[Disarmo] Dalla super bomba al silenzio di tomba, il cratere è off limits



Dalla super bomba al silenzio di tomba, il cratere è off limits

Afghanistan. A sei giorni dal lancio il bilancio ufficiale parla di 96 jihadisti uccisi. Vittime civili? Segreto

 

Un esemplare di GBU-43/B, la «Mother Of All Bombs» (Moab)

Emanuele GiordanaIl Manifesto

A quasi una settimana dal lancio della «madre di tutte le bombe», sganciata il 13 aprile nel distretto Achin – provincia orientale del Nangarhar -, l’area resta completamente sigillata sia per i giornalisti sia per lo stesso esercito afghano, escluso da un perimetro guardato a vista dalle forze americane di stanza in Afghanistan.

NONOSTANTE L’ACQUIESCENZA generalizzata con cui la bomba è stata accolta sia dal governo (che l’ha anzi definita una giusta azione in appoggio agli operativi dell’esercito afghano) sia dalla stampa locale, qualche sospetto si è fatto strada ad esempio tra i giornalisti di ToloNews, un’emittente privata a larga diffusione, che ha tentato di andare oltre la versione ufficiale che a oggi attesta un successo con 96 cadaveri tra cui parte della cupola dello Stato islamico spazzati via dalla bomba sganciata sul villaggio di Assadkhil nell’area conosciuta come Mohmand Dara. Il giornalista Karim Amini, che ha pubblicato anche una foto della “frontiera” attorno al cratere causato da un ordigno da 11 tonnellate di esplosivo, sostiene che lo Stato islamico è ancora attivo nella zona da cui spara bordate dalla sua emittente radio e razzi sull’esercito afghano che, in mancanza di una presa di visione di quanto è successo nella zona colpita, deve accontentarsi della reazione rabbiosa dei jihadisti.

Ma la domanda vera cui per ora non c’è risposta riguarda le vittime civili. Il raid puntava a una serie di tunnel costruiti dai mujaheddin con soldi della Cia durante gli anni dell’invasione sovietica e poi diventati alloggio dei jihadisti d’importazione del Califfato, attivi soprattutto nella provincia del Nangarhar, al confine col Pakistan. E qualche sospetto arriva dalle parole di un membro del Consiglio provinciale che dice al giornalista che dovrebbe esserci libero accesso alle organizzazioni umanitarie per consentire alle popolazioni sfollate di far ritorno nei loro villaggi. Amini non approfondisce così che non è chiaro se si tratti solo delle famiglie sfollate per la presenza dello Stato islamico, noto per la sua brutalità, o anche per gli effetti della guerra: sia per gli operativi militari afghani e americani nell’area, sia anche per effetto della bomba.

LA VERSIONE UFFICIALE è che non ci sono vittime civili ma solo militanti jihadisti tra i cadaveri rinvenuti di cui c’è già una lista con nomi, cognomi e nazionalità (resta da capire come si è arrivati al riconoscimento visto che la GBU-43/B è in grado di uccidere un uomo col solo spostamento d’aria ed è in grado di perforare cemento armato sino a 100 metri di profondità). La versione ufficiale sosteneva anche che nell’area bombardata viveva una sola famiglia, evacuata prima del raid. È però inevitabile far mente locale non solo sulle vittime civili di questa guerra (in aumento rispetto agli anni precedenti da quando, dal 2009, la missione Onu a Kabul ha iniziato a tenerne il bilancio): tra i tanti episodi c’è quello dell’ottobre 2016 quando un drone ha bombardato alle tre del mattino una guest house nel villaggio di Shadal Bazar, distretto di Achin, uccidendo almeno 15 persone convenute per celebrare un anziano di ritorno dalla Mecca. Allora l’Onu disse che erano civili mentre le autorità locali li avevano bollati come islamisti tra cui non c’erano né donne né bambini anche se un giornalista del Guardian, che aveva fatto vista ai feriti dell’ospedale di Jalalabad, trovò tra loro un ragazzino di 12 anni e due anziani.

LE ATTIVITÀ DEI DRONI sono segrete e anche sui bombardamenti in atto nel Sud del Paese da mesi c’è una cortina di silenzio. Identico a quello che ora circonda gli effetti della prima bomba di Donald Trump. Che potrebbe annunciare a breve anche un aumento dei suoi soldati nel Paese.