parigi la rivolta di una generazione che non ha più avvenire



da Eddyburg.it
Le Goff: "La rivolta di una generazione che non ha più avvenire"
Data di pubblicazione: 07.11.2005

Autore: Del Re, Pietro

"L'odio è soprattutto rivolto contro la società e contro uno dei suoi simboli di successo. Le colpe del governo sono enormi". Da la Repubblica del 7 novembre 2005

"Più che ai moti studenteschi del Sessantotto, la violenza dei ragazzi di banlieue mi fa pensare alla rivolta dei Ciompi che vide opporsi nella Firenze del Trecento i lavoratori tessili alla borghesia cittadina", dice Jacques Le Goff, grande medievalista, raffinato scrittore ed esperto conoscitore della storia d'Italia. "Mi vengono in mente anche le sommosse dei chartists, durante i primi movimenti operai nell'Inghilterra appena industrializzata". La conversazione di Le Goff spazia da jacqueries a sanguinosissime repressioni, da insurrezioni a teste mozzate. Poi però il celebre studioso comincia a sparare a zero sullo stato francese e sulle colpe del suo massimo rappresentante, il presidente Jacques Chirac, che definisce una "nullità politica". "Non è il governo di centrodestra che ha creato la situazione attuale, ma è lui che l'ha aggravata".
Professor Le Goff, come si è giunti a questa crisi?
"È una situazione latente, che cova sotto le ceneri da diversi anni. Perché è esplosa proprio adesso? Per via delle drammatiche condizioni economiche, sociali e culturali in cui si trovano questi giovani che non sono minimamente integrati e che non hanno avvenire".
Ma che cosa ha scatenato il caos?
"Vede, non è esatto sostenere che la polizia francese sia interamente razzista, però è innegabile che tra le sue forze ci sia un certo numero di uomini razzisti e violenti. Qualche giorno fa due giovani banlieusards sono morti durante gli scontri: ebbene, il ruolo della polizia in quell'incidente è rimasto oscuro. Poi ci sono state le dichiarazioni del ministro degli Interni, Nicolas Sarkozy, che ha trattato questi giovani di racaille (feccia, ndr). Quest'ultimo fatto ha modificato lo stato d'animo dei rivoltosi, i quali adesso si sentono abbandonati e insieme disprezzati".
Quali soluzioni suggerisce per riportare la calma?
"Bisognerebbe anzitutto trovare un lavoro ai disoccupati per integrarli in quella società che vorrebbero distruggere. Ma questo mi sembra un obbiettivo difficilmente raggiungibile perché le politiche sociali del governo francese sono disastrose".
Crede che le scuse del ministro Sarkozy, richieste sia da parte dei rivoltosi sia dall'opposizione, servirebbero a placare gli animi?
"Credo che i problemi di rispetto e di disprezzo siano fondamentali. Del resto, la ricerca del perdono è diventata una consuetudine politica. Va di moda. Giovanni Paolo II ha chiesto scusa agli ebrei per le persecuzioni subite durante l'inquisizione. Chirac, e questo è un punto sul quale si è comportato correttamente, ha chiesto scusa per gli eccessi della colonizzazione francese, soprattutto in Algeria. Molti europei esigono dai turchi che questi chiedano scusa per il genocidio degli armeni. Detto ciò, non credo che basterebbe un "mi dispiace" pronunciato da Sarkozy per risolvere la crisi".
E allora come rispondere a tanta violenza?
"L'ostilità dei giovani è rivolta anzitutto contro la polizia, poi contro il governo, infine contro l'insieme della società. È per questo che, sia pure in modo inconsapevole, scatenano il loro odio contro uno dei simboli del successo nella nostra società: l'automobile. L'atto simbolico della rivolta è incendiare le macchine".
Quindi?
"Le colpe prima del governo Raffarin e poi di quello Villepin sono enormi, poiché hanno fatto scomparire quelle strutture che servivano a smussare le tensioni. Mi riferisco, per esempio, alla polizia di quartiere che aveva anche il compito di discutere con i giovani. Oggi, nelle banlieues esiste soltanto una "polizia di repressione". Sono stati anche cancellati molti ruoli di mediazione. Penso a quegli operatori sociali incaricati di far regnare una certa pace sociale creando forme di dialogo tra le comunità".
Sono "organizzati" questi giovani, come sostengono le autorità?
"Non credo. Si tratta piuttosto di fenomeni di contagio, di imitazione, che fanno sì che le violenze si propaghino all'interno della regione parigina".
Come andrà a finire?
"Sono ottimista e ma anche pessimista: ottimista perché non credo che si arriverà a una violenza generalizzata; pessimista perché le cause profonde del disagio di questi giovani dureranno ancora a lungo, almeno fino al 2007, ovvero fino a quando al potere ci sarà Chirac. Fino a quella data, lo stato sarà incapace di trovare soluzioni adeguate".
Da Rio a Nairobi e da Parigi a Roma? Crede che un giorno non troppo lontano si parlerà di mondializzazione della violenza nelle periferie?
"Può darsi. Ma al momento quello che accade nelle favelas brasiliane è molto diverso da quanto accade nelle banlieues parigine. Ma non possiamo escludere che queste differenze vadano assottigliandosi".
Non pensa che nell'era della televisione uno dei motivi che spingono alla devastazione e al saccheggio sia quello di apparire in video?
"Sicuramente. Credo tuttavia che nelle periferie parigine la violenza non sia un fine ma un mezzo: è «Sicuramente. Credo tuttavia che nelle periferie parigine la violenza non sia un fine ma un mezzo: è lo strumento di rivendicazione per portare i problemi di una generazione sulla pubblica piazza». 


Periferie, di che cosa?
Data di pubblicazione: 07.11.2005
Autore: Caudo, Giovanni

Le periferie di Parigi bruciano. Guerriglia urbana in aree di degrado fisico e sociale. Periferie si, ma di cosa?

A Roma, nella periferia sud, in fondo a via Gerocarne, oltre gli argini del Tevere, nel canneto una donna e un uomo abitano insieme. Vengono dalla Romania. Poco lontano, stesi sul prato, ci sono i loro vestiti ad asciugare. La riva del fiume è lì davanti, un passo oltre e sei nell’acqua. Pochi metri più in là, un sentiero tra la vegetazione rivela una roulotte, una tettoia, qualche sedia, una doccia arrangiata con il bidone in alto. Tra le canne, una sedia bianca in plastica, opportunamente modificata, è il bagno. Ancora oltre, fili per stendere i panni rivelano altre presenze umane. Presenze precarie ma anche luoghi “arredati” in un modo che ti sorprende, nel senso che non ci avresti mai pensato che si poteva ri-dare senso a tante di quelle cose che buttiamo.
Poco prima, proprio sull’argine del fiume, Giorgio, rumeno anche lui, ha messo insieme una roulotte, qualche tettoia, divani, mobili, sedie, ha anche un letto per il figlio che la domenica lo viene a trovare. Non ha mai parlato con la donna e con l’uomo rumeni che vivono nel canneto. Lui non si nasconde anzi, la sua baracca è visibile da tutti e lui vede la borgata ex abusiva, gli abitanti lo conoscono e ha un buon rapporto con loro. Una baracca sull’argine del fiume, una bicicletta per muoversi sono molto meglio di quell’appartamento a Ostia vicino al Todis dove abitavano in ventuno con un solo bagno. Qui lui ha anche la doccia.
Se si risale verso Magliana, dove il fiume piega un po’, si trova una vera e propria baraccopoli come quelle delle metropoli dell’altro mondo, ma anche come i tuguri degli anni ’60. Anche qui rumeni, qualche giorno fa un incendio, per il momento solo una baracca bruciata. Risali il fiume e in centro, in pieno centro, sotto i ponti e lungo le sponde del Tevere una presenza continua e diffusa di un abitare precario che va avanti da tempo. Più a nord, verso Tor di Quinto e, ancora, nella zona oltre l’aeroporto dell’urbe altre presenze di un abitare sul “bordo”.
Che tipo di periferia è questa che attraversa il centro e che ci sta davanti mentre svolgiamo le nostre attività quotidiane? O, piuttosto, di che “cosa” è periferia? Cos’è quello che sta attorno a quello che semplicemente indichiamo come periferia? Dov'è il centro di questa periferia, quel luogo da cui secondo un movimento centrifugo giungono fino a qui queste tracce?
La periferia messa a fuoco e fiamme non illumina il degrado sociale e fisico dei quartieri ma tradisce la rimozione di un pensiero sulla città, su cosa è diventata la città, sulle disuguaglianze prodotte, qui e altrove, dal modello economico neoliberista.
E’ vero o non è vero che da tempo le città non sono più nell’agenda politica pubblica? E’ vero o non è vero che la sicurezza urbana è il modo, ormai prevalente, con cui le città entrano nei dibattiti, nelle agende della politica (ma ne escono presto, quanti si ricordano ancora oggi delle polemiche estive del 2003 attorno agli omicidi avvenuti nella periferia Milanese, a Rozzano?).
Si può cambiare rotta? Possiamo tornare a guardare le città come a luoghi dell’innovazione, della crescita e della giustizia sociale? La risposta deve essere si, e bisogna fare in modo che le città (non solo le periferie) tornino ad essere un tema centrale nel momento in cui ci si appresta a formulare il programma di governo.
I dati positivi sulla crescita del Pil, come dei posti di lavoro, registrati dalle principali città italiane, non bastano e, anzi, ci nascondono una crisi che si trascina, si radicalizza e che modifica strutturalmente il carattere delle città. La crescita degli indicatori economici, registrata dalle statistiche, non ci dice nulla sulle persone che sono dovute andare via dalla città, in provincia, in cerca di casa, su dove portano i figli a scuola, su dove trovano spazi di socialità e di solidarietà. L’emergenza ambientale registrata nelle grandi città italiane è solo la manifestazione ultima di una sofferenza sociale, di disagi di uomini, di donne, di ragazzi e ragazze, di bambini e anziani. La manifestazione del bisogno di spazi dell’abitare, di possibilità di spostamento, di cultura e di opportunità di socialità. Per questo non basta la tecnologia pulita applicata all’automobile, il problema è di natura diversa. Oggi, spostarsi dentro le città è più difficile di ieri, lo si fa più lentamente. Le proteste dei pendolari che viaggiano sui treni regionali sono la spia accesa sulla carenza dei treni ma, anche, sulla difficoltà più generale di vivere e lavorare in città. Non sono anche queste storie di periferia?
Le periferie di Parigi sono a fuoco e fiamme ma in pochi hanno accennato qualche perché, qualche ragione. Pare che anche in questo caso si avanzi la giustificazione di rito, l’integralismo islamico, e si costruisce così il velo che nasconde le nostre contraddizioni. Ad esempio, c’entra o non c’entra l’emergenza casa? C’entra o non c’entra che anche in Francia non si costruiscono più case popolari e che i municipi quelle che hanno le vendono? C’entra o non c’entra che non ti basta uno stipendio per avere in affitto un bilocale? C’entra o non c’entra che su 340 mila richiedenti un alloggio nell’area parigina non c’è alcuna disponibilità di alloggi? C’entra o non c’entra la corsa senza fine del mercato immobiliare, canoni e valori degli immobili cresciuti a dismisura. Il più lungo ciclo immobiliare di segno positivo, cominciato già nel 1996, molto prima della bolla della new economy e delle torri gemelle. C’entra o non c’entra la redistribuzione della ricchezza che sta producendo una sempre più accentuata polarizzazione tra ricchi e poveri. C’entra o non c’entra che circa 6 milioni di persone in Francia sono relegati in quartieri-ghetto delle grandi città dalle quali sono stati esclusi fisicamente e socialmente. Siamo sicuri che non c'entra nulla il nostro passato e come nell’ultimo film di Haneke non abbiamo “Niente da nascondere”?
Il problema non è nel degrado delle periferie, nei bassi livelli di vita e di vivibilità dei quartieri, questi sono solo i risultati più evidenti di un malessere.
Solidarietà e partecipazione si stanno diffondendo e attraversano le città non solo più nelle periferie. In molti casi queste forme rappresentano l’unico modo per soddisfare bisogni essenziali: realizzare un parco, costruire un asilo, una casa o una struttura per ospitare gli immigrati. Le esperienze cooperative e del volontariato sono oggi una risorsa importante per rispondere nei contesti urbani ai bisogni primari (forse è anche per questo che da noi la situazione è meno incandescente). Ma sono anche la misura della febbre del crescente disagio sociale provocato dall’arretramento delle politiche pubbliche di welfare.
E’ per questo che sempre più forte e urgente si fa il bisogno di un nuovo progetto politico con valenza strategica e di interesse nazionale che colga la sfida di collegare lo sviluppo economico e le aree urbane secondo principi di equità e di giustizia. Per questo il soggetto pubblico deve recuperare autorevolezza e tornare a fare la regia dei processi di trasformazione urbana. Non si può essere fraintesi se si afferma che oggi la carenza principale del soggetto pubblico non sta nelle risorse economiche ma nella capacità di formulare con chiarezza politiche pubbliche. Abbiamo bisogno di più mercato ma il mercato ha bisogno di più pubblico, e se guardiamo alle città comprendiamo quanto questa esigenza non si possa più rinviare oltre.
Le città sono cresciute, la campagna si è fatta metropoli senza passare per la città. Ciò che abbiamo davanti non è stabile, non è definitivo è, ancora, “disordine, precarietà tanto più grave e pericoloso perché si presenta sotto forma di agio, di meno peggio – mentre tutto, invece, sarebbe ancora da cominciare”. Cominciare, appunto, chiedendosi: Periferie si, ma di cosa?