Trent'anni di Seveso



«Data: 10 luglio 1976; luogo: Seveso e altri comuni della Brianza;
colpevole: ICMESA di Meda; mandante: HOFFMANN-LA ROCHE di Basilea;
complici: governanti e amministratori itliani di vario livello (centrale,
regionale, locale); arma: organizzazione scientifica di produzioni
tossiche; reato: lesioni e danni di varia natura e gravità; vittime:
lavoratori, popolazione, ambiente».

di Giulio Maccacaro

A Seveso, verso mezzogiorno di quel 10 luglio, da un reattore per la
produzione ufficiale di esaclorofene, un prodotto relativamente innocuo
usato dall'industria dei cosmetici, sarebbe fuoruscita, a causa di un
incidente, diossina, una sostanza chimica altamente tossica e cancerogena.
(Inchieste successive, mai smentite anche se non sufficientemente
convincenti, indurrebbero a pensare che all'Icmesa parte della produzione
fosse militare, il famigerato agente orange che tanti danni ha fatto in
Vietnam.) La diossina si è sparsa su un vasto territorio densamente
abitato, causando subito i primi danni da esposizione critica (soprattutto
al fegato e alla pelle, cioè cloracne, una malattia che crea pustole
orrende e difficili da guarire).

La zona dell'incidente venne subito divisa in tre aree (A, molto inquinata,
B, poco inquinata e C, di rispetto) con criteri francamente arbitrari. La
zona fu subito militarizzata, e solo dopo qualche giorno, quando ormai i
danni erano palesi non solo alle persone ma anche agli animali, gli
abitanti della zona A vennero evacuati in alberghi e residence. Un po' per
ignoranza, un po' per cercare di evitare che le donne incinte della zona
ricorressero all'aborto terapeutico per molto tempo la scienza ufficiale
cercò di minimizzare i danni da diossina. Ci fu addirittura un cretino, tal
Trabucchi professore all'università di Milano, che si offrì di mangiare
l'insalata di Seveso per dimostrare che non faceva danno.

Furono fatte decine di migliaia di analisi del sangue, delle orine eccetera
con metodologie così antiscientifiche da far urlare in una storica riunione
in provincia a Milano che «state facendo il possibile perchè non si arrivi
a nessun risultato!». Intanto la Hoffmann organizzava congressi su
congressi dove potevi chiedere qualunque cosa, anche l'odalisca in camera,
purchè accettassi acriticamente e diffondessi le tesi tranquillizzanti
della multinazionale. Risultato: giornali scientifici considerati seri come
The Lancet pubblicarono soffietti a favore della tesi dell'innocuità della
diossina; in Svizzera nessun giornale parlò mai del disastro di Seveso;
ricercatori seri come Lorenzo Tomatis, all'epoca direttore del massimo ente
comunitario di ricerca sul cancro, lo Iarc di Lione, furono invitati a
smetterla di denigrare una società «al dispora di ogni sospetto» come
Hoffmann-La Roche.

A Seveso venne sacrificato un po' di terreno, furono dati risarcimenti con
parsimonia, si costruì un bel giardino sulla collinetta fatta con la terra
di riporto e poi per anni n on si seppe più nulla. In realtà, come aveva
previsto Maccacaro, anlisi e studi epidemiologici non hanno mai dato
risultati rilevanti. Le maggiori vittime della cloracne da tempo non
abitano più a Seveso, e di molte non si sa più nulla. Unica consolazione:
forse Seveso passerà alla storia della scienza perchè un gruppo di zoologi
dell'università di Pavia ha scoperto nella zona una specie di topi che si
riproduce solo quando si incrociano individui della stessa specie, che sono
sterili negli accoppiamenti con gli altri volgari topastri locali. Come
dire: il banco di prova delle teorie di darwin e Lamarck, anche se per ora
nessuno ha elementi per mettere in relazione una storia del genere con la
diossina dell'Icmesa.

Da «Sapere» 796, novembre- dicembre 1976, editoriale di Giulio Maccacaro.

Trent'anni di Seveso
di Luca Passacielo - Galileonet.it

Il 10 luglio 1976 esplodeva la fabbrica ICMESA di Seveso. Un libro racconta da vicino le vicende che hanno seguito la tragedia, fino alla mitissima condanna nei confronti dei vertici istituzionali e dell'azienda.

Son passati vent’anni da Chernobyl, ma tra poco più di due mesi saranno trenta gli anni passati dalla tragedia di Seveso. Il 10 luglio 1976 un reattore dell’ICMESA esplose liberando una nuvola nel cielo della Brianza, qualche decina di chilometri a nord di Milano. L’ICMESA era una fabbrica chimica vicino al confine tra i comuni di Meda e Seveso. Quando ci fu l’esplosione, la nube tossica ricadde soprattutto su Seveso, i suoi campi coltivati, le sue case, le sue scuole. Le foglie degli alberi da subito iniziarono a accartocciarsi; gli animali a morire; sulla pelle dei bambini iniziarono a formarsi macchie rosse simili a ustioni. Ci volle qualche giorno a capire cosa fosse il gas uscito dalla fabbrica, anche perché i vertici dell’azienda (che faceva parte del gruppo chimico-farmaceutico svizzero Hoffman La Roche, tramite la controllata Givaudan) mantennero un insolito riserbo sulla quantità di materiale e soprattutto sulla possibile composizione di quella nube tossica. C’è da capirli: la fabbrica non era del tutto in regola, e la produzione che aveva luogo avrebbe richiesto misure di sicurezza maggiori di quelle in atto. Da circa un anno, ma quasi in segreto, l’ICMESA aveva iniziato a produrre triclorofenolo, componente di base per molti erbicidi. Inoltre, la stessa fabbrica era incorsa più volte in incidenti, passati sotto silenzio, e causava ormai da anni un inquinamento del territorio in cui abitava, al punto che era incappata in denunce di vario tipo. Una reazione chimica imprevista aveva fatto riscaldato ad alta temperatura il triclorofenolo, producendo la 2,3,7,8-TCDD, nota come diossina. Quanta ne fuoriuscì nel corso dell’esplosione è tuttora un mistero. Gli svizzeri minimizzarono: pochi etti. Studi indipendenti parlarono di 12 chili. Giulio Maccacaro, direttore di ‘Sapere’ a pochi mesi dall’incidente, parlò di ‘crimine di pace’. D’altra parte, secondo molti osservatori i prodotti di quella fabbrica finivano negli Stati Uniti, utilizzati per produrre l’Agente Orange utilizzato in Vietnam. Il libro ricostruisce le vicende della gente di Seveso, alle prese con problemi medici gravissimi e con amministrazioni (di ogni livello, dai comuni fino al governo nazionale) tendenzialmente incapaci di fare alcunché per affrontare non solo l’emergenza ma anche la gestione successiva dell’evento. La popolazione fu praticamente lasciata a se stessa o sbattuta da una parte all’altra, senza una vera comunicazione dei rischi che correvano. Mesi in residence e alberghi, per poi fare ritorno in case ancora inquinate nonostante la bonifica, con la terra degli orti ancora piena di diossina, e soprattutto la paura. La paura di tumori, la paura di malformazioni, la paura per una vita che non poteva essere quella di prima. La caratteristica più interessante di questo volume è proprio l’immedesimazione che riesce ad offrire al lettore, raccontando storie di singole persone, sempre con la prospettiva delle vittime della diossina che di volta si trovano di fronte scelte difficili o imposte dall’alto, disorientate dalla Chiesa che minimizza (per evitare che si faccia ricorso agli aborti, consentiti in via eccezionale) e da molti scienziati che invece parlano di un veleno dalle conseguenze tragiche. Con l’aggiunta degli spari delle Brigate Rosse e di Prima Linea, della multinazionale svizzera avida e irrispettosa, di una Democrazia Cristiana che stava attenta più a evitare il malcontento piuttosto che alla sicurezza dei cittadini, nonché di beghe politiche di second’ordine. Tutti questi elementi sono solo accennati, diluiti in un racconto minimalista che lascia in bocca un fortissimo sapore amaro di ingiustizia.