sobrietà. Dallo spreco di pochi ai diritti per tutti



da peacelink.it
mercoledi 9 febbraio 2005

Si può passare da un' economia della crescita a un'economia del limite,
facendo vivere tutti in maniera sicura? L'autore dimostra che è possibile
mettendo in atto 4 rivoluzioni che riguardano stili di vita, tecnologia,
lavoro ed economia pubblica.

"Sobrietà. Dallo spreco di pochi ai diritti per tutti"

Francesco Gesualdi Centro nuovo modello di sviluppo Collana: Nuova Serie
Feltrinelli Pagine: 168 Prezzo: Euro 9 2005
Francesco Gesualdi

Nel tuo libro proponi una scelta apparentemente semplice e comunque
condivisibile, quella di uno stile di vita improntato alla sobrietà. Ci puoi
spiegare in breve la tua proposta?

La sobrietà è uno stile di vita, personale e collettivo, più parsimonioso,
più pulito, più lento, più inserito nei cicli naturali. La sobrietà è più un
modo di essere che di avere. E' uno stile di vita che sa distinguere tra i
bisogni reali e quelli imposti. E' la capacità di dare alle esigenze del
corpo il giusto peso senza dimenticare quelle spirituali, affettive,
intellettuali, sociali. E' un modo di organizzare la società affinché sia
garantita a tutti la possibilità di soddisfare i bisogni fondamentali con il
minor dispendio di risorse e produzione di rifiuti. In ambito personale, la
sobrietà si può riassumere in dieci parole d'ordine: pensare, consumare
critico, rallentare, ridurre, condividere, recuperare, riparare, riciclare,
consumare locale, consumare prodotti di stagione. Naturalmente non dobbiamo
limitarci a rivedere i nostri consumi privati, ma anche quelli collettivi
perché anche fra questi ce ne sono di dannosi e di superflui. Di sicuro
dovremo eliminare gli armamenti, ma dovremo anche sprecare meno energia per
l'illuminazione delle città, dovremo accontentarci di treni meno veloci e
meno lussuosi, dovremo costruire meno strade. Perfino in ambito sanitario
dovremo diventare più sobri affrontando la malattia non solo con la scienza,
ma anche con una diversa concezione della vita e della morte, in modo da
evitare l'accanimento terapeutico e l'eccessiva medicalizzazione di eventi
naturali come la vecchiaia.

Rinunciare al superfluo, ma anche ragionare più analiticamente su tutto ciò
che compone la nostra quotidianità, per la gente può sembrare uno sforzo
straordinario. E' molto difficile cambiare gli stili di vita e le
abitudini...

Dovremmo riflettere di più sui risvolti negativi del consumismo. Un aspetto
che non consideriamo mai è il tempo. Prima di tutto quello che passiamo al
lavoro per guadagnare i soldi necessari per i nostri acquisti. Prendiamo
come esempio l'automobile. Secondo un rapporto dell'Aci pubblicato nel
gennaio 2004, mediamente il possesso dell'auto costa 4.414 euro all'anno.
Qualcosa come 500 ore di lavoro secondo i salari medi. Se ci aggiungiamo il
tempo passato nel traffico, quello che serve per cercare un parcheggio e per
la manutenzione, l'automobile assorbe ogni anno un migliaio di ore della
nostra vita. Se facciamo lo stesso calcolo per tutti gli altri beni ci
accorgiamo che viviamo per consumare. Consideriamo che di media ogni casa
dispone di 10.000 oggetti, contro i 236 che erano in uso presso gli indiani
Navajos. Per ognuno di essi dobbiamo lavorare, recarci al supermercato,
sceglierlo, fare la coda alla cassa. Una volta a casa, dobbiamo pulirli,
spolverarli, sistemarli. Se consideriamo tutto, il superconsumo è un lavoro
forzato che ci succhia la vita. Un altro aspetto da tenere presente sono i
rifiuti. In Italia se ne producono circa 120 milioni di tonnellate, di cui
90 industriali e 30 urbani. Ogni individuo produce mezza tonnellata di
rifiuti domestici all'anno e nove tonnellate di gas serra. L'inquinamento
atmosferico ha il difetto di essere invisibile, mentre i rifiuti solidi li
depositiamo per strada e li dimentichiamo. Ma prima o poi ci presentano il
conto. Il cambiamento del clima è già una drammatica realtà. Potremmo
continuare con le risorse. La base biologica del pianeta, su cui poggia la
nostra esistenza, si sta assottigliando di giorno in giorno. L'acqua,le
foreste, i pesci, i suoli sono elementi già fortemente compromessi. Perfino
le risorse minerarie danno segni di scarsità. Primo fra tutti il petrolio
per il cui controllo siamo tornati a combattere guerre di tipo coloniale.

Nella tua proposta un ruolo importante viene assegnato all'ambito della
produzione locale, con una inedita rivalutazione di lavori e professioni di
tipo artigianale, in grado di sopperire a eventuali cali occupazionali. Ci
puoi spiegare meglio questo aspetto?

Apparentemente la sobrietà è solo una questione di stile di vita. In realtà
è una rivoluzione economica e sociale perché manda in frantumi il principio
su cui è costruito l'intero edificio capitalista. E' il principio della
crescita, invocato non solo dalle imprese, ma anche da chi si batte per i
diritti, in base al credo che senza crescita non può esistere sicurezza
sociale né piena occupazione. Fino ad oggi nessuno ha osato mettere in
discussione questo dogma e stiamo affogando nella nostra opulenza iniqua e
violenta. Ma se riuscissimo ad avere un'altra concezione del lavoro, della
ricchezza, della natura, della solidarietà collettiva, ci renderemmo conto
che è possibile costruire un'altra società capace di coniugare sobrietà,
piena occupazione e diritti fondamentali per tutti. In questa prospettiva
l'economia locale assume un ruolo centrale per tre ragioni. La prima è di
tipo energetico. Dobbiamo risparmiare carburante, perciò dobbiamo avvicinare
la produzione al consumo. Inoltre dobbiamo sfruttare l'energia rinnovabile
che per definizione è una risorsa diffusa da sfruttare su base locale,
addirittura individuale. Dovremo dire addio alle megacentrali che producono
energia elettrica per intere nazioni e dovremo abituarci ad un pullulare di
microcentrali che producono per le singole famiglie o per le singole
imprese. In altre parole dovremo trasformarci da consumatori in prosumatori.
Gente, cioè, che al tempo stesso produce e consuma in un rapporto di scambio
continuo con la rete, di cui a volte si è fornitori, a volte fruitori. La
seconda ragione è di tipo ambientale. Un tempo, quando il pane era fatto col
grano del luogo, quando i pesci erano pescati nel fiume che attraversa la
città, quando ci si scaldava con la legna dei boschi circostanti, ci
prendevamo cura dei suoli, delle acque, dei boschi perché sapevamo che la
nostra vita dipendeva dalla loro integrità. Oggi, invece, che il nostro
benessere si fonda su oggetti comprati al supermercato e provenienti da
chissà dove, non ci preoccupiamo se i fiumi sono delle fogne, se i terreni
si impoveriscono o se scarseggia l'acqua per irrigare. Solo tornando ad
avere un rapporto intimo col nostro territorio capiremo quanto sia
importante prenderci cura di lui. Allora analizzeremo ogni collina per
valutare se può accogliere generatori a vento. Selezioneremo ogni rifiuto
per evitare la presenza di discariche disgustose. Cementificheremo il meno
possibile per rispettare i terreni agricoli. Ripuliremo ogni bosco per
evitare incendi e raccogliere meglio i suoi frutti. Doteremo ogni zona
rurale di servizi pubblici essenziali per trattenere la gente. Svilupperemo
le coltivazioni tradizionali e ogni possibile attività artigianale e
manifatturiera in base alle specificità del territorio. La terza ragione è
di tipo occupazionale. Oggi aspettiamo che siano le multinazionali ad aprire
delle fabbriche, che magari fanno funzionare con semilavorati importati
dall'altra parte del mondo, o ad avviare delle piantagioni, che magari
coltivano con semi geneticamente modificati. Ma le multinazionali adottano
la politica del mordi e fuggi: investono il meno possibile e si fermano
nello stesso posto finché ci sono risorse da saccheggiare e manodopera da
sfruttare. Poi se ne vanno, noncuranti dei disastri ambientali e della
disoccupazione che lasciano dietro di sé. L'alternativa al caos disfattista
delle multinazionali è il ritorno all'economia locale. Le nostre regioni,
con i loro boschi, i loro terreni, i loro laghi, i loro fiumi, le loro
pianure, le loro colline, i loro mari, le loro spiagge, i loro pascoli, i
loro saperi, conservano tesori nascosti che potrebbero garantire
un'occupazione stabile a tantissima gente. Si tratta solo di valorizzarli
garantendo ovunque i servizi essenziali come la scuola, la sanità di base,
le comunicazioni, l'assistenza tecnica affinché la vita possa essere
dignitosa anche nei luoghi più remoti. E naturalmente si tratta di garantire
uno sbocco di mercato, sicuro, intramontabile. E' il mercato locale
sostenuto da una nuova consapevolezza dei consumatori e da adeguate leggi e
misure fiscali.

Nel libro, accenni al ruolo importante che dovrebbe giocare lo stato. Una
sorta di nuovo welfare, incentrato sull'accudimento e l'aiuto svolto dalle
comunità locali per permettere il mantenimento di strutture di utilità
sociali quali ad esempio gli ospedali e le scuole. Ci puoi spiegare meglio
questo aspetto? Questa tua consapevolezza deriva forse dalle esperienze
attuate dalle banche del tempo, già presenti sul territorio nazionale e non
solo?

Preferisco parlare di comunità, piuttosto che di stato. Lo stato è un
concetto di tipo mercantile. E' un corpo a se stante a cui si chiedono
servizi in cambio di tasse. Pur essendo di tutti, non te lo senti tuo,
perché il rapporto è mediato esclusivamente dal denaro. Invece dobbiamo
recuperare l'idea di comunità, un gruppo sociale di cui ci si sente parte
integrante, perché si hanno legami che vanno oltre il denaro. Sostengo
questa posizione non solo per una questione di democrazia e di
partecipazione, ma anche di efficienza. Oggi i bisogni sociali sono così
vasti che ci vorrebbe un esercito per soddisfarli. Per di più i governi
trovano mille pretesti per tagliare le spese sociali. Ed è uno scandalo. Ma
neanche l'economia più forte potrebbe raccogliere tasse sufficienti per
pagare gli stipendi a centinaia di migliaia di operatori. Meno ancora ne
potrebbe raccogliere un'economia che si ispira alla sobrietà. L'alternativa
è la partecipazione diretta ai servizi da parte dei cittadini. La tassazione
del tempo, invece della tassazione del reddito. Del resto, in ambito sociale
non ci vogliono sempre dei professionisti con anni di studio sulle spalle.
In molti casi basta la piccola solidarietà diffusa a livello di quartiere.
Nel caso degli anziani basterebbe che le famiglie di ogni condominio si
facessero carico delle due o tre coppie non più autosufficienti. Che si
organizzassero a turno per preparare i pasti, per tenere le loro case in
ordine, per fare la spesa, per aiutarli a farsi il bagno. In una parola
basterebbe riattivare la politica del buon vicinato in uso nei caseggiati di
una volta. Riattivarla e riconoscerla come servizio sociale. Lo stesso
riconoscimento che andrebbe dato al lavoro svolto fra le mura di casa. I
figli sono il fondamento del domani ed è interesse di tutti che crescano
sani, equilibrati e ben educati. Il patto fra comunità e cittadini potrebbe
essere semplice. Ogni adulto mette a disposizione 10 giorni al mese, o
quello che sarà, e in cambio si aggiudica il diritto, per sé e i propri
familiari, ad accedere, gratis, a tutti i servizi pubblici. Non più ticket
sulla sanità. Non più tasse di iscrizione a scuola. Non più biglietti per
gli autobus di città e per i treni interregionali considerati trasporti
essenziali. Ma un'economia pubblica che si rispetti dovrebbe produrre anche
energia elettrica, dovrebbe gestire acquedotti e fogne, dovrebbe produrre
alimenti di base, dovrebbe produrre vestiario essenziale e molti altri
prodotti di prima necessità. Dunque il patto dovrebbe anche includere il
pagamento, ad ogni membro della comunità, di un assegno mensile per
l'acquisto dei beni e servizi essenziali acquistabili in quantità variabili.
Una sorta di reddito di esistenza, di reddito di cittadinanza garantito a
tutti, abili e inabili, uomini e donne, ricchi e poveri, dalla culla alla
tomba. Con un colpo solo risolveremmo anche il problema delle pensioni che
oggi viene fatto passare come la rovina della società. A prima vista, l'idea
della partecipazione diretta ai servizi pubblici può sembrare bizzarra, ma
pensandoci bene non è una grande novità. Un rapporto pubblicato dalle Acli
nel giugno 2003, ci rivela che il 50% degli italiani si impegna nel
volontariato. Chi per imboccare gli ammalati, chi per spegnere gli incendi,
chi per ripulire le spiagge, chi per raccogliere feriti, chi per servire la
minestra nella mensa dei poveri. E il volontariato cos'è, se non un servizio
gratuito messo a disposizione della collettività?

Come intendi il rapporto tra piano globale e locale?

Per regioni di sostenibilità, di partecipazione e di democrazia, sono
convinto che dobbiamo valorizzare il locale sul globale. Ma ciò non
significa opposizione a qualsiasi accordo planetario. Proprio chi ha a cuore
le sorti del pianeta insiste sulla necessità di un livello decisionale
mondiale. Il problema è per che cosa e da parte di chi. Il sistema lavora in
maniera autoritaria per un ordine mondiale al servizio delle multinazionali
e dei paesi forti. Noi vogliamo lavorare in maniera democratica per un
ordine mondiale al servizio dell'equità, dei diritti, della pace, dei beni
comuni. Il sistema stipula accordi per garantire l'espansione degli affari.
Noi vogliamo accordi per garantire un uso equo delle risorse, per proteggere
il clima, i mari, le foreste, per garantire relazioni economiche rispettose
dei diritti dei deboli. Se qualcuno pensa di potere fare politica senza
occuparsi del globale è sconfitto in partenza. Ma si può fare politica
globale proprio partendo dal locale. Molti accordi stipulati in seno
all'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) hanno una ricaduta capillare
che condiziona anche le scelte delle amministrazioni comunali e regionali.
Basti pensare all'Accordo sui servizi. Se questo accordo verrà perfezionato,
diventerà obbligatorio lasciare il libero ingresso alle multinazionali in
servizi di utilità pubblica come gli acquedotti, la sanità, la pubblica
istruzione e financo la viabilità. Ma c'è un modo per impedire a questo
accordo di essere attuato. La via si chiama disobbedienza civile. Se i
comuni si rifiutassero di procedere alle privatizzazioni si creerebbe una
pressione molto più efficace di qualsiasi manifestazione di piazza che
obbligherebbe il Governo e il Parlamento a riconsiderare il trattato sui
servizi. Ecco l'importanza di partecipare alla vita pubblica locale in tutti
i modi possibili: la presenza nei consigli comunali, le attività di
sensibilizzazione popolare, le campagne di pressione nei confronti
dell'Amministrazione. La parola d'ordine oggi deve essere azione
contemporanea a tutti i livelli nei confronti di tutti i poteri, con due
strategie: la resistenza e la desistenza. Frughiamo nella nostra fantasia
per non lasciare niente di intentato.

Dal Capitolo 1, Squilibri scandalosi

Una volta tanto svègliati dall'apatia e imponiti un sussulto di dignità.
Scrollati di dosso la scimmia dell'indifferenza. Liberati dalle frivolezze
della televisione. Vai oltre il provincialismo imposto dalla grande stampa.
Dai un calcio alla retorica del nazionalismo, del patriottismo, del
militarismo e altri rigurgiti fascisti. Torna a pensare con la tua testa e
guarda il mondo in faccia in tutta la sua realtà. Allora scoprirai che
l'umanità sta vivendo il più grave scandalo della sua storia. Mai ha
prodotto tanta ricchezza, mai ha creato tanta povertà.

Poveri in casa dei ricchi

Che viviamo in un mondo ricco, non abbiamo bisogno che ce lo raccontino.
Basta guardarci allo specchio, mettere la testa nei nostri guardaroba, nei
nostri frigoriferi, nei nostri garage, nelle nostre pattumiere. Se facessimo
attenzione al nostro stile di vita ci renderemmo conto di vivere addirittura
nell'opulenza e nello spreco. Ignoriamo, però, che è una condizione di
privilegio riservata a pochi.
La povertà sta entrando a passi da gigante anche nelle nostre società
opulente e non colpisce solo gli immigrati clandestini, ma i nostri stessi
connazionali. Le statistiche ci dicono che in Italia la povertà riguarda
quasi il 12% della popolazione per un totale di sette milioni di persone. Ma
la Cgil ritiene che siano molti di più perché, ci avverte, ci sono tre
milioni di lavoratori che guadagnano meno di ottocento euro al mese e altri
tre che ne guadagnano meno di mille.
Nella vecchia Europa dei quindici, i poveri sono 55 milioni pari al 14%
della popolazione, mentre negli Stati Uniti sono 49 milioni e nell'Europa
dell'Est addirittura 157 milioni. Sommati a quelli del Giappone e
dell'Australia fanno 283 milioni, pari al 23% della popolazione dei paesi
industrializzati.

Per chi la vive, la povertà non ha bisogno di molti aggettivi. Ma chi la
studia ha bisogno di sezionarla, misurarla, classificarla. Per esempio, la
povertà che si incontra nella nostra parte di mondo è definita povertà
relativa per indicare che è il risultato di un confronto. Più precisamente,
si considera povero chiunque sia nell'impossibilità di andare oltre il 50%
dei consumi medi. Un caso è rappresentato dalle famiglie di due persone con
entrate inferiori agli ottocentosettanta euro al mese.
La categoria dei poveri è molto vasta e comprende disoccupati, anziani con
pensioni insufficienti, bambini senza famiglia, malati psichici abbandonati.
Alcuni si trovano in condizione di povertà strisciante, mentre altri fanno
addirittura la fame. La Fao, l'agenzia delle Nazioni unite per
l'agricoltura, ci ricorda che nel mondo opulento ben dieci milioni di
persone soffrono la fame. Camminando per le città, capita anche a noi di
vedere senzatetto che frugano nei bidoni della spazzatura in cerca di avanzi
di cucina. Ma al colmo del paradosso, la povertà si manifesta anche con il
volto dell'obesità, sintesi perfetta di quattro privazioni: la mancanza di
istruzione, la mancanza di senso critico, la mancanza di dignità e la
mancanza di denaro. L'obesità è emblema del consumismo a buon mercato di chi
può ingozzarsi solo di cibo spazzatura confezionato con le peggiori
porcherie salvacosti. [...]