impariamo dalle catastrofi



Serge Latouche: "Impariamo dalle catastrofi"
Data di pubblicazione: 01.04.2005

Autore: Vergano, Chiara

L'Unità (1 aprile 2005) intervista lo studioso Serge Latouche, a Bologna
per una conferenza sulla «Pedagogia della catastrofe».

Bologna incontra Latouche il «guru» dei new global

L'Unità (1 aprile 2005) intervista lo studioso Serge Latouche, a Bologna
per una conferenza sulla «Pedagogia della catastrofe».

Per l'Occidente, «bolide che corre all'impazzata senza autista e senza
freni», c'è forse ancora una ricetta, una via d'uscita. Serge Latouche, a
Bologna per una conferenza, parla di «pedagogia della catastrofe». Una
catastrofe - prossima, futura - che sarà ancora più grande delle
precedenti: solo allora, forse, la gente saprà risvegliarsi, reagire e
costruire una società diversa, giusta, rispettosa dell'ambiente. Perfino
pacifica. Negli ultimi venticinque anni Serge Latouche ha contribuito alla
chiarificazione e alla maturazione dei concetti intorno a cui si sono
costruiti i movimenti new global. Nato a Vannes, in Bretagna, nel 1940, è
economista di formazione e antropologo per esperienza. Negli anni settanta
ha trascorso molto tempo in Africa occidentale, e qui ha maturato una
svolta del suo pensiero, che dalle posizioni marxiste tradizionali lo ha
portato a una critica radicale delle ideologie del «progresso» e dello
«sviluppo», anche nella loro versione di sinistra. Nell'81 ha fondato con
Alain Caillé il MAUSS (Movimento AntiUtilitarista nelle Scienze Sociali), e
l'omonima rivista di cui Bollati Boringhieri pubblica l'edizione italiana.
La stessa casa editrice ha pubblicato in Italia i suoi libri più
importanti.

Professore, questa crisi profonda in cui vive l'Occidente si riflette nella
struttura stessa di tante città, delle metropoli «esplose» e sovraffollate.
Lei è appena tornato dall'Africa; cos'ha visto?
«Ero stato a Dakar l'ultima volta cinque anni fa, la mia impressione è che
anche qui il caos nel frattempo sia aumentato. Il traffico è terrificante,
ci vogliono ore per spostarsi dalla periferia al centro. Bus e taxi sono
molto vecchi, bruciano carburante che causa, a livello urbano, un
inquinamento enorme. Non c'è più Stato; ovunque c'è solo la polizia, che
non fa il suo lavoro. In passato avevano previsto di costruire alcune
autostrade, ma il denaro stanziato è scomparso. Una cosa, però, è rimasta
identica così com'era cinque anni fa: la gioia di vivere della gente, i
tantissimi giovani che incontri nelle strade».

In un mondo ormai al collasso, si parla sempre più di sviluppo sostenibile.
È un riferimento obbligato per i politici e i cittadini?
«È un ossimoro, nient'altro. Lo sviluppo non può essere sostenibile: tutti
questi danni - ambientali, climatici - vengono dallo sviluppo. Il problema
è che non siamo capaci di rinunciare alle nostre comodità, vogliamo avere,
come si dice in Francia, "il burro e il denaro del burro". Il nostro modo
di vivere non conosce futuro: vogliamo produrre di più, depredare di più,
crescere di più. Ma una crescita infinita non è possibile in un pianeta
finito».

È lecito, a questo punto, sperare che ci sia una qualche possibilità di
salvezza all'orizzonte?
«Gli uomini non diventeranno certo tutti ragionevoli dall'oggi al domani.
Il fatto è che, a un certo punto, saremo più o meno costretti a rivedere il
nostro modo di vivere. Per quanto tempo avremo ancora petrolio a buon
mercato? Non lo sappiamo. Ma quando non ci sarà più non vedremo aerei
volare in cielo, né automobili sfrecciare nelle nostre metropoli. Allora,
tutto il sistema andrà ripensato, necessariamente. I tempi non sono troppo
lontani: fra pochi anni dovremo, per amore o per forza, rivedere il nostro
modo di vivere, di funzionare. Tanto più che già oggi noi - intendo l'Occidente,
bolide che corre all'impazzata senza autista e senza freni - viviamo male.
Non siamo felici: potremmo stare molto meglio, distruggendo meno l'ambiente.
In Africa, invece, nonostante tutti i problemi, la gente ha ancora un'incredibile
capacità di fabbricare gioia di vivere».

Nei suoi scritti, più volte lei auspica per la società una «decrescita». Di
cosa si tratta, precisamente?
«È un termine per indicare la necessità e l'urgenza di un'inversione di
tendenza rispetto al modello dominante. Dobbiamo ricostruire un'altra
civiltà: abbiamo conosciuto la civiltà dello sviluppo, ora è tempo di
uscire dall'economia, ritrovare la dimensione sociale, politica. La
rifondazione del sociale e del politico passa per la decrescita. Dobbiamo
imparare a ricostruire i legami».

Quanto può contribuire a questo processo la società civile?
«Società civile è un'espressione usata e abusata. Penso alla Francia, dove
più che di società possiamo parlare di un gruppo di individui che si
muovono qua e là. Certo, esistono anche dei movimenti, come quello contro
la globalizzazione. E sono proprio i movimenti che dovranno farsi carico
della ricostruzione. Al tempo stesso, però, è questa stessa società civile,
se vogliamo chiamarla così, che deve "decolonizzare" il suo immaginario,
cioè liberarsi dai falsi miti dell'economia, dello sviluppo, del progresso.
Bisogna fare resistenza e dissidenza, come igiene di vita. In teoria tutti
sono d'accordo: ci vuole più giustizia, bisogna vivere meglio, ci deve
essere meno inquinamento. Ma in Francia, quando il prezzo della benzina era
un po' più alto, tutti sono scesi in piazza a protestare. A questo punto,
non mi resta che pensare alla "pedagogia della catastrofe"».

Ovvero?
«Quando le catastrofi non sono troppo gravi per distruggere tutto, ma lo
sono abbastanza per far prendere coscienza alla gente del rischio che si
corre, ecco, a quel punto hanno un ruolo pedagogico. La gente si risveglia.
Penso a Chernobyl, che ha convinto gli italiani a dire "no" al nucleare.
Nei prossimi anni ci aspettano sempre più catastrofi; praticamente, siamo
impegnati in una gara tra cambiamento e catastrofe. Ed è davvero importante
prepararsi a cambiare strada».

In questo scenario, la pace è destinata a rimanere un'utopia?
«Se fra alcuni anni ci sarà, come penso, una profonda crisi di questo
sistema, allora ci saranno anche le condizioni per ricostruire un mondo
davvero pacifico. Adesso sembra impossibile, con quanto sta accadendo. Gli
Stati Uniti, dopo l'11 settembre, potevano scegliere tra due strade: capire
che non potevano più funzionare come potenza imperialistica, oppure
impegnarsi in questa guerra senza fine. Hanno scelto la seconda opzione,
ora ne vediamo le conseguenze. Il neo-conservatorismo di Bush incoraggia l'integralismo,
non solo islamico. Fa crescere il risentimento, anche perché gli Stati
Uniti sono difensori di un modello che genera sempre più disuguaglianza, a
livello planetario. La miseria cresce, e favorisce la frustrazione, la
disperazione. Fa il gioco dei movimenti fanatici, integralisti, nutre il
terrorismo. Vincere gli Stati Uniti sul piano monetario non è possibile; ma
loro stessi dovranno fare i conti con il sistema che hanno creato, da cui
verranno, prima o poi, inevitabilmente paralizzati».