dell'RS, soprattutto quello dei media.

Proprio per questo va registrato che qualcosa, anche se di piccolo, è successo. Nei primi mesi del 2011 ben due dimostrazioni hanno portato i cittadini in piazza a Banja Luka per protestare contro la situazione sociale: salari, disoccupazione, inflazione. La sigla che ha promosso le due proteste si chiama Glas Naroda (voce del popolo), un gruppo informale nato dallo stesso "Oštra nula", da un altro gruppo chiamato "Pokret" (movimento) e da un giovane studente di scienze politiche Stefan Filipović, che è stato il front man di entrambi gli appuntamenti.

“Alla prima manifestazione, il 5 febbraio, c'erano 300 persone – racconta Dejan – e a Banja Luka questo equivale ad un milione di persone in qualsiasi altro luogo. Abbiamo marciato dalla piazza principale fino al parlamento, chiedendo un cambiamento ed esprimendo la nostra insoddisfazione”. La seconda manifestazione, il 19 marzo, è stata molto meno partecipata e non è stata autorizzata la marcia di fronte al Parlamento, solo il raduno in piazza Krajina. Glas Naroda, per questo secondo appuntamento, aveva presentato tre richieste specifiche: riportare ai livelli precedenti i contributi per famiglie numerose, che sono stati tagliati del 30%, abbassare le tasse e rimuovere le persone condannate penalmente dagli uffici pubblici. Ma i partecipanti, principalmente persone di mezza età ed oltre, erano diminuiti di almeno la metà. Pochissimi i giovani, mentre i canali di informazione hanno fatto del loro meglio per non parlare dell'evento. “La Tv della RS, la RTRS, ha passato la notizia della manifestazione in venti secondi mostrando una foto, tipo previsioni del tempo, mentre subito dopo c'è stato un servizio di 2 minuti e mezzo su un agnello che si era perso su una strada principale, con la troupe televisiva che riusciva ad avvicinarlo. Ecco questa era la notizia, racconta ancora Dejan.” Così, per ora, si archivia il capitolo delle manifestazioni e si torna alle azioni di Oštra nula di un tempo - l'ultima è stata fatta con adesivi e volantini - e agli “I like” su Facebook.

Rumore

Aleksandar Trifunović, direttore di Buka (Rumore), il portale indipendente nato dall'ong “Centro per la decontaminazione dell'informazione giovanile di Banja Luka”, se lo aspettava. “Erano cento persone – dice amaro Trifunović – che è molto poco per una manifestazione della società civile, se si pensa che solo a Banja Luka ci sono 200 ong registrate. Il problema è che bisogna definire la lotta di ogni giorno, spiegare alle persone che tipo di futuro vogliamo, che tipo di Paese”. Il giornalista, molto vicino alle idee di "Oštra Nula", continua: “Questo è un Paese strano, tu puoi parlare degli argomenti più importanti, dall'economia alla corruzione, con la massima serietà, ma chiunque ti può zittire mettendo sul tavolo il nazionalismo, iniziando ad esempio a chiedere se la Republika Srspka deve essere indipendente dalla Bosnia Erzegovina o meno”.

Referendum

In effetti è quello che più o meno sta succedendo. Il tema principale in Bosnia Erzegovina, di questi giorni, è ancora una volta dettato da Dodik, ed è il referendum che si terrà a giugno in RS sulla Corte e la Procura della Bosnia Erzegovina. “Dodik è salito al potere nel 2006 promettendo la legge per il referendum, che sarebbe servito ad ottenere l'indipendenza dalla BiH, e ora lo serve ai cittadini della RS che sicuramente andranno a votare pensando che si tratti di questo. In realtà è un referendum su un tema giuridico molto complesso, su cui dovrebbe decidere la politica non i cittadini”, sostiene Trifunović.

La domanda del referendum voluto da Dodik in effetti non è semplice: “Sei favorevole alle leggi imposte dall'Alto rappresentante della comunità internazionale, in particolare a quelle sulla Corte e la Procura della Bosnia Erzegovina?”

L'iniziativa ha permesso una nuova – inutile – levata di scudi da tutte le parti in causa. Il rappresentate Ue Miroslav Lajčak ha affermato che il referendum porta solo problemi. L'OHR ha gridato all'attacco a Dayton, minacciando sanzioni. I partiti bosgnacchi hanno denunciato l'attacco alle istituzioni. Dodik, da Belgrado, ha spiegato che vuole interrompere il “terrore della comunità internazionale”, assicurando che la Serbia appoggerà il referendum. Pochi giorni fa però, a Karađorđevo, Boris Tadić ha preso le distanze. Ma ogni giorno si leggono nuove, scottanti, dichiarazioni sul tema.

Poco importa se – come affermano gli analisti – l'architettura giudiziaria bosniaca non è materia su cui la RS possa fare un referendum, poco importa se il referendum non ha carattere vincolante ma è di natura consultiva e poco importa se costerà alle casse della RS cinque milioni di marchi. A Banja Luka sono già apparsi gli striscioni: “Tutti per il referendum”.