scuola per l' uguaglianza delle opportunità



da lavoceinfo.it marzo 2006
 
23-01-2006
Per l'uguaglianza delle opportunità
Daniele Checchi
Vito Peragine

I risultati delle recenti indagini Oecd-Pisa sulle abilità scolastiche degli studenti sono stati ampiamente analizzati e commentati su questo sito. Si tratta di indagini che forniscono informazioni preziose per la valutazione delle politiche scolastiche del nostro paese. In questo intervento proponiamo qualche ulteriore elemento di analisi al fine di verificare il grado di uguaglianza nelle opportunità di accesso alle competenze scolastiche e di valutare il ruolo del sistema di istruzione nei processi di mobilità sociale nel nostro paese.
Le circostanze e l’impegno individuale
I risultati sono tratti da uno studio recente in cui abbiamo cercato di verificare in che misura le disuguaglianze che si osservano nelle abilità scolastiche degli studenti italiani sono riconducibili a differenze nell’impegno personale piuttosto che a differenze in circostanze che vanno al di là della sfera di responsabilità individuale, quali ad esempio la famiglia o l’area geografica di provenienza.
L’idea è che solo le seconde costituiscano disuguaglianze inique, e che quindi solo – o prioritariamente – queste richiedano un intervento compensativo da parte del settore pubblico. Benché la distinzione tra impegno individuale e circostanze esogene sia chiara dal punto di vista concettuale, non è altrettanto facile individuare i criteri con cui rendere operativi tali concetti. Nel nostro lavoro abbiamo considerato la performance scolastica risultante dall’indagine Pisa come misura di successo individuale, e il background familiare (misurato dal grado di istruzione dei genitori) e l’area geografica di residenza quali uniche variabili esogene, implicitamente attribuendo all’impegno e alla responsabilità individuale tutto quello che non è catturato da queste due variabili. Si tratta quindi di una partizione piuttosto "conservatrice": esistono sicuramente altre circostanze esogene che influenzano le abilità scolastiche e che non rientrano nelle nostre variabili di controllo, i risultati della nostra analisi quindi ci permettono solo di individuare la dimensione minima delle disuguaglianze eticamente inaccettabili.
I primi risultati dell’analisi sono : esiste un divario sistematico tra aree geografiche (che persiste attraverso tutte le tipologie familiari), e all’interno di ogni area tra famiglie con diverso retaggio scolastico dei genitori.
Uno studente del Centro-Sud ha un divario di abilità acquisite di circa 50 punti (pari a poco più metà dello scarto quadratico medio) rispetto a uno del Nord, e analoga differenza si riscontra tra il figlio di genitori analfabeti e il figlio di un genitore laureato. Cosicché, considerando l’intero territorio nazionale, riscontriamo un divario di oltre uno scarto quadratico medio tra il figlio di un genitore laureato che frequenta una scuola secondaria del Nord e il figlio di un genitore senza titolo di studio che frequenta una scuola secondaria del Centro-Sud. C’è dunque una differenza enorme negli esiti, che può però dipendere da diversi livelli di impegno oppure dalle diverse facilitazioni dovute all’istruzione dei genitori.
Per ottenere una scomposizione della disuguaglianza complessiva in base al tipo di fattori da cui dipende, per ciascuna area geografica abbiamo diviso la popolazione in gruppi di individui con lo stesso background familiare; abbiamo poi utilizzato la posizione relativa nella distribuzione delle abilità per il proprio gruppo di appartenenza (il primo 10 per cento, il secondo 10 per cento, eccetera) quale misura indiretta del livello di impegno nel percorso scolastico.
Secondo questa ipotesi, ad esempio, due persone collocate sulla posizione mediana dei relativi gruppi di appartenenza hanno esercitato lo stesso grado di impegno: il valore assoluto delle performance potrà essere (e sarà tipicamente) diverso, in ragione del diverso background di partenza. Abbiamo quindi la possibilità di misurare la disuguaglianza secondo due dimensioni: a parità di impegno la disuguaglianza dipende solo dalle circostanze, ed è quindi una disuguaglianza nelle opportunità. Invece, a parità delle condizioni di partenza  la disuguaglianza che si osserva dipende solo dall’impegno individuale e corrisponde quindi al concetto di disuguaglianza negli sforzi individuali. 
Qualunque sia il grado di impegno individuale, qualunque sia la Regione di residenza, avere un genitore più istruito implica un rendimento maggiore nei test di abilità scolastica. Dall’analisi emerge come la disuguaglianza nelle opportunità sia una percentuale modesta della disuguaglianza complessiva negli esiti, ammontando a meno di un decimo della stessa. Tuttavia, incide in modo diversificato a livello territoriale, e anche all’interno della stessa distribuzione. La misura di disuguaglianza di opportunità per area geografica e collocazione nella distribuzione dei punteggi: si nota come la disuguaglianza delle opportunità sia particolarmente concentrata nelle Regioni centro-meridionali (la percentuale è doppia rispetto al Nord), e all’interno di questa tra gli studenti con bassa performance nei test.
Per riassumere, i divari nei rendimenti scolastici in Italia risultano significativi e fortemente dipendenti da fattori esogeni, quali l’area di residenza e il background familiare (che agisce o direttamente oppure indirettamente attraverso la scelta del tipo di scuola frequentata). Nel Centro-Sud, poi, si osserva il peggiore fra i mondi possibili: livello medio di abilità più basso; grado maggiore di disuguaglianza complessiva; percentuale maggiore (doppia) di disuguaglianze eticamente inaccettabili perché dovute alle diversità nei punti di partenza.

Gli interventi possibili
Sono evidenze robuste da cui è opportuno trarre qualche insegnamento. Ipotizzando che la performance scolastica sia il prodotto inestricabile di diversi fattori - il talento naturale e l’impegno dello studente, la dotazione di risorse economiche e culturali a livello familiare e di territorio circostante - e che vi sia una certa sostituibilità tra questi fattori, l’esistenza di ampi divari riconducibili alle risorse familiari e territoriali suggerisce di concentrarsi sulla distribuzione di quelle risorse che è possibile trasferire.
La spesa pubblica in istruzione è certamente la variabile più facile da monitorare e da riequilibrare: si tratta però di farlo non secondo criteri di uniformità, ma seguendo una logica di differenziazione e di compensazione rispetto alle differenze negli altri input di partenza; per esempio puntando sulle fasi (i primissimi anni di istruzione) in cui più alto è il tasso di sostituibilità tra istruzione scolastica e formazione familiare. Da questo punto di vista, i dati delle recenti analisi Mipa-Invalsi costituiscono un utile punto di partenza. 
Un’altra possibilità è quella di intervenire sulla organizzazione del sistema formativo. Senz’altro la struttura fortemente differenziata della scuola secondaria in Italia non favorisce l’uguaglianza nelle opportunità di accesso. La presenza di percorsi diversi è utile e va anzi rafforzata, a condizione che la scelta dell’uno o dell’altro dipenda dal talento e dall’impegno individuale: in questo caso la scuola assolve la funzione di segnalazione delle competenze e di selezione sociale. Quando invece la scelta è determinata dalla famiglia, come succede in Italia, la differenziazione delle carriere diventa uno strumento per la conservazione della segmentazione sociale esistente.
Non si pensi tuttavia a soluzioni facili: il sistema scolastico e le scelte individuali di investimento in istruzione sono situate in contesti sociali e istituzionali ben definiti. Anche qui il confronto territoriale può essere illuminante. Diverse analisi dimostrano che le Regioni meridionali, dove più basso è il tenore medio di vita e più alto è il grado di disuguaglianza nei redditi e nei consumi, sono caratterizzate da una struttura sociale meno mobile, più rigida.
Ricorrendo a una metodologia analoga a quella utilizzata per i dati Pisa, nel nostro lavoro abbiamo analizzato i dati dell’indagine Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane al fine di scomporre la disuguaglianza reddituale complessiva nelle due componenti: disuguaglianza di opportunità e disuguaglianza negli sforzi individuali. I risultati sono coerenti con quanto emerso per le abilità scolastiche: nel Centro-Sud, rispetto al Nord, vi è una percentuale doppia di disuguaglianze di reddito attribuibili a differenze nei punti di partenza (anche in questo caso misurati dai background familiari). Inoltre, controllando per il grado di istruzione individuale, al Centro-Sud rimane significativo l’effetto del background familiare, al Nord invece scompare: il ruolo della famiglia, al Sud più che al Nord, non si esaurisce nelle scelte di istruzione, ma esercita un’influenza nella capacità di successo nel mercato del lavoro.
Incrociando questi risultati con quelli sulle abilità scolastiche possiamo allora trarre qualche elemento di sintesi. In primo luogo, poiché la scuola costituisce il principale canale per realizzare una società più mobile, un sistema scolastico meno efficace può in parte spiegare una minore uguaglianza delle opportunità nei redditi, ceteris paribus. In secondo luogo, la percezione di un sistema socialmente chiuso può determinare la scelta di un minor impegno scolastico. Se l’accesso alla maggior parte delle carriere avviene sulla base dell’appartenenza sociale oltre che per il possesso formale di un titolo di studio, la auto-selezione, sia in termini di tipologia di scuola sia di impegno, può essere perfettamente razionale: perché investire seriamente in istruzione se poi manca il requisito fondamentale per mettere a frutto professionalmente le competenze acquisite, cioè la posizione familiare? Questa lettura è confermata dai dati territoriali: è infatti a meridione che l’accesso alle posizioni reddituali è più strettamente legato alla posizione familiare ed è a meridione che la performance scolastica è peggiore in media e i divari dovuti ai background familiari sono maggiori.
Se questo è il quadro, allora agire sul versante delle politiche scolastiche - riducendo la differenziazione tipologica della scuola secondaria o incrementando la spesa secondo la logica compensativa richiamata in precedenza – è cosa utile, ma sicuramente insufficiente. Senza serie riforme del mercato delle professioni e dell’accesso alle carriere, a diversi livelli, è difficile ipotizzare effetti significativi sui processi di mobilità sociale.

23-01-2006
Il "quasi-mercato" dei professori
Giorgio Brunello
Adriana Topo

È un fatto acquisito che la scuola italiana – fatta eccezione l’università - combini un livello di spesa pubblica perlomeno pari allo standard dei paesi Ocse con un insieme di risultati del tutto scoraggianti, sia in termini di abbandono scolastico che di punteggi ottenuti in test internazionali sulle competenze maturate. Mentre molti sottolineano come il legame tra risorse spese e risultati sia spesso flebile, c’è comunque un consenso crescente sul fatto che la qualità degli insegnanti e dell’insegnamento svolga un ruolo cruciale nel determinare gli esiti scolastici.
Cosa fanno gli altri
Attrarre, mantenere, e motivare insegnanti di qualità non è un compito facile, e più di un paese in ambito Ocse ha già cominciato a fare passi importanti in questa direzione, attraverso schemi di valutazione degli studenti e, indirettamente, dei docenti, e incentivi che premino gli insegnanti più meritevoli e penalizzino quelli meno efficaci.
Negli Stati Uniti esistono diverse esperienze – in Kentucky, Texas, Carolina del Sud - che hanno introdotto sistemi di incentivazione individuale (collegata a misure della performance del singolo docente) e di gruppo(basata sui risultati medi della scuola di appartenenza). Altri ne sono stati sperimentati con successo in Israele, e sistemi che legano la retribuzione del docente a una qualche misura di produttività esistono anche in Francia, Germania, Australia e Corea.
Mentre si possono esprimere perplessità su schemi di incentivo di tipo meramente monetario, perché possono distorcere l’azione dei docenti in direzioni non desiderate, o perché si basano su indicatori di produttività individuale spesso difficili da misurare con precisione, nel complesso, il ruolo di tali strumenti nel migliorare le prestazioni degli insegnanti è ritenuta positivo.
Un confronto Italia-Regno Unito
Come viene affrontato questo delicato tema nel nostro paese? Per capire, è utile un parallelo con un’esperienza vicina, quella inglese. Agli inizi degli anni Novanta, la pubblica amministrazione italiana, e quindi anche la scuola, è stata coinvolta in una importante riforma, che tra le altre cose ha assoggettato il rapporto dei dipendenti pubblici alle regole del diritto privato: cioè al contratto individuale e, soprattutto, collettivo. Nell’ottica della riforma, questo passaggio avrebbe dovuto aumentare l’efficienza nell’utilizzo delle risorse pubbliche.
In Inghilterra, invece, a partire dal 1991, la contrattazione collettiva sulle retribuzioni degli insegnanti è stata sostituita da un meccanismo in cui il Governo decide sui trattamenti economici dei docenti avvalendosi di un organismo consultivo indipendente, lo School Teachers Review Body, nel quale anche le organizzazioni degli insegnanti sono rappresentate.
Il "quasi – mercato" dell’istruzione inglese fa perno su un esplicito meccanismo di classificazione delle scuole in base alla performance degli studenti iscritti – le cosiddette "league tables" – e sull’utilizzo di test standardizzati sul territorio nazionale, che i ragazzi sostengono a 7, 11, 14 e 16 anni. Nel 1998 il Governo laburista ha poi introdotto, nonostante le resistenze sindacali, una forma esplicita di incentivo monetario per i docenti inglesi. È il cosiddetto Performance Threshold: docenti meritevoli che si trovino in certe condizioni di anzianità possono accedere, sulla base di una valutazione esterna e interna, a un consistente premio retributivo, vicino al 20 per cento dello stipendio annuo, e a una scala di incrementi retributivi differenziata rispetto a quella normale. Studi molto recenti hanno fatto una prima valutazione di questa politica, concludendo che gli esiti sui risultati degli studenti sono stati positivi.
In Italia, il contratto collettivo prevede sia la corresponsione di uno stipendio "tabellare", fondato sostanzialmente sull’anzianità di servizio, sia la corresponsione di "eventuali assegni ad personam". Questi ultimi potrebbero in teoria preludere all’introduzione di una forma di incentivazione individuale. In realtà, il contratto di comparto non dà alcuna ulteriore indicazione circa le condizioni per l’erogazione di tali assegni, perché la norma non specifica limiti o criteri per l’attribuzione. Quindi gli assegni ad personam, seppure in astratto ammessi dalla contrattazione a livello nazionale, nella pratica non possono essere oggetto di un accordo fra la singola scuola e il singolo insegnante. 
Mentre la contrattazione collettiva può avere un ruolo importante nel fornire alcune garanzie di base e nello stabilire minimi retributivi uguali per tutti, essa mal si presta a disegnare incentivi individuali o di istituto e sistemi di valutazione basati su criteri il più possibile oggettivi. La contrattazione collettiva non è il luogo adeguato perché il ruolo fondamentale del sindacato è quello di ridurre e possibilmente eliminare le differenze nelle condizioni lavorative degli iscritti, sia all’interno di una scuola che tra scuole. Lo dimostra l’esperienza del 1999, quando si era tentata l’introduzione di un sistema premiante, mai decollato, a favore dei docenti che si dimostrassero più qualificati nel corso di una prova concorsuale.
Riteniamo che una migliore efficienza ed efficacia nella gestione della scuola italiana necessiti di "quasi – mercati", di meccanismi cioè che consentano di ridurre le posizioni di rendita, premiando le istituzioni più capaci e penalizzando quelle che lo sono di meno. Come mostra l’esperienza inglese, la contrattazione collettiva dovrebbe fare un passo indietro, e concentrarsi sulla determinazione di condizioni di base eguali per tutti. Oltre tali condizioni, altri elementi dovrebbero contare: la legge della domanda e dell’offerta di discipline scolastiche, la competizione tra istituti per le risorse, la diffusione dell’informazione sulla qualità di tali istituzioni, e la scelta consapevole e informata dei genitori.

23-01-2006
La scuola cinque anni dopo
Asterix

Che cosa è successo nel mondo della scuola negli ultimi cinque anni? Sotto il profilo giuridico, sicuramente c’è stata una "pervasione" di legislazione: dalla legge delega n. 53/2003 ("riforma Moratti") ai suoi sei decreti legislativi di attuazione. Tante norme, ma scarse risorse finanziarie per realizzarne il contenuto. Vediamo perché.
Le norme e i fondi
Nel 2003, con l’approvazione della legge n. 53/2003 contenente la delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale, è iniziato un nuovo processo di riforma del sistema scolastico, secondo linee e indirizzi non in continuità con quanto precedentemente avviato.
La legge di riforma del sistema educativo prevede la definizione di un piano programmatico di interventi finanziari a sostegno della sua attuazione. Il piano è stato approvato solo in via preliminare dal Consiglio dei ministri nella seduta del 12 settembre 2003, ma non ha ricevuto l’intesa della Conferenza unificata come prescrive il decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.
Il piano stima l’importo complessivo dei necessari finanziamenti in 8.320 milioni di euro per il quinquennio 2004/2008. Di questi, 4.283 sono somme già iscritte in bilancio. Il resto, pari a 4.037 milioni di euro, dovrà reperirsi "compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica, mediante finanziamenti da iscrivere annualmente nella legge finanziaria, in coerenza con quanto previsto dal Dpef" (legge n. 53/2003).
Alla copertura degli oneri finanziari relativi all’anticipo dell’ingresso alla scuola dell’infanzia e alla scuola primaria dei bambini e delle bambine che compiono i tre anni di età entro il 30 aprile dell’anno scolastico di riferimento, è stato provveduto in sede di legge delega nella misura massima di 12.731mila euro per il 2003, 45.829mila euro per il 2004 e 66.198mila euro a decorrere dal 2005.
Successivamente, con la legge finanziaria 2004, è stata autorizzata la spesa complessiva di 90 milioni di euro per l’attuazione del piano programmatico di interventi finanziari. Nel corso dello stesso anno, a tale ammontare il Governo, con atto di indirizzo all’Aran, ha sottratto 64 milioni di euro per dedicarli alla contrattazione sindacale per la retribuzione delle funzioni tutoriali dei docenti. Contrattazione sospesa dal novembre 2004 e, quindi, risorse non erogate.
A decorrere dal 2005 è stato autorizzato con la legge finanziaria 2005 un ulteriore finanziamento pari a 110 milioni di euro finalizzato a tre obiettivi: a) anticipo delle iscrizioni e generalizzazione della scuola dell’infanzia; b) formazione iniziale e continua del personale; c) orientamento contro la dispersione scolastica e diritto-dovere di istruzione e formazione.
Il totale delle somme destinate a gran parte delle finalità previste dal piano ammonta dunque per le prime due annualità (2004/2005) a 200 milioni di euro; ciò significa che nel prossimo triennio (2006/2008) occorrerà reperire ancora 3.837 milioni di euro.
È lecito ipotizzare una serie di "iniezioni" di finanziamento sul settore istruzione che nel corso del prossimo triennio possano realizzare gli obiettivi del piano finanziario? O non è più verosimile e praticabile rivisitare gli obiettivi dello stesso piano per stabilire le priorità del breve periodo certi di poter contare su una adeguata disponibilità finanziaria? Procedere in un simile esercizio testimonierebbe responsabilità e consapevolezza del fatto che le politiche educative richiedono chiarezza degli obiettivi e certezza delle risorse finanziarie con cui realizzarli. Diversamente, si è condannati ad assistere all’attuale impervio cammino della riforma.
Nel corso del 2004 sono stati emanati i decreti legislativi per la scuola dell’infanzia e il primo ciclo dell’istruzione (decreto legislativo n. 59/2004) e quello relativo al servizio nazionale di valutazione (decreto legislativo n. 286/2004). La copertura finanziaria del primo era stata già prevista nella legge n. 53/2003, mentre per gli oneri del secondo (computati in 7,3 milioni di euro per il 2004 e 10,4 milioni di euro a decorrere dal 2005), si è provveduto con quota parte dello stanziamento di 90 milioni di euro autorizzato con la legge finanziaria per il 2004.
Quanto agli oneri relativi al decreto legislativo che definisce le norme sull’alternanza scuola-lavoro, ammontano a 10 milioni di euro per il 2005 e, a partire dal 2006, a 30 milioni di euro reperiti sugli stanziamenti del Fondo di cui alla legge n. 440/1997. Per il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione, invece, l’onere è pari a 12 milioni di euro per il 2004 e 16 milioni di euro a partire dal 2005, reperiti anch’essi con quota parte della spesa di cui alla legge finanziaria per il 2004.
Nel 2005 sono poi stati emanati altri due decreti legislativi; il primo definisce le norme generali in materia di formazione degli insegnanti ai fini dell’accesso all’insegnamento con oneri di spesa che ammontano, per il 2005 e 2006, a 11 milioni di euro. L’altro riguarda il secondo ciclo dell’istruzione e la copertura finanziaria (pari, per il 2006, 45 milioni di euro e, a partire dal 2007, a 43 milioni di euro) è stata prevista da una quota parte della spesa autorizzata dalla legge finanziaria per il 2005.
Come se non bastasse, con il decreto legge 30 settembre 2005, n. 203 convertito nella legge 2 dicembre 2005, n. 248 sono state ridotte le spese per consumi intermedi dei ministeri: per l’Istruzione ha comportato un "taglio" di 155 milioni di euro. Ciò è andato ad incidere sulla gestione finanziaria degli Uffici scolastici regionali e soprattutto sulle scuole penalizzando chi, avendo risorse finanziarie ancora da spendere, non le ha impegnate e si è visto "cadere" sul collo l’accetta del "tagliaspese".
Questi dati sollevano dubbi sull’operato del Governo uscente: o il ministro dell’Istruzione ha dimostrato scarsa capacità di programmazione, oppure l’esecutivo ha annunciato la priorità della scuola, salvo poi perseguirne di diverse nell’operato quotidiano.