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 Progetti “domestici” per decarbonizzare l’economia - Intervista a Benoît
Leguet 

Progetti “domestici” per decarbonizzare l’economia
Intervista a Benoît Leguet, Direttore di Mission Climat di Caisse des
Dépôts, Parigi
a cura di Karl-Ludwig Schibel

Benoît Leguet sarà ospite e relatore alla conferenza nazionale
dell’Alleanza per il Clima, del Comune di Reggio Emilia e dell’Università
di Modena e Reggio Emilia “Fare clima locale” il prossimo 18 marzo che si
svolgerà nell’Aula Magna dell’Università di Reggio Emilia (Via Allegri).
Relazionerà sulle prospettive di usare il mercato per “decarbonizzare”
l’economia, il funzionamento dei progetti “domestici”, i vantaggi e i
limiti. La materia non è semplice e rimane al lettore valutare fino a che
punto lo sforzo dell’intervistatore di entrare nell’argomento come
dilettante ha contribuito alla comprensibilità della conversazione con
Benoît Leguet.

Che cosa è un “progetto domestico”? Quando ho usato questa espressione il
commento è stato se si intende “domestic” come in inglese “domestic
flights”, cioè voli nazionali, e non domestic nel senso di “in casa”.
Pertanto, che cosa è un “domestic project”?
Usiamo l’espressione “domestic” nell’accezione anglosassone, quindi nel
senso di nazionale. Fondamentalmente un progetto di compensazione domestica
è un progetto che riduce le emissioni di gas serra sul territorio
nazionale. Pertanto corrisponde a un progetto nell’ambito dei meccanismi
flessibili del Protocollo di Kyoto, sia dei Clean Development Mechanism*
che della Joint Implementation**. Il progetto non fa parte di nessuno
schema di riduzione e riceve dei certificati per le attività volontarie che
riducono le emissioni di gas serra.

Perché i progetti domestici sono interessanti? Proponete di estendere i
meccanismi del commercio delle emissioni a dei settori che finora non sono
coinvolti nell’emission trading. Come lei ha detto stiamo parlando di
progetti volontari, quindi chi dovrebbe essere interessato?
Probabilmente questi progetti sono interessanti per noi perché siamo
francesi. Sembra curioso, ma se lei guarda il piano nazionale di
allocazione diventa evidente che solo un quarto delle emissioni fa parte
del ETS, dell’European Trading Scheme***. Il piano nazionale di allocazione
rappresenta solo il 23% delle emissioni nazionali, il che significa che
solo un 23% delle nostre emissioni hanno un incentivo ad essere ridotte. Se
si è un’industria che ha delle quote sotto l’ETS e riduce le emissioni
riceve dei soldi, si possono vendere le quote e incassare, se non si fa
parte del sistema europeo di commercio questo incentivo non si applica. Ci
sono due modi di vedere la stessa cosa: si può dire che c’è il 23% coperto
dal sistema europeo di commercio con degli incentivi finanziari per ridurre
le emissioni o si può guardare dall’altro lato e dire che il 77% delle
emissioni non hanno un incentivo ad essere ridotti. Ovviamente le cose non
stanno così, ci sono altri incentivi come per esempio degli aiuti fiscali,
tasse, ma per i tre quarti delle nostre emissioni non esistono
incentivazioni alla riduzione. Visto che adesso con il sistema europeo di
commercio delle quote di CO2 c’è un prezzo sul carbonio noi abbiamo pensato
che potrebbe essere una buona idea estendere questo segnale di un prezzo di
25,00 euro per tonnellata di CO2 a quei settori che finora non fanno parte
del commercio.

Lei vede dunque questa proposta dei progetti domestici con una connessione
al sistema europeo di commercio delle quote di CO2?
Fondamentalmente sì, se si guarda l’ETS da un punto di vista economico si
vede che questo è il mercato più grande a livello mondiale. Nel 2007 il
sistema europeo rappresentava oltre il 70% del mercato globale del
carbonio, quindi la domanda più grande per la riduzione dei gas serra si
trova su questo mercato. Se poi si guarda il 30% rimanente si vede che una
parte si svolge nell’ambito del Clean Development Mechanism, un mercato che
è strettamente connesso a quello dell’ETS, visto che la domanda per
progetti CDM nasce sul mercato europeo ETS. Quindi, la situazione che
abbiamo è che il mercato europeo è quello più importante a livello mondiale
per la domanda di riduzione delle emissioni di gas serra. Prima di
connettere questo mercato con dei progetti molto distanti in India, in Cina
o dove sia, l’idea di base è di connettere questi progetti di riduzione,
nazionali o anche europei, con il sistema europeo di commercio in modo da
introdurre il segnale del prezzo e decarbonizzare il resto dell’economia.
In Francia, come dicevo, più del 70% delle emissioni non fanno parte del
European Trading Scheme, in Europa sono complessivamente sempre un 60%.

I progetti domestici creerebbero un incentivo per quelle aree che adesso
non sono coperte dal commercio delle quote di CO2?
Non sto dicendo che questa è la strada principale, ma che dobbiamo usare il
segnale del prezzo per decarbonizzare l’economia. Se per ragioni politiche
questo non dovesse bastare a lungo termine usiamo altri meccanismi, come ad
esempio la detrazione fiscale: regionale, territoriale o anche locale, ecc..

Quindi lei sta dicendo che prima lasciamo risolvere al mercato quello che
il mercato è in grado di risolvere e poi guardiamo la situazione per
continuare da lì?
Esattamente così. Usiamo quello che l’industria Europea è disponibile di
pagare e poi possiamo supplementare queste riduzioni di CO2 con altri
incentivi. Probabilmente ci sono un bel po’ di cose che il mercato non può
fare perché è piuttosto miope e questo è anche vero per il commercio delle
quote di CO2. Per uno sviluppo a lungo termine l’Unione Europea, ma anche i
governi nazionali o locali, potrebbero decidere di investire di più nelle
energie rinnovabili o in efficienza energetica e a questo punto si
tratterebbe di attuare delle misure complementari a questi progetti
domestici di riduzione. Stiamo parlando di una figura complementare, non
c’è nessuna concorrenza tra i vari schemi.

A questo punto ovviamente si pone la questione dell’addizionalità. Come si
garantisce che i progetti per i quali vengono emessi dei certificati sono
riconducibili a questo sistema di commercio delle quote?
Il Clean Development Mechanism - perché normalmente si fa riferimento
all’addizionalità nell’ambito di queste misure flessibili - è un meccanismo
di salvaguardia ambientale, se il progetto nell’ambito del CDM non è
addizionale significa che il limite complessivo, il “cap”, nei paesi
dell’Annesso 1 diventa più flebile, quindi aumenta la quantità di emissioni
permesse che non sono previste dal Protocollo di Kyoto. Pertanto è un
problema ambientale e dobbiamo avere delle precauzioni a tale proposito per
assicurare che complessivamente tutti quanti non emettiamo di più del
limite complessivo. Se parliamo della Joint Implementation il problema si
presenta in modo completamente diverso perché stiamo parlando di progetti
all’interno dei paesi dell’Annesso I, vale a dire dei paesi che hanno un
“cap” sotto il Protocollo di Kyoto.
La differenza principale tra progetti di Joint Implementation e quelli del
Clean Development Mechanism è che i primi si svolgono in paesi dell’Annesso
I. Un progetto Joint Implementation non porta alla creazione di nuove quote
di carbonio: le quote CO2 del paese che ospita la misura come definite dal
protocollo di Kyoto, vengono semplicemente trasformate in crediti di
carbonio e trasferiti all’investitore. Il “cap” complessivo per i paesi
dell’Annesso I rimane invariato e il numero di crediti che un progetto di
Joint Implementation riceve non ha nessuna conseguenza sull’efficienza
ambientale del meccanismo.

Lei sta dicendo che la riduzione veramente sta avvenendo e non importa dove
questa riduzione viene registrata fin quando succede?
Per i progetti di Joint Implementation l’addizionalità non ha tanta
importanza quanto dal punto di vista economico: i paesi che ospitano le
misure vogliono essere sicuri di pagare il “prezzo giusto” per le riduzioni
di emissioni – sia in euro o in crediti di CO2 e al tempo stesso deve
essere assicurato che i progetti offrono un vero incentivo per ridurre le
emissioni. Il dibattito sull’addizionalità dei progetti di Joint
Implementation non è tanto un problema del Ministero dell’Ambiente quanto
un problema di arbitraggio del Ministero per l’Economia e le Finanze!

Quello che sta succedendo in Australia, Nuova Zelanda e Canada - tutti e
tre paesi del Protocollo di Kyoto che hanno introdotto i progetti nazionali
- da qualche indicazione su in che direzione sta andando la vostra proposta
o sono situazioni diverse?
Non voglio approfondire sul Canada perché non sono sicuro che abbiano in
funzione uno schema di commercio di quote, certo è che l’Australia e la
Nuova Zelanda hanno uno schema. Per noi il caso interessante è la Nuova
Zelanda che ha ratificato il Protocollo di Kyoto e ha organizzato i suoi
progetti nazionali in parallelo ai meccanismi della Joint Implementation.
Loro la chiamano “riduzione sulla base di progetti” e in fondo è la logica
della Joint Implementation, a me risulta che finora ci siano una quarantina
di progetti in corso. Usano un principio molto semplice cioè il rapporto
tra le unità di riduzioni richieste e le unità di riduzioni che
fattualmente avvengono, vale a dire le riduzioni certificate. Hanno preso
questa quota, che è venuta fuori da un bando, e l’hanno usata per
selezionare e accettare o meno i progetti proposti. Questo significa
fondamentalmente che la Nuova Zelanda non ha dato un credito per ogni unità
di riduzione di emissioni, ma ha dato di meno e questo ovviamente era la
logica del bando. Sull’altro lato ci sono i paesi dell’Europa dell’Est che
tendenzialmente danno via più certificati delle emissioni che veramente
avvengono presumibilmente perché hanno molta “aria calda” e possono dare
via molte quote e questo è un modo per diventare più attraenti per
investitori dall’estero. Siamo su un dibattito economico, se si vuole
essere più attraenti e se si pensa come stato nazionale di poter abbassare
le emissioni a un costo minore, si possono dare via “troppi” certificati
per progetti di Joint Implementation, se non si pensa così la tendenza sarà
di emettere meno certificati ed essere meno attraenti per gli investitori.
Sono questioni di politica economica.

Questo ci porta alla mia ultima domanda. Lei ha in mente un quadro
metodologico francese o un disegno europeo? Se ho capito bene lei favorisce
i progetti nazionali a livello europeo proprio con l’argomento che un 60%
delle emissioni di gas serra attualmente non sono coperte dal Protocollo di
Kyoto, però tutto questo si svolge a seconda delle regole nazionali o di
quelle europee?
Io direi entrambi. Per il primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto,
il 2008/2012 dove rientriamo in questo momento, quello che abbiamo fatto
negli ultimi due anni è stato di dare una mano al governo francese per
sviluppare dei progetti nazionali di Joint Implementation. Abbiamo usato
questo meccanismo perché è quello esistente e noi non volevamo inventarcene
uno nuovo. Abbiamo quindi un quadro di regolamenti e metodologie francesi
compatibili con l’inventario francese perché i progetti devono avere un
qualche impatto verificabile sull’inventario nazionale. È una metodologia
specificatamente francese perché abbiamo tanti incentivi e aiuti locali e
come dicevo tutto questo si riferisce al 2008/2012. Per il periodo dopo il
2012 abbiamo elaborato una nuova proposta dove facciamo riferimento
all’art. 24a delle direttive europee per il commercio delle quote di
emissioni di gas serra che parla delle regole armonizzate per progetti
europei. L’idea che c’è dietro è, a prescindere se ci sarà un Protocollo di
Kyoto 2 o meno, di rendere possibile progetti europei che producono
direttamente certificati europei. Non si andrebbe dunque attraverso Joint
Implementation, cioè progetti tra due paesi con procedure burocratiche
notevoli e autorizzazioni da due governi visto che sono coinvolti un paese
che investe e uno che ospita la misura.
Dal punto di vista di un investitore, tutto questo non ha molto senso.
Vogliono qualcosa di semplice, non interessa il Protocollo di Kyoto ma
guadagnare dei soldi per la riduzione delle emissioni. Intendiamoci è
possibile che si preoccupino molto dei cambiamenti climatici come cittadini
ma come gestori di progetti vogliono una procedura semplice, non troppo
burocratica, che si svolge a livello nazionale o europeo - questo non fa
una grande differenza - ma niente come la Joint Implementation. Non dico
che è un meccanismo cattivo, lo stiamo utilizzando però deve essere
semplificato. E per questo sono convinto che la mossa della Commissione
Europea è ottima perché se possiamo avere delle regole armonizzate almeno a
livello nazionale, meglio ancora a livello europeo, è una ottima cosa. Se i
progetti producono direttamente dei certificati ancora meglio perché così
gli investitori possono guardare il prezzo in qualsiasi borsa in Europa per
vedere quanto vale un certificato europeo. Oggi nessuno sa quanto vale una
unità di riduzione di gas serra, non esiste una piena fungibilità. Così
com’è risulta un bel sistema per consulenti e per fare l’auditing, ma non
lo è per ridurre le emissioni. Io ho lavorato in passato come auditore e so
di che cosa sto parlando. L’idea non è di aumentare i costi di transazione,
l’obiettivo è di concentrarsi sulla riduzione delle emissioni e di
migliorare l’efficienza dei costi.
Per concludere se guardiamo i progetti nazionali dal punto di vista macro
economico significa far pagare l’industria europea per decarbonizzare una
parte dell’economia; non pagherà il contribuente ma lo farà l’industria,
vale a dire il consumatore secondo il principio “chi inquina paga” e questo
da un punto di vista economico a me sembra sensato.

Una delle domande che sicuramente sorgerà nell’ambito della conferenza di
Reggio Emilia del 18 marzo sarà se e come è pensabile che gli enti locali
entrino come attori in questo ambito dei progetti nazionali.
Questo mi sembra molto interessante. I meccanismi della Joint
Implementation sono molto complicati, noi come Caisse des Dépôts abbiamo
fatto due cose per dare una mano agli investitori. Prima monetarizzare le
unità di riduzione delle emissioni - invece di dare agli investitori le
unità di riduzione delle emissioni noi gli garantiamo che compreremo queste
unità in futuro fornendo dei soldi a chi fa i progetti. Questo per molti ha
senso perché non gli occorrono 10.000 quote di riduzione di emissioni se
non sanno che cosa fare con questi certificati, quindi noi ci impegniamo a
comprare tra il 2008 e il 2012 le unità di riduzione, ad esempio per un
prezzo di 12 euro a tonnellata di CO2, sempre a condizione che l’altro lato
è in grado di fornire i certificati. La seconda cosa è di dare una mano per
le procedure burocratiche, quello che abbiamo fatto è stato di pubblicare
un bando per progetti di riduzione di emissioni e finora abbiamo delle
proposte per l’abbattimento di 3 milioni di tonnellate di CO2 attraverso
vari progetti di cui la maggior parte si trova nel settore dell’energia e
dei trasporti - c’è anche un impianto per il trattamento delle deiezioni
animali - e la cosa interessante è che la maggior parte dei progetti in
questi due settori sono stati elaborati da governi locali. Le municipalità
hanno la possibilità di ridurre le emissioni, anche se non lo sanno.

Questo è il nostro lavoro, come Alleanza per il Clima cerchiamo di
sensibilizzare gli enti locali e territoriali per i tanti modi in cui
possono ridurre le emissioni di CO2 nel proprio territorio.
E noi gli faremo vedere come fare dei soldi nel processo.

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* Joint Implementation - attuazione congiunta di progetti tra paesi che
fanno parte del protocollo di Kyoto (paesi dell’Annesso I). JI permette ad
individui in un paese sviluppato di investire in progetti di riduzione
delle emissioni in altri paesi sviluppati ed ottenere in cambio crediti di
carbonio.

** Clean Development Mechanism - permette alle imprese dei paesi
industrializzati con vincoli di emissione di realizzare progetti che mirano
alla riduzione delle emissioni di gas serra nei paesi in via di sviluppo
senza vincoli di emissione.

*** European Emission Trading Scheme (ETS) - La Commissione Europea ha
istituito con la Direttiva comunitaria 2003/87/CE lo scambio di quote
d’emissioni di gas ad effetto serra nella Comunità. Tale sistema di scambio
ha creato un mercato delle emissioni, denominato Emission Trading Scheme
(EU-ETS). L’Emission Trading è uno strumento economico di politica
ambientale che presuppone un tetto alle emissioni (cap) per i singoli
paesi, le industrie in questi paesi e per le imprese nelle varie industrie
ed istituisce un sistema di commercio dei crediti di emissione, ovvero un
mercato dei permessi di emissione.

Benoît Leguet, è project manager di Mission Climat, un centro di ricerca e
analisi sull’economia del carbonio alla Caisse des Dépôts, Parigi, Francia.
La sua ricerca si concentra in questo periodo sui meccanismi basati su
Kyoto, gli investimenti in titoli di carbonio e la neutralità CO2. Inoltre
insegna sull’economia dei cambiamenti climatici in vari Istituti francesi
di ingegneria, alla Università di Troyes di Tecnologia (UTT), all’Istituto
Francese di Petrolio (IFP) e al centro dell’università di Stanford a Parigi.

Con una formazione in Ingegneria industriale e una laurea in Scienze della
Terra, Benoît ha conseguito un Master in Economia Ambientale presso
l’università di Parigi X. Prima di raggiungere la Caisse des Dépôts ha
lavorato come auditore e consulente per Deloitte di Parigi nel settore del
petrolio ed energia. Contribuisce regolarmente alle pubblicazioni di
“Mission Climat” ed è stato il principale contributore alle guide del
Governo francese sui meccanismi di progetto del protocollo di Kyoto.