Mali, l'eterno ritornello della guerra al terrorismo



UN DECENNIO Di INCERTEZZE STRATEGICHE

 

Mali, l'eterno ritornello della guerra al terrorismo

 

 Il conflitto scatenato da Parigi in Mali l’11 gennaio 2013 sta ottenendo a livello internazionale un sostegno tanto prudente quanto indeterminati sono gli obiettivi fissati. «Distruggere i terroristi», come dice il presidente Hollande? Stabilizzare la situazione? Riconquistare il nord del paese? Allo stesso modo degli Stati uniti in Afghanistan, in mancanza di una visione strategica la Francia rischia di ritrovarsi impantanata in quelle vaste zone desertiche favorevoli alla guerriglia.

 

di OLIVIER ZAJEC *

 

Quando gli storici dovranno descrivere le operazioni militari francesi dell’inizio del XXI secolo, forse parleranno di «singulti strategici», tanto appare sincopato il movimento d’insieme degli ultimi dieci anni. Per descrivere compiutamente la spedizione in Mali, cosa che entusiasma un gran numero di commentatori, bisogna reinserirla nel lungo periodo. Nel 2001, all’indomani dell’attentato al World Trade Center, la Francia decide di appoggiare la guerra lampo che porterà alla caduta del regime talebano in Afghanistan. Tuttavia, poiché la regione non rientra tra i suoi interessi primari, e la conquista di Kabul da parte dei «signori della guerra» poco cambia a livello strutturale nell’abituale caos afghano, si guarda bene, in un primo momento, dall’immobilizzare a terra troppi effettivi. Settembre 2002, Costa d’Avorio: l’Eliseo invia con successo la forza d’interposizione Licorne nell’ex «vetrina dell’Africa francofona». Molte migliaia di soldati partecipano attivamente ai combattimenti di terra per evitare la guerra civile totale in una zona di grande importanza per gli interessi francesi. Nel 2003, in Iraq, dopo qualche esitazione, Parigi rifiuta l’avventurismo neoconservatore, opponendo a Washington sia lo spettro del prevedibile caos regionale che il rischio di una frattura tra le autoproclamate potenze morali e un mondo arabo in piena fibrillazione politica e identitaria. Afghanistan, 2007: la Francia, che manteneva un «impegno disimpegnato», si lascia trascinare dagli Stati uniti in un’interminabile avventura di democratizzazione contro-insurrezionale, con corredo di obiettivi morali irrealistici e destinata al fallimento nonostante la professionalità delle truppe in missione. Libia, 2011: in un tragicomico intreccio di sciatta retorica alla Malraux e innegabile efficienza militare, Parigi mette fine a un regime dittatoriale né più né meno grottesco di altri, destabilizzando in modo duraturo l’insieme dell’Africa settentrionale e aprendo la strada a un islamismo duro, finanziato e armato alla cieca dal petrolio del Golfo (1). Trovare una logica in questi tentennamenti tra realismo da impotenza e idealismo da incoscienza è una vera sfida. L’episodio maliano è particolarmente interessante da analizzare. Preda delle sue contraddizioni, e dopo aver tergiversato per mesi – lasciando agli avversari tutto il tempo di prepararsi –, il governo francese tenta di riparare i danni dell’intervento libico. Un intervento che, contribuendo ad armare le fazioni più radicali del Sahel, ha sancito la supremazia dei salafiti jihadisti del Movimento per l’unità della jihad nell’Africa dell’Ovest (Mujao) e di al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) sulla ribellione dei tuareg, accelerando la disfatta delle forze governative maliane e l’instabilità politica a Bamako. Decidere le modalità d’azione ha richiesto molto tempo. «Non ci saranno truppe di terra, l’esercito francese non interverrà», affermava François Hollande ancora l’11 ottobre 2012, preferendo parlare di un semplice aiuto materiale alle forze maliane (2). Con questa imprudente petizione di principio, l’Eliseo limitava di colpo la sua libertà d’azione, con il rischio di vedersi contraddetto dalla situazione locale, di cui gli sfuggivano aspetti essenziali. Il 10 gennaio, la città chiave di Konna, settecento chilometri a nord-est di Bamako, cade nelle mani dei combattenti islamisti di Ansar Dine e di Aqmi. Più niente protegge la capitale maliana. La Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (Ecowas) attendista, l’Unione europea prudente, gli Stati uniti dubbiosi, non restano che gli aerei da combattimento e le truppe francesi. L’11 gennaio inizia l’operazione «Serval». Tre mesi dopo aver dichiarato: «Non possiamo intervenire al posto degli africani», il capo dello stato è quindi costretto a contraddirsi. Un capovolgimento che non pone solo la questione delle capacità di previsione del governo, ma illustra anche l’urgenza di capire quali forme possano prendere in futuro, e a vari livelli, le operazioni dette di «stabilizzazione». Sullo sfondo delle esitazioni dell’Eliseo, c’è evidentemente il pantano afghano. Un fallimento che è prima di tutto quello di una teoria culturalista americana, la «contro insurrezione in approccio globale», che ha allargato troppo il quadro temporale della «stabilizzazione», scambiando azioni tattiche per scelte politiche, moralizzando all’eccesso gli obiettivi della guerra e precludendosi in questo modo ogni onorevole via di uscita. E tuttavia questa sconfitta del pensiero strategico, che per dieci anni ha immobilizzato centomila uomini su un teatro di guerra in assenza di un obiettivo finale raggiungibile, non fa sparire ipso facto la necessità di operazioni di stabilizzazione o d’interposizione, come dimostra il Mali. L’Afghanistan non insegna «che non ci saranno mai truppe di terra», per riprendere l’affrettato giudizio di Hollande, ma al contrario che tutte le ipotesi sono possibili, a condizione di rispettare quattro principi cardine. Prima di tutto, una valutazione autonoma della minaccia: la definizione di «terrorismo» non si trova né nei PowerPoint del Pentagono né nei «romanzi-inchiesta» di Bernard-Henri Lévy; in compenso, i libri di storia e di sociologia la dicono lunga sui «terroristi» del Sahel… Poi, la legittimità: stabilizzare non vuol dire imporre indefinitamente la propria presenza tutelare, a rischio di indebolire il governo che si vuole sostenere agli occhi dei paesi vicini e della popolazione. In terzo luogo viene l’efficacia operativa: l’azione militare in prima linea, che deve disporre di mezzi adeguati, deve essere limitata nel tempo, una volta ottenuto l’obiettivo tattico e operativo, per lasciare posto al «rejeu» (ripresa) (3) degli equilibri politici locali e regionali, così come al consolidarsi delle forze militari autoctone. Infine, la libertà di azione politica: una strategia di uscita deve essere pianificata e definita prima dell’avvio dell’operazione, ed è indispensabile garantirsi degli alleati, a condizione che siano volontari e consapevoli dei loro interessi nella zona. Il Mali risponde a queste caratteristiche? In termini di legittimità, la partecipazione della Francia alla stabilità dell’Africa poggia su argomenti concreti, quelli della prossimità linguistica (4), culturale e geografica, mentre non è così per l’Afghanistan. In quest’ottica, si sbaglierebbe a confondere le deprecabili fluttuazioni della «Franciafrica» da un lato con, dall’altro, l’utilità di accordi militari stipulati con paesi africani di cui si rispetti realmente la sovranità, che passa anche per una minore dipendenza economica. Il Libro bianco sulla difesa e la sicurezza nazionale del 2008, trascurando per qualche tempo l’Africa a favore della creazione di una base nel Golfo, di fronte all’Iran, ha contraddetto quello che si potrebbe chiamare il principio di geosussidiarietà, secondo il quale il maggior sforzo di stabilizzazione o d’interposizione di una potenza data si esercita di preferenza su zone che ragionevolmente la interessano. Cina, India e Russia sono a lungo termine più interessate all’Afghanistan che non la Francia. In compenso, Pechino o Washington difficilmente potrebbero spiegare a Parigi le sottigliezze dell’Africa dell’Ovest, anche se è cresciuta esponenzialmente la presenza interessata di loro «formatori» nella zona. Ambizioni da rivedere È rivelatore il caso della politica di assistenza militare francese in Africa, per esempio con il dispositivo «Epervier» in Ciad (5). Ancor di più lo è il concetto di Rafforzamento delle capacità africane di mantenimento della pace (Recamp): formalizzato nel 1997, considerato un successo, è stato trasposto a livello europeo nel 2004 (Eurocamp, in partenariato con l’Unione africana). La Francia continua ad applicare Recamp nel quadro delle relazioni bilaterali con alcuni paesi africani favorevoli al progetto. Sono iniziative che non bastano a garantire la solidità delle forze armate addestrate (l’esempio del Mali è lampante), ma sono in parte una testimonianza delle basi nuove su cui, in Africa, potrebbe rafforzarsi una politica di assistenza senza ingerenze a forze armate partner, anche per azioni ad elevata intensità, contro gruppi di irregolari dotati ormai di armamenti pesanti. Questo sottofondo di reciproca conoscenza spiega in parte il fatto che il 19 gennaio, ad Abidjan, il vertice straordinario dei capi degli stati membri della Cedeao abbia cercato in maniera unanime di accelerare il dispiegamento della Missione internazionale di sostegno al Mali (Misma), affinché costituisca un appoggio efficace per le forze maliane e francesi di «Serval». Nove paesi, musulmani o cristiani, francofoni o anglofoni, hanno promesso un contributo. Ciad, Togo, Benin, Senegal, Niger, Guinea e Burkina Faso, così come Nigeria e Ghana, devono inviare tremilaseicento uomini. Sul piano della definizione dell’avversario – che determina i limiti concreti degli obiettivi dell’intervento –, il bilancio è invece problematico. Le dichiarazioni di Hollande, che il 19 gennaio affermava che la Francia sarebbe rimasta sul posto «il tempo necessario a vincere il terrorismo (6)», testimoniano di una nuova imprudenza semantica, abbastanza sarkoziana, si potrebbe dire. Le parole hanno un senso: è stupefacente che dopo aver annunciato che la Francia non sarebbe stata coinvolta, tre mesi più tardi l’Eliseo affermi, senza batter ciglio, di non fissare più un limite alla sua presenza. I singulti strategici stanno ricominciando? Vedere come lo slogan semplicistico della «guerra contro il terrorismo» conosca una sorprendente epifania maliana, è tanto più sconcertante in quanto gli americani, promotori della formula, l’hanno abbandonata nel 2009. Barack Obama aveva allora fatto notare – non è mai troppo tardi – che era «stupido» «fare la guerra a una modalità d’azione» trascurando di studiare le cause politiche degli incendi che si pretendeva di spengere … dopo averli accesi (7). Non si può vincere il «terrorismo», come non si sradicano l’influenza stagionale o gli acquazzoni di marzo. Si può solo contenerlo. Una modalità d’azione, per quanto condannabile in assoluto, è teoricamente a disposizione di ogni combattente partigiano, senza per questo dovergli necessariamente negare un ruolo in una successiva soluzione negoziata. Scioccante? Forse. Ma, dopo tutto, il Fronte di liberazione nazionale (Fln) algerino, la figura di Michael Collins in Irlanda, l’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), l’Irgun israeliana e i «taleban buoni» con i quali il presidente afghano Hamid Karzai negozierà inevitabilmente dopo il 2014, offrono utili elementi di meditazione sia storica che di prospettiva su un argomento tanto delicato. L’efficacia strategica suggerisce quindi che l’avversario e l’obiettivo siano caratterizzati con più prudenza, e che il capo dello stato parli piuttosto del tempo necessario a respingere definitivamente i combattenti irregolari saheliani più radicali dal territorio maliano. Il che lascerebbe, una volta raggiunto da «Serval» questo ragionevole obiettivo, un margine interessante per un accordo politico tra Bamako, i suoi sostenitori regionali e un ventaglio di avversari estremamente frammentato tra vecchi e nuovi combattenti irregolari, trafficanti opportunisti, disertori dell’esercito maliano, neojihadisti radicalizzati dal wahhabismo del Golfo e indipendentisti laici. Come vederci chiaro in questo caos in riconfigurazione permanente, se ci si accontenta di inforcare le lenti deformanti della «lotta contro il terrorismo globale»? Un obiettivo di media portata, più aderente alla confusa situazione maliana, saheliana e nordafricana, sarebbe anche più compatibile con le reali possibilità di un esercito francese su cui si stanno per abbattere i tagli di bilancio più drastici degli ultimi dieci anni. La posizione bellicosa del Quai d’Orsay e dell’Hôtel di Brienne (8) è molto chiara. Bisogna vedere se le capacità militari si manterranno nel tempo. In che modo il prossimo Libro bianco, che deve essere reso pubblico in primavera, terrà conto delle lezioni di «Serval»? Un aspetto che non è certo il meno rilevante fra tutti quelli sollevati dall’intervento in Mali.

 

note:

* Ricercatore presso l’Institut de stratégie et des conflits (Isc). Autore di La Nouvelle Impuissance Américaine, L’Œuvre, Parigi, 2011.

(1) È indicativo che il primo ministro del Qatar, Hamad Ben Jassim Ben Jaber Al-Thani, il 15 gennaio abbia criticato l’intervento francese contro i gruppi jihadisti in Mali, dicendo di preferire la via del «dialogo regionale». La stessa posizione è stata presa dal presidente egiziano Morsi.

(2) Intervista dell’11 ottobre 2012 con i giornalisti di France 24, Radio France internationale e Tv5 Monde.

(3) In senso letterale, “rejeu” vuol dire: ripresa di un movimento tettonico lungo una faglia.

(4) La lingua ufficiale della Repubblica del Mali è il francese.

(5) Il dispositivo, è bene notarlo, non è mai consistito nel «liberare la donna ciadiana».

(6) Discorso di auguri a Tulle, 19 gennaio 2013.

(7) Scott Wilson e Al Kamen, «”Global war on terror” is given new name», The Washington Post, 25 marzo 2009.

(8) Sede del ministero della difesa. (Traduzione di G. P.)