[Disarmo] Bandiere Isis nei Balcani, Europa. Una polveriera ad un passo dall'Italia




Seminar vento per raccogliere tempesta.


Jure.



-------- Messaggio Inoltrato --------
Oggetto: [JUGOINFO] Kosovo: "Non pensavamo che tornassero terroristi..."
Data: Tue, 7 Mar 2017 14:10:42 +0100
Mittente: 'Coord. Naz. per la Jugoslavia' jugocoord at tiscali.it [crj-mailinglist] <crj-mailinglist-noreply at yahoogroups.com>
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Kosovo: "Non pensavamo che tornassero terroristi..."

1) Kosovo, Vicepresidente a parlamentari italiani: "Non pensavamo che i nostri volontari mandati in Siria contro Assad tornassero terroristi"
Intervista a Emanuele Scagliusi (M5S) di ritorno da una missione della Commissione Affari esteri della Camera in Kosovo, 23/02/2017
2) Le bandiere dell'Isis nei villaggi dell'Albania. "Una polveriera per la Puglia" (La Repubblica Bari, 7.1.2017)
3) Lo Stato Islamico alle porte di casa. Nei Balcani crescono i network jihadisti (Sergio Cararo, 9 agosto 2016)


À lire aussi: GUERRE EN SYRIE : QUI ÉTAIT RIDVAN HAQIFI, LE CHEF DES COMBATTANTS KOSOVARS DE L’ÉTAT ISLAMIQUE ?
(Radio Slobodna Evropa | Traduit par Chloé Billon | lundi 20 février 2017)
Connu pour ses vidéos de propagande où il prédisait des « jours sombres » aux Balkans, le chef des combattants kosovars de l’État islamique, l’ancien imam de Gnjilan, Ridvan Haqifi, aurait été abattu en Syrie...


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23/02/2017

Kosovo, Vicepresidente a delegazione di parlamentari italiani: "Non pensavamo che i nostri volontari mandati in Siria contro Assad tornassero terroristi"


Come AntiDiplomatico abbiamo intervistato Emanuele Scagliusi (M5S) di ritorno da una missione della Commissione Affari esteri della Camera in Kosovo.


“Almeno cinque campi, di cui - se non tutto - l’impressione è che si sappia molto. Se la presenza di cellule fondamentaliste nell’area dei Balcani è cosa nota (due anni fa l’Espresso ne aveva censite una ventina in tutta la regione), adesso arriva la conferma dell’esistenza di un livello superiore. Prevedibile, per alcuni versi, ma finora mai resa nota più o meno ufficialmente: la presenza di campi di addestramento dell'Isis in Kosovo”. Iniziava così un articolo de l’Espresso che riportava la notizia dei cambi dell’Isis nello stato esperimento della NATO che come AntiDiplomatico avevamo anticipato di settimane.
 
Inquieta ancora di più pensare ai campi di addestramento in Kosovo alla luce di questa dichiarazione del vice Presidente del Parlamento kosovoro Xhavit Haliti rilasciata questa settimana: “Noi abbiamo semplicemente inviato dei volontari a combattere contro Assad in Siria, non credevamo che sarebbero tornati terroristi islamici". Inquietano, per il ruolo dell’Unione Europea e della Nato, queste "illuminanti" dichiarazioni di Haliti rilasciate ad una delegazione della Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati, nella quale era presente anche il deputato del Movimento Cinque Stelle Emanuele Scagliusi. Come AntiDiplomatico abbiamo avuto la possibilità di rivolgergli alcune domande.
 

ll Kosovar Center for Security Studies (Kcss) stima che il Kosovo sia oggi il principale serbatoio europeo pro-capite di foreign fighter dello Stato Islamico. La diffusione dell’Islam radicale si è spesso materializzata nella costruzione, attraverso grandi finanziamenti sauditi, di centinaia di moschee wahabite e nella distruzione di altrettante chiese cristiane e monasteri. Tutto il territorio kosovaro pullula da anni di imam radicali che predicano la guerra santa e operano come reclutatori nelle centinaia di moschee finanziate dalle monarchie arabe. Com’è possibile che tutto questo accada sotto gli occhi dell’apparato militare e di intelligence Nato e Ue che opera in Kosovo?
 
Nella mia recente visita in Kosovo abbiamo avuto una serie di incontri bilaterali con il Presidente dell’Assemblea della Repubblica del Kosovo, Kadri Veseli, con il Vice presidente dell’Assemblea, Xhavit Haliti e con la neoeletta Ministra per l’integrazione europea, Mimosa Ahmetaj.  Sono rimasto colpito dalla naturalezza con la quale il vicepresidente del Parlamento kossovaro ci ha raccontato il problema legato ai foreign fighters. “Noi abbiamo semplicemente inviato dei volontari a combattere contro Assad in Siria, non credevamo che sarebbero tornati terroristi islamici". Una frase inquietante che lascia ben intendere l'emergenza legata al terrorismo che sta vivendo il Kosovo. Un problema, quello dei foreign fighters, che rischia di diventare un'altra delle emergenze di questo Paese dove negli ultimi anni sono aumentate le moschee wahabite ed i centri in cui il fenomeno della radicalizzazione islamica aumenta, grazie ai finanziamenti che arrivano dai Paesi del Golfo e della Turchia.

Che ruolo giocano le Monarchie del Golfo in questo processo in corso nel Kosovo?
 
L’Arabia saudita, alleato Usa e Ue, è il più grande acquirente dell’equipaggiamento militare dei paesi balcanici. L’Arabia Saudita sostiene le forze jihadiste in Siria.
Credo che il cerchio si chiuda.
Un recente studio pubblicato dal BIRN (Balkan Investigative Reporting Network) sostiene che dal 2012, anno dell’inasprimento delle “primavere arabe”, ad oggi, ai paesi dei Balcani sono state comprate armi per un valore di 1.2 miliardi di euro da Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti e Turchia, molte delle quali smistate per poi essere usate nel conflitto siriano e in quello yemenita. I leader europei hanno fatto di tutto negli ultimi anni per tentare di bloccare la strada percorsa dai migranti che tentavano di raggiungere l’Europa passando per i paesi mentre non si sono preoccupati di mobilitarsi per fermare il commercio di armi che segue la medesima rotta balcanica che percorrono i migranti (con l’unica differenza che viene percorsa nella direzione opposta).
 
 
La crescente partecipazione di membri radicali tra le fila dello Stato Islamico e la posizione di hub strategico nel cuore dell’Europa sollevano seri elementi di criticità legati al ritorno dei combattenti in patria. “Questa situazione è potuta maturare nonostante le missioni internazionali presenti sul territorio, perché da tempo l’Europa e la Nato si disinteressano al Kosovo, e ai Balcani in generale, nonostante questa evoluzione fosse chiara da anni”. Sono parole del Generale Fabio Mini, ex comandante della missione Nato in Kosovo. Come procede il lavoro del contingente italiano in Kosovo?
 
Nella nostra missione, abbiamo visitato il contingente italiano presso la KFOR e la base dei Carabinieri della Multinational Special Unit (MSU). 
Con loro, abbiamo potuto visitare il Ponte di Mitrovica, uno dei luoghi simbolo del conflitto del ‘99 e teatro dei più recenti scontri connessi dalle perduranti tensioni interetniche tra minoranza serba e maggioranza di albanese. Attraversandolo, ho subito percepito, nonostante siano passati 18 anni, quali siano gli sconvolgimenti che le missioni "umanitarie" portano in paesi che con difficoltà nel corso della loro storia avevano raggiunto il loro precario equilibrio tra le diverse etnie, religioni e ideologie politiche.
Ricordo ancora le bombe del Governo D'Alema, spacciate per intervento militare in difesa dei diritti umani, che in verità hanno contribuito a rimescolare le tessere del puzzle balcanico. Tessere che faticosamente si cerca di rimettere in ordine.

Il Kosovo vuole entrare nell’Unione Europea. Secondo lei sono pronti?
 
Adesso il Kosovo, come un po' tutti i Paesi balcanici, ambisce ad entrare nell'Unione Europea e, dai discorsi che ho sentito dai loro parlamentari e rappresentanti di Governo, mi sembrava di essere tornato indietro di qualche decina di anni quando l'allora presidente del consiglio Prodi annunciava: "con l'euro lavoreremo un giorno in meno guadagnando come se avessimo lavorato un giorno in più". Previsione rivelatasi drammaticamente sbagliata. 
Il Kosovo rischia di cadere in una simile illusione. Per questo, in tutti gli incontri bilaterali avuti, ho illustrato loro la posizione del M5S su tutto quello che a nostro avviso va rivisto immediatamente in Europa: dalla moneta unica alla gestione dei profughi, dal mercato del lavoro a quello delle merci. Una serie di temi che prevedono nella nostra agenda politica una rivisitazione del principale trattati della UE. "O l'Europa cambia o muore".


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Terrorismo, le bandiere dell'Isis nei villaggi dell'Albania. "Una polveriera per la Puglia"

I fenomeni di radicalizzazione oltre l'Adriatico preoccupano l'intelligence italiana: sul territorio pugliese ci sono comunità originarie dei villaggi su cui sventolano le bandiere del Califfato

di GIULIANO FOSCHINI

7 gennaio 2017

È dal mare Adriatico che arriva oggi uno dei principali allarmi per il terrorismo in Italia. E la Puglia è frontiera di questo rischio. Nulla c'entrano i flussi migratori. L'allerta non riguarda né i barconi di disperati che attraccano per lo più sulle coste del Salento né le migliaia di richiedenti asilo che, in attesa del permesso di soggiorno, vengono portati nei Cara di Bari e Foggia o nell'hotspot di Taranto.

L'allarme arriva dall'Albania. Dove i nostri servizi di intelligence, così come quelli della maggior parte dei Paesi occidentali, hanno lanciato l'allerta radicalizzazione: in alcuni villaggi, e in particolare quelli ai confini del Kosovo, da tempo sventola la bandiera nera dell'Isis. E sono sempre più i casi di radicalizzazione. "Sta diventando una polveriera" ragiona una qualificata fonte investigativa italiana. "E in questo senso l'Italia diventa un paese esposto. E la Puglia in particolare". Questo per via della vicinanza geografica, della presenza di comunità fortemente radicate e per quegli stretti collegamenti tra criminalità organizzata e traffico internazionale di stupefacenti.

Il caso Albania. Sin dalla nascita dello Stato islamico un numero importante di foreign fighter è partito dai Balcani occidentali, e dall'Albania soprattutto. Se ne stimano mille almeno. Negli ultimi 12 mesi, però, il flusso si è notevolmente ridotto. Non è un caso: la perdita di terreno in Siria ha spinto l'Isis a bloccare i viaggi di chi si vuole arruolare per spostare, appunto, il conflitto in Occidente. Non a caso le intelligence europee segnalano una radicalizzazione sempre più profonda proprio in questi mesi. Un allarme che in un certo modo le autorità albanesi stanno cercando di fronteggiare.

Nove persone sono state condannate per reclutamento, si sta cercando di fare un lavoro sulle moschee seppur 89 sembrano essere completamente fuori controllo. I servizi albanesi hanno segnalato come "fortemente pericolosi" una decina di imam, due dei quali sono però in carcere. Il più pericoloso di loro, Almir Daci, dovrebbe essere morto ad aprile scorso in Siria: è lui che da Leshnica, la città nel sud-est dell'Albania dove reggeva la moschea che ha radicalizzato centinaia di uomini. I ragazzi di Leshnica, Zagorcan e Rremeni sono quelli che ora fanno tremare l'Europa.

La rete pugliese. Non sono città qualsiasi. In Italia vivono da tempo comunità originarie di quelle zone. In particolare in Puglia, con concentrazioni in Salento e in un comune della provincia barese. Un ragazzo di quelle zone, Ervis Alinj, si era trasferito in Puglia piccolo per poi ritornare a casa con i genitori in Albania. Qui si è radicalizzato e poco meno di due anni fa è morto mentre combatteva in Siria. Vengono dal sud-est albanese esponenti di spicco anche della malavita organizzata pugliese, che vivono da anni nel barese e sono attivi in particolare nel traffico di stupefacenti e in quello di armi.

Un fattore questo che rende ancora potenzialmente più pericolosa la situazione, in quanto legherebbe la criminalità organizzata con le organizzazioni terroristiche. Non a caso, sulla cellula albanese da tempo lavora la Dda di Bari. Un fascicolo è stato aperto dopo la strage di Nizza ma fin qui, più che una reale pista investigativa, si è trattato di una suggestione. Chokri Chaffroud, il complice di Mohamed Bouhlel, lo stragista di Nizza aveva vissuto per anni a Gravina, dove vive una delle comunità albanesi più importanti e, indagini alla mano, con più affari criminali. Ed erano proprio albanesi due presunti complici di Bouhlel, arrestati dopo la strage sulla Promenade con l'accusa di avergli offerto un supporto logistico per compiere l'attentato.

La prevenzione. Chiaro il rischio, in questi mesi si stanno prendendo tutte le contromisure affinché il pericolo resti potenziale. La Dna, la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo ha sottoscritto in estate un protocollo con i colleghi serbi che serve proprio a mettere in rete le informazioni. In questo senso il porto di Bari, considerato hub per il passaggio, è in grado di offrire un supporto fondamentale: ha un sistema informatico di registrazione dei passeggeri che consente di verificare alle forze di polizia in tempo reale chi, quando e soprattutto accompagnato da chi ha viaggiato.

Proprio grazie a questo software - unico in Italia - è stato possibile individuare Ahmed Dhamani, uno dei fiancheggiatori di Salah Abdeslam, il terrorista che assaltò Parigi il 13 novembre 2015. Nessuno conosceva il suo nome ma la Digos di Bari scoprì che i due avevano viaggiato insieme da Bari a Patrasso il primo e il 5 agosto, in quel viaggio in Grecia nel quale fu probabilmente organizzata la strage.



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Lo Stato Islamico alle porte di casa. Nei Balcani crescono i network jihadisti


Sembrerebbe una legge del contrappasso eppure è lo stesso scenario che si è ripetuto costantemente dall’alleanza con i mojaheddin afgani dal 1980 in poi. Gli Stati Uniti, la Nato e l’Unione Europea hanno disgregato gli stati esistenti – anche con i bombardamenti e le operazioni di regime change – hanno sostenuto militarmente i gruppi islamici e hanno consentito il loro rafforzamento economico e militare in enclavi protette e sostenute dal wahabismo saudita. Ma non è accaduto solo in Medio Oriente, è accaduto anche in Europa nella sua periferia balcanica. Una volta diradata la polvere dei bombardamenti (incluso quelli all’uranio impoverito) sul territorio dei Balcani sono rimaste quasi sempre basi militari Usa (in Kosovo, Croazia, Macedonia) e sono prosperati network legati alla jihad globale, sia di osservanza wahabita (legati all’Arabia Saudita) che di altre correnti (legati alla Turchia). Il risultato è che enclavi dello Stato Islamico sono assai più vicine ai confini europei di quanto la geografia e la cronaca abbiano lasciato intendere fino ad ora.

Sono stati infatti individuati diversi network jihadisti che hanno origine in Kosovo (dove in rapporto alla popolazione si segnala il numero più alto di foreign fighters andati a combattere in Siria e Iraq tra le file dell’Isis), Bosnia e Albania. In questi tre paesi balcanici nei quali la Nato è intervenuta militarmente tra il 1995 e il 1999 a sostegno delle ambizioni islamiche,   si è formata una rete di gruppi islamici radicali, che si ispirano a Lavdrim Muhaxheri, noto come il “’macellaio dei Balcani”, per le sue atroci esecuzioni al servizio del califfo Al-Baghdadi. Tra i cento soggetti  posti all’attenzione dalla polizia in Italia, ci sono persone provenienti da quelle zone: si tratta soprattutto di ex criminali con precedenti per spaccio di droga, tra cui anche donne. Proprio nel dicembre 2015 è stato individuato un gruppo di kosovari, di cui alcuni arrestati, che propagandava la Jihad  e che,  secondo gli investigatori,  aveva collegamenti con gruppi riconducibili a Muhaxheri. Quest’ultimo ha lavorato proprio dentro la base militare Usa in Kosovo, quella di Camp Bondsteel, all’ombra delle quale si segnalano ben cinque campi di addestramento dei miliziani islamici.

Il vero cuore dello Stato Islamico alle porte dell’Europa è proprio il Kosovo, uno stato fantoccio creato dai bombardamenti dalla Nato e riconosciuto come indipendente dalla maggioranza dei paesi europei (tranne la Spagna). Una inchiesta de L’Espresso rivela che Florin Nezir,  l’imam della moschea Sinaan Pasa Camii di Kacanik, è stato sostenuto in questi anni da Ilir Berisha e Jetmir Kycyku,  arrestati per terrorismo in un’operazione dell’ Eulex (la missione europea in Kosovo). Ma il grande sostenitore di Nezir è Lavdrim Muhaxheri, albanese, oggi uno dei capi dello Stato islamico, ex collaboratore della Kfor (la missione Nato in Kosovo dopo la guerra del 1999), famoso per essersi fatto ritrarre mentre decapitava prigionieri in Siria.

Il reclutamento di giovani jihadisti che partono per Siria e Iraq è un fenomeno diffuso in tutta l’area che si è ulteriormente aggravato con il ritorno di gruppi di foreign fighters. Diventati pedine importanti e anelli di congiunzione tra l’Europa e il Medio Oriente.
Da Kacanik sono partiti nel 2014 almeno 7 giovani di età compresa tra i 25 e i 31 anni, per andare in Siria e Iraq come foreign fighters al servizio dell’Isis. Il flusso si è ridotto con la legge sui foreign fighters approvata nel 2014 dal Parlamento di Pristina. Qualche mese fa, un’operazione congiunta di esercito e polizia ha portato all’arresto di cinquanta persone legate all’estremismo islamico e coinvolte nella partenza di combattenti per Siria e Iraq. Gli indagati (dati del 2015) sono 130, di cui un’ottantina  gli arrestati .
Ma non è solo il Kosovo a preoccupare tra i paesi dell’area balcanica: Bosnia, Macedonia, Sangiaccato serbo conoscono situazioni simili. Negli anni ‘90 in queste regioni attraversate dalla secessioni e dalle guerre civili che hanno contrapposto comunità musulmane a comunità ortodosse o cattoliche, è stato imponente l’ingresso in alcune aree di mujaheddin, finanziati dall’Arabia Saudita, ha contribuito a far crescere il numero dei musulmani wahabiti. La Nato, che ha sempre e solo bombardato la Serbia o la Repubblica Sprska in Bosnia, ha chiuso entrambi gli occhi rispetto a questa rilevante infiltrazione di foreign fighters nelle guerre balcaniche. “Due aspetti sono risultati fondamentali per l’espansione del wahabismo nei Balcani” scrive l’inchiesta de L’Espresso, “ la forza della propaganda grazie all’attività di associazioni sul filo della legalità da un lato, e i cospicui finanziamenti dall’altro. Tali correnti integraliste vanno collegate alla guerra del 1992-1995, quando in Bosnia giunsero alcune centinaia di volontari arabi e islamici (secondo altre fonti sono stati migliaia) per combattere a fianco dei musulmani bosniaci, inquadrati nell’esercito governativo”.

A  Bihac, in Bosnia,  c’è una fetta di territorio ormai sfuggito dal controllo statale (debole in un paese di fatto diviso, costruito e per lungo tempo gestito dalla Nato e dall’Unione Europea tramite commissari plenipotenziari), dove la polizia non entra e dove esiste una vera enclave dello Stato islamico. 
Comunità consistenti di musulmani integralisti bosniaci sono sorte in particolare nei villaggi di Bocinja, presso Maglaj, in Bosnia centrale, e Gornja Maoca, presso Brcko, dove periodicamente la polizia effettua blitz e retate di islamisti radicali. Secondo stime non ufficiali, sarebbero almeno 150 gli jihadisti partiti dalla Bosnia per combattere in Siria e Iraq, 50 sono rientrati in Bosnia e una ventina di loro finora sarebbero stati uccisi.
Gli anni della ricostruzione post guerra sono stati caratterizzati dall’arrivo di numerose organizzazioni umanitarie patrocinate da Paesi islamici: Alto Comitato saudita, Fondazione Al-Haramain, Società per la rinascita del patrimonio islamico.

In alcune zone della Bosnia come a Bihac, Teslic, Zeppe, Zenicae Gornja Maoca sono ormai presenti delle sacche wahabite dove si seguono alla lettera gli insegnamenti di Abu Muhammad al-Maqdisi, predicatore giordano-palestinese noto per le sue posizioni radicali. In queste regioni i wahabiti vivono secondo le leggi della Sharia seguendo gli insegnamenti di imam radicali come Husein Bilal Bosnic e Nusret Imamovic. Il villaggio di Gornja Maoca, situato vicino alla città di Brcko, risulta essere la stazione di transito, stando ad alcuni rapporti del Middle East Media Research Institute, attraverso la quale avviene il passaggio per jihadisti stranieri in viaggio per lo Yemen, l’Iraq e la Siria, e in questo contesto il nome di Bilal Bosnic ricorre frequentemente in relazione alle attività di trasporto dei guerriglieri.

Dai Balcani raggiungere la Siria risulta ormai molto facile: ogni grande città della regione è collegata con Istanbul, sia con pullman che con l’aereo. In seguito, stando alle indicazioni della polizia bosniaca, i volontari si muovono alla volta di Antakia, per attraversare la frontiera di Bab Al-Hawa con l’aiuto dei gruppi jiahdisti siriani, per raggiungere successivamente il Fronte al-Nusra.

Segnali preoccupanti vengono anche da un altro stato sorto nella stagione delle secessioni nella ex Jugoslavia: la Macedonia. Recentemente in una località al confine con il Kosovo, Kumanovo, si sono registrati scontri armati tra milizie islamiche macedoni e polizia con diversi morti soprattutto tra gli agenti. Secondo il portavoce della polizia macedone Ivo Kotevski, gli islamisti sarebbero entrati in Macedonia da un Paese confinante, l’Albania o più verosimilmente il Kosovo.. Questo accadeva solo tre settimane dopo che una quarantina di militanti kosovari aveva preso il controllo di una stazione di polizia sul confine rivendicando la creazione di una enclave indipendente albanese in Macedonia.
La componente estremista del wahabismo in Macedonia è stata poi coinvolta nei tentativi di assumere il controllo di alcune importanti moschee della capitale Skopje come Yahya Pasha, Sultan Murat, Hudaverdi e Kjosekadi.




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