[Disarmo] La crisi afghana torna al centro di grandi manovre internazionali



La crisi afghana torna al centro di grandi manovre internazionali

Il nuovo grande gioco. Protagonisti del conflitto sono oggi i vecchi attori della Guerra Fredda, Stati Uniti e Russia, che si contendono la scena centroasiatica

 

Soldati afghani di fronte al checkpoint nella provincia di Balkh

 © LaPresse

Emanuele GiordanaIl Manifesto

In Afghanistan c’è una corsa al rialzo: a chi, si potrebbe dire, la spara più grossa. Con la differenza che qui non sono battute e boutade ma proiettili veri che uccidono e feriscono in una terra dove il “Nuovo Grande Gioco” sembra non solo ritornato prepotentemente alla ribalta ma vicino al punto più basso della sua tragica storia.

UNA STORIA CENTENARIA se il Grande Gioco tra lo Zar di tutte le Russie e la Corona britannica iniziò nell’800 per poi proseguire, nel secolo scorso, con la Guerra Fredda e adesso con un nuovo episodio il cui terreno di conquista è sempre quello: l’Afghanistan è la porta maledetta tra l’Asia centrale, il Medio oriente e il subcontinente indiano. La riedizione di un gioco condotto con l’usuale brutalità e meschinità che l’ha sempre contraddistinto.

La corsa al rialzo ha come protagonisti diversi attori: l’azione di venerdì a Balkh da parte dei talebani sembra indicare il tentativo non solo di affermare la superiorità militare nei confronti del governo e dell’esercito nazionali, ma anche di dimostrare agli affiliati al “califfato” di Al-Bagdadi (che sei settimane fa hanno ucciso 50 soldati nell’ospedale militare di Kabul a due passi dall’ambasciata americana) che il jihad contro l’invasore straniero e i suoi alleati afghani è roba loro e non di questi nuovi guerriglieri in parte stranieri, in parti desunti da ex talebani spesso espulsi dalle file del movimento che fa capo a mullah Akhundzada.

MA I DUE VERI PROTAGONISTI sembrano al momento ancora i vecchi attori della Guerra Fredda che, cambiati di poco gli abiti di allora, si contendono la scena centroasiatica e dunque l’Afghanistan, il suo boccone più succulento.

La bomba sganciata giovedì, prima ancora dei militanti del “califfato”, è sembrata in realtà diretta altrove per affermare la supremazia degli Stati Uniti nei confronti della Russia di Putin che, in quelle ore, stava preparando il punto di arrivo di una maratona diplomatica durata almeno quattro anni.

Venerdì mattina infatti, i delegati di Cina, India, Pakistan, Afghanistan e delle cinque repubbliche centroasiatiche dell’ex Urss dovevano incontrarsi per una conferenza internazionale proprio sul futuro dell’Afghanistan cui anche Washington era stata invitata e a cui aveva sdegnosamente rifiutato di partecipare.

QUESTA OFFENSIVA RUSSA, iniziata negli ultimi anni dell’era Karzai e proseguita pur con molte difficoltà, nell’era Ghani-Abdullah (i due “copresidenti” attuali), ha molto infastidito gli americani.

La bomba non sembra dunque una coincidenza ma, come l’attacco ieri dei talebani per mostrare i pugni a Daesh, la sottolineatura di una primogenitura sul paese dell’Hindukush. «Roba nostra», sembra aver detto la GBU-43/B Moab con i suoi 11mila chili di esplosivo.

PACHISTANI E AFGHANI, i tradizionali protagonisti di questa guerra locale, sembrano invece, in questo momento, del tutto in sordina. Al netto dei litigi tra le due capitali, all’ordine del giorno con vigore ormai da due anni, entrambi sembrano aver ormai perso del tutto il controllo della situazione.

Islamabad è stata bypassata da russi e americani che trattano, più o meno segretamente direttamente con la guerriglia, e Kabul è ormai così schiacciata sulle posizioni di Washington (da cui spera di ricevere altro denaro e forze militari) che sembra davvero solo una marionetta in mani altrui.

QUANTO ALLA NATO, anche l’Alleanza di volenterosi (tra cui mille soldati italiani di stanza a Herat) sembra aver ormai totalmente lasciato agli americani ogni strategia senza nemmeno salvare le apparenze, come ai tempi della missione Isaf.

Ora la missione Resolute Support sembra solo la misera foglia di fico su decisioni che si prendono a Washington e assai poco a Bruxelles. Dove al massimo è richiesto di rispondere soltanto «Signorsì»