beni comuni



Un Cantiere sul che fare.

Intervento di Riccardo Petrella, gruppo di lavoro: Beni comuni

Aver messo al centro della nostra riflessione la questione dei beni comuni rappresenta già una novità importante per la sinistra. Ma perché ci occupiamo dei beni comuni? Quali sono le scelte ideologiche, culturali che ci spingono a proporre i beni comuni al centro delle grandi scelte politiche dei prossimi anni?

La prima ragione è che noi crediamo nella vita e nel vivere insieme. Perché oggi il mondo è intollerante? Perché il mondo ha scelto di non credere nella vita e lo ha espresso nel settembre del 2000 anche a livello formale nei Millennium Development: "Non si può sradicare la povertà".

Il mondo ricco occidentale, oggi dominante, non crede nel diritto alla vita, proprio di tutti gli esseri umani, e non crede nel vivere insieme. È appunto su questo "non credere" che noi dobbiamo impegnarci di più e continuare a lavorare: non solo sul diritto alla vita tout court, ma sul diritto alla vita come punto di partenza per l’organizzazione della nostra comunità e della politica: in altre parole, una politica che non ha come suo oggetto fondamentale l’essenza comunitaria del vivere insieme non è politica.

La seconda ragione è che noi crediamo possibile il "pensare l’impensabile". La politica è la capacità di vedere oltre gli steccati imposti dagli interessi dei potenti di turno, ecco perché io la definirei l’arte di rendere possibile l’impossibile.

Il terzo elemento è la questione della fiducia nella politica in quanto espressione fondamentale e quotidiana dell’essere cittadino. Coloro che dichiarano di "non essere interessati alla politica", stanno rinunciando al loro stesso essere cittadini del mondo.

Quarto e non ultimo aspetto legato al dibattito sui beni comuni è che la politica vincente è quella che si dà i mezzi per raggiungere i propri fini e mai il contrario.

Chiarite le ragioni di questa scelta tematica, diventa necessario definire cosa intendiamo con l’allocuzione "beni comuni". Cinque sono i criteri a nostra disposizione che ci permettono di non restare nel vago e nel teorico.

1) L’essenzialità e l’insostituibilità di certi beni per la vita e per il vivere insieme. Prendiamo l’aria come caso esemplificativo. È impossibile sostituire l’aria con un surrogato; mentre è possibile sostituire il dollaro con l’euro, non si può mai sostituire l’aria con qualche altra cosa. Lo stesso ovviamente vale per l’acqua, essenziale ed insostituibile.

Gli economisti sono soliti riferirsi ad un bene comune seguendo criteri di rivalità ed esclusione: questa definizione implica una distinzione tra bene pubblico e bene privato. Quando c’è rivalità e esclusione, ci troviamo di fronte ad un bene privato in quanto si ha un’appropriazione privata che esclude. Al contrario, invece, un bene pubblico non può dipendere dal concetto di rivalità: se mando i miei figli, i miei nipoti a scuola non sto "rivaleggiando" con gli altri. Per avere accesso all’acqua potabile, non è che posso escludere da questo accesso gli altri.

La realtà di oggi però è molto diversa: le pratiche dominanti delle nostre società hanno "spappolato" e distrutto questa non rivalità e non esclusione dei beni comuni. Anche per l’acqua e per l’educazione si ha rivalità e si ha esclusione. Come fare allora per poter cambiare rotta?

2) La responsabilità collettiva di un bene. In che senso esiste la responsabilità collettiva di un bene comune? I beni comuni, a parte l’aria e il sole, non sono accessibili di per sé: se si vuole avere una scuola, bisogna prima costruirla. Se si vuole avere un’educazione, occorre prima formare gli insegnanti. Se si vuole avere l’acqua, dobbiamo andare a cercarla nelle fonti. Se vogliamo sicurezza, dobbiamo creare delle regole da condividere… è quindi evidente che i beni comuni sono costruiti, sono storicamente costruiti e questo contrariamente alla naturalità del concetto del bene comune. E se anche i beni detti naturali sono costruiti, è qui che interviene la responsabilità collettiva. Non sta solo a me andare al pozzo per prendere l’acqua, non sta solo a me costruire la scuola per poi frequentarla: è una responsabilità collettiva. È questo il motivo per cui non può essere affidata alla responsabilità dei privati, che operano e agiscono sempre in termini di scambio. La responsabilità collettiva deve essere assunta dallo Stato, dalla collettività e dai cittadini.

3) Proprio per quanto appena spiegato, il bene comune deve esprimere l’autorità del potere politico. Il concetto latino di Res Pubblica significava lo Stato, l’esistenza di un’autorità che è l’autorità collettiva e che si fornisce di quei mezzi allo scopo di assicurare a tutti l’accesso al Bene pubblico. Di conseguenza, l’esistenza dell’autorità che definiamo statuale (che poi questo Stato sia organizzato come dovrebbe essere, non come oggi, è tutta un’altra storia…), la statualità dell’autorità, cioè la res pubblica politica, è uno dei criteri che definisce e distingue un bene comune da un bene privato.

4) L’integrazione delle funzioni e la proprietà del bene, che devono essere collettive così come la sua gestione, e il controllo politico. Su questo punto, la sinistra, noi, negli ultimi quindici anni, ci siamo sbagliati. Perché abbiamo creduto di poter separare la proprietà dei beni comuni dalla loro gestione, acconsentendo che quest’ultima venisse privatizzata. Il cittadino non gestisce più nulla quando i dirigenti accettano la distinzione tra gestione, proprietà e controllo. Ed è qui che siamo stati tutti fregati. Un bene comune si definisce per l’integralità delle funzioni di proprietà, gestione e controllo. Mai, i rappresentanti della sinistra, dovranno accettare l’idea che ci possa essere una distinzione tra gestione, proprietà e controllo.

5) Se è vero che un bene comune è insostituibile, essenziale, che la responsabilità è collettiva, che c’è l’autorità del politico e che c’è l’integrazione delle tre funzioni, è chiaro che il motore del bene comune è il cittadino. La partecipazione dei cittadini è l’elemento determinante del bene comune; quando questa partecipazione da parte del cittadino non c’è, si ha allora il bene privato. Lo Stato nella società di oggi è ben lontano dal permettere la partecipazione dei cittadini. Quindi, il bene comune è tutto da inventare.

Da dove cominciamo? Con quali beni comuni? Mi limito a fare un primo elenco: aria, acqua, terra, foreste. Questi elementi della vita biologica, fisica, chimica, sono chiaramente essenziali. Ci sono poi la sicurezza e la pace che portano alla giustizia. E ancora: la conoscenza, la conoscenza come bene comune è educazione, informazione, comunicazione. Abbiamo inoltre la salute, l’alloggio e i trasporti, la stabilità finanziaria, l’energia.

Qual è quindi il nodo centrale della battaglia sui beni comuni? Il fatto che il sistema, oggi dominante nella cultura occidentale, ha operato la mercificazione della vita; la privatizzazione dei beni comuni ha portato alla mercificazione della vita stessa e del nostro pensiero: la vita viene presa in considerazione solo in quanto merce; con il diritto di proprietà intellettuale è stata inoltre mercificata anche la conoscenza e il pensiero. Se il nostro pensiero è merce, anche noi siamo merce: da persone ci siamo trasformati in mere risorse umane. È contro queste idee che ci dobbiamo battere.

Se tutto questo appartiene ai beni comuni, è chiaro che non possiamo pensare di affrontare tutte le problematiche contemporaneamente. Occorre fare una scelta sulle priorità. Le scelte sono arbitrarie e soggette a rapporti di forza politici, anche fra di noi. Io proporrei due coppie di priorità: 1) l’acqua e la conoscenza, perché sono i due punti nevralgici della mercificazione della vita di oggi. 2) "l’altro" e il lavoro. Cosa significa "l’altro"? "L’altro" è colui che condiziona la mia esistenza e che noi abbiamo mercificato. Per esempio, oggi amiamo i cinesi perché sono consumatori e azionisti potenziali. Prima, quando non erano né azionisti né consumatori potenziali, non li consideravamo forse diversi da noi? Invece, ora fanno parte della cultura, della civiltà e della società occidentale. Accettiamo "l’altro" solo quando è un "buon immigrante".

Due "coppie" di priorità che toccano, inoltre, un altro nervo scoperto: quello della finanza. La sinistra ha lasciato alle politiche conservatrici l’autonomia nella definizione della finanza. Una capacità di pensiero oggi tutta da reinventare. Ed è uno dei compiti al quale non possiamo più sottrarci.

Occorre capovolgere il rapporto, tutt’oggi dominante, che rende l’economia di mercato il naturale e lo Stato l’artificiale. È cultura dominante pensare che l’economia di mercato sia naturale ed è altrettanto spontaneo "dover giustificare" un eventuale intervento dello Stato. Non è forse questo il famigerato principio di sussidarietà? Prima vale lo scambio tra le persone, poi se lo scambio tra le persone non si occupa dei beni e servizi necessari alla vita e al vivere insieme, allora interviene l’economia pubblica e lo Stato. In poche parole, abbiamo "residualizzato" i beni comuni a scapito di quelli privati. Per riuscire a cambiare strada è necessario riportare la politica al centro dell’attenzione. È la politica che deve guidare lo Stato, non la finanza. Quando gli europei, compresa la Sinistra europea, hanno accettato l’indipendenza dalla Banca Centrale Europea, hanno tolto alla politica il volante dell’automobile Europa.

Dobbiamo eliminare il diritto di proprietà intellettuale. Concepire un’altra maniera di remunerare la creatività individuale, scientifica e tecnologica. Non si può accettare che ci sia un’appropriazione privata del valore aggiunto sul piano delle conoscenze tecniche e scientifiche.

Un enorme mole di lavoro, quella che abbiamo deciso di affrontare, a partire da oggi, tutti insieme. Per farlo dobbiamo darci un luogo coerente, permanente, comune, nostro e cooperativo di elaborazione continua di proposte di contenuto. Questo non è altro che un primo passo. I laboratori, i cantieri, l’università dei beni comuni, dovrebbero essere gli elementi da utilizzare per poter avere un luogo continuo e permanente di elaborazione dei contenuti. E tutto ciò senza mai fare analisi strategica di alleanze politiche fra i partiti.

Come realizzarlo? Inventandoci la gioia di costruire dappertutto i cantieri del bene comune: facciamo i lunedì dei beni comuni, facciamo la festa dei beni comuni, inauguriamo i sindacati per beni comuni, apriamo le università dei beni comuni, i municipi dei beni comuni, inventiamo. A chi spetta agire e con chi agire? In primo luogo ai cittadini. Banale? Retorico? No. Non trasformiamoci in un’élite che dice ai cittadini cosa fare. Noi dobbiamo essere nei luoghi, nelle città, nelle fabbriche, con i cittadini. E poi è compito degli eletti locali, di sindaci ed amministratori, "vivere" il bene comune dal locale. Dal canto loro, i parlamentari, che dovrebbero essere coloro che ci rappresentano, devono legiferare per i beni comuni. Di imprenditori dell’economia cooperativa e di quella sociale, ce ne sono a migliaia, ma sono calpestati, isolati, atomizzati: a loro spetta mettersi insieme per inventarsi la forza dell’economia cooperativa che è stata invece l’elemento che, dopo il diciannovesimo secolo, ha permesso alla nostra società di realizzare certi beni comuni.

E allora con chi? Se il Forum Sociale Mondiale numero 5, resta questa grande, bella passerella di tante battaglie e bandiere non andremo lontano. Perché non riusciamo ad ottenere l’annullamento del debito? Perché quelli che si battono in Belgio non sono in collegamento con quelli che si battono in Nigeria, quelli che si battono negli Stati Uniti non sono legati a quelli dell’India e ciascuno finisce per fare la sua battaglia personale per l’annullamento del debito. Non sono strutturati in modo da rendere l’annullamento del debito una strategia politica. Per concludere, penso che dovremmo far sapere agli amici del Forum Sociale che noi siamo pronti. Vogliamo costruire un Mondo nuovo.