riforma delle leggi sul lavoro in italia



Lavoro

da lavoceinfo.it
08-05-2006
Come superare il dualismo del mercato del lavoro
Pietro Ichino

La scelta compiuta dalla Cgil con il congresso di marzo, sul terreno della
riforma dei rapporti di lavoro, è difficilmente contestabile nel suo
assunto di fondo: la protezione offerta dal diritto del lavoro, quale che
ne sia il contenuto, deve essere estesa a tutti i lavoratori in posizione
di dipendenza economica; va superata la distinzione, in larga misura
artificiosa, tra "subordinazione" e "parasubordinazione", tra "lavoratori"
e "collaboratori continuativi"; va disboscata la giungla dei rapporti di
lavoro "atipici", che genera distorsioni e disparità di trattamento
ingiustificate e che, oltretutto, con la sua complessità non giova neppure
alle imprese; è ora di superare il dualismo che (non in conseguenza della
legge Biagi del 2003, ma in misura crescente ormai da molti anni)
caratterizza fortemente il diritto e il mercato del lavoro italiani,
scaricando tutto il peso della flessibilità di cui imprese ed enti pubblici
hanno bisogno soprattutto sulle nuove generazioni.
Un nuovo assetto del lavoro tipico
Questa opzione, tuttavia, pone bruscamente la stessa Cgil e l’intero
movimento riformatore di fronte a un dilemma cruciale. Estendere a tutti i
lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza lo Statuto dei
lavoratori, così com’è, non è possibile senza imporre al sistema un’ingessatura
insopportabile e senza mandare a casa centinaia di migliaia, se non
milioni, di persone.
Se la parola d’ordine della riunificazione del diritto e del mercato del
lavoro non vuole restare uno slogan vuoto, se vuole portare a una riforma
effettiva e incisiva, essa comporta l’ideazione di una nuova "rete di
sicurezza" davvero suscettibile di applicazione universale: un nuovo
assetto del rapporto di lavoro tipico, capace di sostituire l’intera
giungla attuale di tipi contrattuali.
Voltar pagina rispetto a vent’anni di crescente dualismo del mercato del
lavoro italiano è il solo significato positivo che la politica del lavoro
del nuovo Governo può attribuire alla propria scelta programmatica del
"superamento" della legge Biagi. Un significato che sarebbe certamente
piaciuto allo stesso Marco Biagi (posso dirlo, per averne lungamente
discusso con lui negli ultimi anni della sua vita) e che aiuterebbe a
trovare un punto di intesa su questo tema non solo tra le diverse anime del
centrosinistra, ma anche con alcuni settori dell’opposizione interessati a
evitare il "muro contro muro" su quella legge.
Se questo è l’obiettivo, il nuovo assetto del rapporto di lavoro tipico
dovrà, sì, estendere a tutti i lavoratori, fin dal loro primo ingresso nel
tessuto produttivo, oltre alle assicurazioni sociali fondamentali per
malattia, maternità/paternità, invalidità e disoccupazione, anche una
protezione piena e forte contro le discriminazioni e contro l’uso
arbitrario o comunque infondato del potere disciplinare. Ma, per il resto,
nella prima fase della vita lavorativa i rapporti di lavoro dovranno
necessariamente avere un grado di stabilità minore rispetto alle fasi
ulteriori. Questo è necessario, innanzitutto, per consentire la migliore
allocazione delle risorse umane nel tessuto produttivo: ciò che può
richiedere talvolta più di un tentativo di inserimento aziendale della
stessa persona, in funzione del suo stesso interesse alla migliore
valorizzazione delle sue capacità. Ma è necessario, inoltre, per evitare un
drastico effetto depressivo sulle possibilità dei giovani di accesso al
lavoro regolare: in un sistema nel quale la prima assunzione fosse
consentita soltanto con un rapporto di lavoro ad alto grado di stabilità, i
più giovani sarebbero fortemente penalizzati rispetto a chi già lavora e ha
quindi già alle spalle una storia professionale che fornisce informazioni
sulle sue qualità specifiche (non va dimenticato che proprio per questo,
nella seconda metà degli anni Settanta, fu il sindacato – sulla scorta
soprattutto di un’idea di Bruno Trentin - a chiedere l’introduzione del
contratto di formazione e lavoro: cioè, in sostanza, un contratto a termine
di ingresso con retribuzione ridotta, in funzione dell’inserimento
professionale dei più giovani).
Le tre proposte
I tre progetti che vengono presentati qui di seguito costituiscono un
contributo a questa riforma. L’idea che li accomuna è quella di delineare
un dispositivo di accesso graduale al regime di stabilità piena del
rapporto di lavoro, suscettibile di sostituirsi integralmente all’insieme
eterogeneo dei rapporti di lavoro "fuori standard" che caratterizzano il
regime attuale.
Il primo (Boeri-Garibaldi) prevede un rapporto di lavoro unico a tempo
indeterminato, assistito fin dall’inizio da protezione forte (articolo 18
dello Statuto dei lavoratori) contro discriminazioni e licenziamento
disciplinare ingiustificato, e, per quel che riguarda il licenziamento per
motivi economico-organizzativi, caratterizzato da un primo periodo di tre
anni di protezione soltanto indennitaria.
 
Il secondo (Leonardi-Pallini) si
caratterizza rispetto al primo per una flessibilizzazione più limitata
della tutela contro il licenziamento per motivi economico-organizzativi: un
periodo di franchigia allungato fino al massimo di un anno, seguito da un
regime di mera incentivazione dell’accordo economico tra le parti per la
cessazione del rapporto in alternativa all’applicazione della vecchia
disciplina protettiva, sul modello della legge tedesca Hartz del 2003.
 
Il terzo (Andrea Ichino) si distingue invece dai primi due per la previsione,
in alternativa al contratto da tempo indeterminato con protezione piena fin
dall’inizio, della possibilità di prima assunzione con un contratto a
termine di durata non inferiore a tre anni, non rinnovabile presso la
stessa impresa, fruibile dallo stesso lavoratore fino a un massimo di tre
volte presso imprese diverse, e con costi di transazione ridotti al minimo;
in altre parole: libertà di sperimentare con il lavoratore a termine,
purché sia un esperimento serio, con un orizzonte temporale
sufficientemente ampio, sul quale l’ente o impresa che assume investe
almeno tre anni di retribuzione (una soluzione che presenta un interesse
particolare per il settore pubblico).
Sono solo tre possibili assetti di un nuovo regime unitario del rapporto di
lavoro tipico, suscettibili anche di combinazione tra loro, o di diverse
modulazioni dei parametri di protezione. Suscettibili, peraltro, di
favorire l’ingresso o il rientro nel mercato del lavoro non solo dei
giovani, ma anche delle donne dopo la maternità, nonché di qualsiasi
lavoratore maturo o anziano, per il quale l’alternativa secca tra
disoccupazione e stabilità integrale costituisce sovente un ostacolo grave
al reimpiego. Sono tre possibili riforme della materia a costo zero per le
casse dello Stato. E sono tre possibili riforme politicamente più facili,
per la prudenza e moderazione cui sono ispirate, rispetto ad altre di cui
si è discusso di recente in Europa (tutte e tre meno radicali, per esempio,
rispetto a quella proposta da Blanchard e Tirole, che pure merita sempre di
essere tenuta presente nel dibattito, per la logica stringente cui essa si
ispira).
Ma ciò che più conta è che, per un verso, il superamento del dualismo
attuale tra lavoro "di serie A" e "di serie B" non è ragionevolmente
pensabile se non attraverso una rimodulazione delle protezioni almeno nella
prima fase della carriera lavorativa di tutte le persone. Per altro verso,
esso è politicamente proponibile - nel quadro di una riforma concertata tra
le parti e il Governo sul modello dell’accordo tripartito spagnolo di
questi giorni - proprio in quanto la rimodulazione riguarda soltanto quella
prima fase, non intaccando pertanto l’assetto del rapporto né nella fase
intermedia né in quella finale.

Un sentiero verso la stabilità
Tito Boeri
Pietro Garibaldi


I problemi strutturali del nostro mercato del lavoro sono tutti legati all’ingresso.
Difficile entrare nel mercato del lavoro formale per giovani in cerca del
loro primo impiego e per donne dopo la maternità o lunghi periodi passati a
lavorare a casa. Ma è difficile rientrare anche per chi è costretto a
uscirne durante una fase di una vita che diventa sempre più lunga. Il
rientro è difficile anche per chi sceglie di stare per un po’ fuori dal
mercato, cosa che avverrà in modo sempre più frequente. Per non fare
deprezzare il nostro capitale umano in un percorso lavorativo che non può
che allungarsi assieme alla vita vissuta, si può avere bisogno di prendere,
ogni tanto, dei "periodi sabbatici". Deve essere possibile entrare prima,
uscire e poi rientrare, senza trovarsi ogni volta di fronte a ostacoli
pressoché insormontabili.

I problemi
Queste difficoltà di ingresso sono particolarmente acute al Sud e durante
condizioni congiunturali difficili. Ma sono presenti comunque. È un
problema strutturale del nostro mercato.
Anche la questione del precariato è in parte legata all’ingresso. Le
riforme del mercato del lavoro che si sono succedute in questi anni hanno
certamente reso più facile il primo ingresso nel mercato, come dimostrato
dal calo strutturale della disoccupazione giovanile (circa 6 punti
percentuali nel periodo 1998-2005). Ma queste riforme hanno creato un
canale parallelo, una specie di mercato del lavoro secondario. E il
passaggio dal mercato del lavoro secondario a quello primario è
terribilmente incerto, senza sentieri e percorsi stabiliti.
Inoltre, ci sono problemi di sostenibilità di lungo periodo: in assenza di
correttivi, ce ne accorgeremo fra venti-trenta anni quando le prime
generazioni di lavoratori temporanei arriveranno all’età di pensionamento
con contributi insufficienti ad alimentare una pensione superiore ai minimi
sociali. Nel nuovo regime previdenziale, i contributi pagati dai co.co.co,
uniti a salari di ingresso che sono spesso al di sotto della soglia di
povertà (secondo i dati di Banca d’Italia, c’è quasi un 10 per cento di
lavoratori atipici che riceve meno di 4 euro all’ora  e a frequenti periodi
di disoccupazione non coperti da assicurazioni-ammortizzatori sociali e
contribuzioni figurative, sono infatti insufficienti a garantire una
pensione adeguata. (1)
A questi problemi bisogna pensare quando si ragiona sui programmi da
realizzare nella nuova legislatura. Bisogna definire un percorso che
funzioni indipendentemente dall’età, non solo per entrare, ma anche per
rientrare nel mercato del lavoro. E deve essere un percorso ben definito,
senza salti nel vuoto. Infine, dati i vincoli di finanza pubblica, meglio
concepire un percorso che non implichi l’utilizzo di risorse pubbliche
aggiuntive. Non vorremmo che, domani, esigenze di quadratura dei bilanci
imponessero di cambiare il percorso, come ad esempio avvenuto con il taglio
al bonus assunzioni introdotto nel 2000. Il percorso di ingresso deve
valere per tutti ed essere sempre aperto.
Le soluzioni proposte
Ecco dunque le nostre proposte. Bisogna cercare di attuarle simultaneamente
perché fanno parte dello stesso disegno, volto ad assicurare un ingresso
sostenibile nel mercato del lavoro.
Il sentiero a tappe verso la stabilità. Il canale principale di entrata nel
mercato del lavoro deve prevedere un sentiero di lungo periodo per i
lavoratori, e al tempo stesso permettere alle imprese un assunzione
"flessibile". Nella nostra proposta, il sentiero ha tre fasi: la prova, l’inserimento
e la stabilità. Chi viene assunto con un contratto a tempo indeterminato,
dovrebbe essere soggetto a un periodo di prova di sei mesi, come oggi
avviene per alcune categorie e per il personale direttivo. Serve a non
scoraggiare il datore di lavoro che vuole essere garantito circa le qualità
del lavoratore. Successivamente, dal sesto mese al terzo anno dopo l’assunzione,
il lavoratore è coinvolto in un periodo di inserimento in cui viene
tutelato dall’articolo 18 per quanto riguarda il licenziamento disciplinare
e discriminatorio e dalla protezione indennitaria (da due a sei mesi di
salario) nel caso di licenziamento economico. È questo il periodo in cui
datore di lavoro e lavoratore investono in capitale umano specifico all’azienda.
Al termine del terzo anno, la cosiddetta tutela reale (reintegra) viene
estesa anche ai licenziamenti economici. A questo punto per l’azienda che
ha già investito nel capitale umano del lavoratore sarebbe comunque molto
costoso separarsi da lui. Quindi, questa forte protezione dell’impiego non
è tale da dissuadere il datore di lavoro dall’assumere il lavoratore. Al
contempo, riteniamo che la durata massima del contratto a tempo determinato
(Ctd) debba essere ridotta a due anni, mentre si dovrebbero aumentare i
contributi per l’assicurazione contro la disoccupazione versati da chi
assume con Ctd, per coprire i costi scaricati sulla collettività in termini
di sussidi di disoccupazione pagati ai propri ex-dipendenti il cui
contratto non sia stato rinnovato alla scadenza . Un’impresa che trasforma
un contratto a tempo determinato in uno a tempo indeterminato non potrà
comunque fruire del periodo di prova. In questo modo, si scoraggerà l’abuso
di queste figure contrattuali. I contratti temporanei saranno indirizzati
soltanto a prestazioni lavorative veramente a termine, mentre il periodo di
prova lungo permetterà alle imprese di decidere con maggior flessibilità l’assunzione
a tempo indeterminato.
Salario minimo. Coprirebbe i lavoratori oggi lasciati fuori dalla
contrattazione. Rimediando a una situazione in cui i datori di lavoro hanno
un potere di mercato eccessivo, potrebbe finire per creare più occupazione.
Come mostrato dall’esperienza dei paesi latino-americani, non è affatto
ovvio che crei lavoro nero.
Contributo previdenziale uniforme. Qualunque prestazione lavorativa deve
avere la stessa copertura previdenziale, indipendentemente dal tipo di
contratto di lavoro, il che significa uniformare le aliquote contributive
tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, a partire dai contratti a
progetto. Questi standard devono garantire un’adeguata copertura
previdenziale. Il legame fra contributi e pensioni future va reso più
trasparente mandando a tutti i lavoratori rendiconti che documentino l’evoluzione
dei propri diritti previdenziali, così come avviene in Svezia. Questo
permette che contributi più alti non vengano percepiti come tasse, ma come
risparmi, accantonamenti obbligatori per garantirsi una pensione adeguata.
(1) Rosolia e Torrini (Rosolia, A. e Torrini, R., "Il divario
generazionale", mimeo, Banca d’Italia, giugno 2005) documentano inoltre
come la forbice fra salari di ingresso e salari medi, fra retribuzioni dei
giovani e degli anziani si sia fortemente ampliata nell’ultimo decennio.

Quale riforma per la legge Biagi
Massimo Pallini
Marco Leonardi

I contratti "a tempo determinato" rispondono a esigenze organizzative e
funzionali reali delle imprese e hanno contribuito a un effettivo aumento
dell’occupazione. Un progetto di legge di riforma, quindi, non può solo
limitarsi a cancellare o riorganizzare le tipologie di lavoro a tempo
determinato, ma deve preoccuparsi di come soddisfare la necessaria
flessibilità nell’organizzazione d’impresa. D’altra parte, questi contratti
hanno scaricato tutti i costi della flessibilità e della precarietà su una
minoranza di lavoratori "al margine", approssimativamente due milioni, per
lo più giovani, lasciando totalmente inalterate le prerogative e i diritti
di altri venti milioni circa di persone impiegate a tempo indeterminato. In
questo modo, l’introduzione dei contratti a tempo determinato ha creato una
sostanziale differenza di condizioni di lavoro tra lavoratori di diverse
età. Tali differenze vanno eliminate.
Oggi in Italia
In Italia, dal 1997 a oggi i contratti a tempo determinato di varia natura
hanno dato occupazione a circa due milioni di lavoratori, il 10 per cento
dell'occupazione totale e circa il 30 per cento delle nuove assunzioni. Tra
i giovani dai 15 ai 29 anni, il 25 per cento degli occupati è a tempo
determinato e il 50 per cento dei nuovi assunti lo scorso anno hanno un
contratto a tempo determinato.
Quel che è più importante, nonostante le difficoltà di valutazione dell’esatto
contributo occupazionale del lavoro a tempo determinato, la maggior parte
degli economisti pensa che la buona performance dell’occupazione dal 1997
ad oggi (con Governi di centrosinistra e di centrodestra) non sarebbe stata
possibile in loro assenza.
Vogliamo qui proporre una riforma del contratto di lavoro a tempo
indeterminato. E lo facciamo partendo da un commento del progetto di legge
di iniziativa popolare "contro il lavoro precario" promosso da parte dello
schieramento di centrosinistra. (1)
Il progetto di legge "contro il lavoro precario"
Il progetto di legge di iniziativa popolare propone:
1) di estendere le tutele legali del lavoratore subordinato al "lavoratore
economicamente dipendente", cioè a chi, pur senza essere eterodiretto nella
esecuzione della prestazione della propria attività manuale o
intellettuale, si obblighi a prestarla "in via continuativa all’impresa,
con destinazione esclusiva del risultato al datore di lavoro";
2) di limitare il ricorso del lavoro subordinato a termine a ipotesi
oggettive per rispondere a esigenze predeterminate nel tempo e di carattere
straordinario od occasionale;
3) l’abrogazione dei nuovi tipi contrattuali del lavoro intermittente, del
lavoro ripartito, del lavoro a progetto e del lavoro accessorio.
A nostro avviso queste proposte sono pienamente condivisibili.
Si deve abbandonare la strada della flessibilità "marginale" per superare
le forme di lavoro subordinato "precario".
Si deve abrogare quindi la disciplina di cui al decreto legislativo
368/2001 di contratti di lavoro subordinato a termine con requisiti causali
indeterminati e senza limiti di durata massima e di rinnovazione, che è
stata anche fonte di incertezza per le stesse imprese, per tornare a un
sistema di requisiti causali oggettivi, giustificati da esigenze aziendali
predeterminate nel tempo.
È opportuno altresì abrogare i nuovi tipi contrattuali che "parcellizzano"
la prestazione del lavoratore senza neppure rispondere efficacemente alle
esigenze di flessibilità dimensionale dell’impresa.
È inoltre condivisibile adottare una nuova nozione del rapporto di lavoro a
tempo indeterminato "standard", che permetta di attribuire le tutele legali
sinora destinate al solo lavoro subordinato anche a quei rapporti – ora
tecnicamente qualificati di lavoro autonomo – che legano in modo
continuativo il prestatore all’impresa quale parte necessaria della sua
organizzazione, che non è semplicemente destinataria della loro
prestazione, ma la internalizza nel proprio processo di produzione di beni
o servizi. Ne consegue il superamento della disciplina del lavoro a
progetto a causa della sostanziale impossibilità di adottare una
definizione effettivamente selettiva di "progetto" e la riconduzione delle
collaborazioni coordinate e continuative svolte e inserite organicamente
nell’organizzazione produttiva (di beni o servizi) aziendali in modo
stabile e duraturo alla disciplina legale del lavoro subordinato.
In sostanza, proponiamo una nuova e più chiara ripartizione tra lavoro
subordinato e lavoro autonomo, in coerenza con le indicazioni della Corte
di giustizia europea che li distingue non in relazione al tipo di vincolo
rispetto al committente (se subordinazione e coordinamento), ma rispetto
alla loro posizione sul mercato, identificando sostanzialmente il
lavoratore autonomo con una "impresa individuale" capace di vendere a terzi
un bene o un servizio (anche professionale o consulenziale). (2)
Tuttavia, a fronte dell’ampliamento dei destinatari della tutela legale del
lavoro subordinato e alla riduzione delle possibilità di ricorrere a
tipologie contrattuali di rapporti "a termine", rileviamo che è necessario
importare margini ragionevoli di flessibilità nel nuovo tipo di lavoro a
tempo indeterminato "standard", sia in entrata sia in uscita.
Ripensare il contratto a tempo indeterminato
I contratti a tempo determinato hanno risposto a due esigenze delle imprese
che meritano di essere ricomprese nel contratto di lavoro subordinato
standard.
La prima è di avere periodi di prova più lunghi per valutare i lavoratori.
L’economia moderna richiede mansioni più varie e complesse di venti anni fa
e di conseguenza la valutazione dei lavoratori è una attività molto più
importante, lunga e costosa. La seconda è l’esigenza di avere maggiori
margini di flessibilità per ridurre i costi nel caso di condizioni di
domanda debole. L’economia moderna è sottoposta a cambiamenti delle
condizioni di domanda molto più frequenti di un tempo, e i risultati di
impresa sono di conseguenza molto più variabili. La flessibilità in entrata
può ottenersi in misura ragionevole attraverso periodi di prova più lunghi
al momento dell’assunzione, disciplinati liberamente dai contratti
collettivi (modificando il disposto dell’articolo 10 della legge n. 604/66)
e – in difetto di accordo – graduati per legge da un minimo di tre mesi per
le mansioni esecutive, di sei mesi per le mansioni cosiddette d’ordine,
dodici mesi per mansioni cosiddette di concetto o di collaborazione con la
direzione aziendale. (3) Nel caso in cui il datore di lavoro abbia
interrotto il rapporto prima del termine del periodo di prova, il
successivo rapporto di lavoro stipulato da quel datore con il medesimo
lavoratore dovrà ritenersi immediatamente a tempo indeterminato.
La flessibilità in uscita può agevolarsi attraverso l’attribuzione al
lavoratore alle dipendenze di un’impresa con più di quindici dipendenti di
una "indennità economica di licenziamento", che si aggiunge al periodo di
preavviso. Questa indennità si applicherebbe solo in caso di licenziamenti
individuali (e non collettivi) per giustificato motivo oggettivo (e non
disciplinari). L’importo dell’indennità sarebbe predeterminato per legge
(ad esempio tre mensilità di retribuzione lorda più una mensilità di
retribuzione per ogni anno di anzianità di servizio) a carico del datore di
lavoro nel caso in cui il lavoratore accetti il licenziamento per
giustificato motivo oggettivo. Il medesimo meccanismo di indennità è stato
previsto in Germania dalla riforma Hartz del Governo social-democratico .
Con l’indennità di licenziamento, il lavoratore godrebbe di una tutela
economica aggiuntiva per far fronte alla carenza di reddito nel tempo
necessario alla ricerca di un nuovo lavoro e l’azienda avrebbe la certezza
della definitiva risoluzione del rapporto. Qualora invece il lavoratore
intenda contestare la legittimità del licenziamento, sarebbe comunque
libero di impugnarlo giudizialmente, rimanendo inalterato rispetto alla
disciplina attuale sia l’onere della prova della giustificatezza del
licenziamento a carico del datore, sia il regime di reintegrazione e
risarcimento del danno in caso di annullamento del licenziamento. Ciò
significa che la disciplina sanzionatoria dettata dall’articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori non viene modificata, si interviene invece in una
fase anteriore prevedendo un’opzione prevista per legge di indennizzo
monetario per evitare il contenzioso.
Rimarrebbe invece del tutto invariato il regime di impugnativa e di tutela
dei licenziamenti per giustificato motivo soggettivo (disciplinare) e dei
licenziamenti collettivi.
Il meccanismo funzionerebbe in questo modo: all’atto del licenziamento per
motivo oggettivo il datore di lavoro deve offrire al lavoratore l’indennità
prevista per legge. Il lavoratore può non accettarla e impugnare davanti al
giudice il licenziamento, ma in questo caso perde il diritto all’immediata
erogazione dell’indennizzo, potendo invece ottenere in caso di accoglimento
del suo ricorso in sede giudiziale la condanna del datore alla reintegra e
al risarcimento del danno. (4)
Infine, occorre sottolineare che, sebbene condividiamo l’obiettivo di
estendere le tutele legali del lavoro subordinato anche alle forme di
collaborazione coordinata e continuativa, ciò non deve necessariamente
significare l’automatica estensione a quest’ultime delle previsioni dei
contratti collettivi sottoscritti per i lavoratori subordinati, soprattutto
in materia di retribuzione minima, orario di lavoro, fruizione di permessi
e ferie. Nel caso della nuova tipologia di lavoratori "coordinati", cui si
applicherebbe la disciplina legale del lavoro subordinato, il datore di
lavoro rinuncia totalmente o parzialmente ad avvalersi dei poteri di
eterodirezione e di variazione dei tempi, dei modi e del luogo della
prestazione individuale. Ma questo non deve inibire per legge, come invece
prevede la proposta sul lavoro precario, la possibilità della
contrattazione collettiva di dettare una disciplina negoziale differenziata
per i "coordinati" rispetto ai lavoratori subordinati in senso stretto. Ad
esempio, tale disciplina negoziale deve poter prevedere minimi retributivi
differenziati per i "coordinati", anche in senso peggiorativo per
compensare i minori obblighi e restrizioni cui sono soggetti nell’esecuzione
della prestazione di lavoro. Ciò in analogia a quanto già oggi è previsto
dal Ccnl dei giornalisti professionisti che differenzia la retribuzione tra
coloro che lavorano stabilmente nella redazione e i collaboratori non
vincolati all’osservanza di un orario di lavoro e alla presenza quotidiana
in redazione, i quali a fronte di maggior autonomia personale accettano un
sistema retributivo meno generoso.
Questa riforma non comporta alcun onere aggiuntivo per il bilancio pubblico
e ci pare possa garantire una sostanziale semplificazione: il lavoro oggi
considerato precario verrebbe ricondotto nell’ambito del lavoro subordinato
e quest’ultimo reso un po’ più flessibile. Il sindacato potrebbe allargare
la sfera di rappresentanza e di contrattazione anche ai lavoratori oggi
esclusi. Il lavoro a tempo determinato rimarrebbe solo per requisiti
causali determinati e giustificati da esigenze limitate nel tempo.
(1) Il progetto di legge di iniziativa popolare "contro il lavoro
precario", primo firmatario Stefano Rodotà, è sostenuto dalla "sinistra"
dei Democratici di sinistra.
http://www.precariarestanca.it/proposta-di-legge/
(2) Vedi. M.Pallini (a cura), Il lavoro a progetto in Italia e in Europa,
Mulino, 2006, di prossima uscita.
(3) Vedi T. Boeri- P. Garibaldi in lavoce.info
(4) L’accettazione dell’indennizzo dovrà essere sottoscritta dal lavoratore
nelle forme rituali di cui all’art. 410 e 411 c.p.c. così che sia garantita
l’assistenza di un rappresentante sindacale aziendale o del collegio di
conciliazione che possano accertare la piena conoscenza del lavoratore dei
propri diritti e delle conseguenze della sua scelta.

Dagli slogan all'agenda politica
Paolo Sestito

Il programma politico di chi ha vinto le elezioni parlava di superamento
della legge Biagi. (1)
Il superamento, come hanno ormai più volte dichiarato anche i maggiori
critici di quella legge, non significa abrogazione e quindi puro e semplice
ripristino della situazione pregressa: un indirizzo legislativo reso
oggettivamente problematico dalla miriade di accordi, contratti e
accadimenti nel mercato del lavoro che già avevano fatto uso di quella
legge, e comunque più simbolico che effettivo, a fronte dei problemi della
precarietà in buona parte preesistenti rispetto a quella legge. Pur
volendosi distinguere dal completamento della legge Biagi – che era lo
slogan della parte che le elezioni ha perso, forse anche perché quel
completamento a mezzo di più decorosi ammortizzatori sociali aveva sempre
rimandato – il superamento sembra perciò qualificarsi, in positivo, come un’agenda
di policy che voglia affrontare la questione della precarietà nel mercato
del lavoro, un problema che è oggettivo, predata la legge Biagi e che è
forse però stato ingigantito, nella percezione degli interessati, dalla
scarsa attenzione che vi ha prestato il policy maker.
Anche se questo graduale uscire dalla pura polemica elettorale è di per sé
positivo, rimane però ancora da capire come, al di là del titolo e dell’obiettivo
generale, quell’agenda possa essere affrontata. La tesi di chi scrive è che
il punto non sia tanto quello di abbinare al completamento della legge
Biagi l’eliminazione di quelli che taluni ritengono essere i suoi
"eccessi", ridimensionando le flessibilità consentite dal legislatore alle
imprese. I veri nodi sono sul come potenziare gli ammortizzatori sociali e
sul come regolare le flessibilità.
Come potenziare gli ammortizzatori sociali
Veniamo al primo punto. Estendere l’esistente regime degli ammortizzatori
sarebbe costoso e inefficiente. Forse anche per questo i Governi passati
hanno sempre rimandato il potenziamento degli ammortizzatori sociali,
perché ai rinvii dell’ultima legislatura fanno da pendant le vicende della
penultima, quando si arenarono gli indirizzi della Commissione Onofri e i
Governi di centrosinistra non utilizzarono una apposita delega conferita
dal Parlamento nel 1999.
Occorre quindi ridisegnare gli strumenti, accrescendo l’equità – assente
nell’attuale regime, segmentato oltre che sottodimensionato – evitando di
far esplodere la spesa (oggi si spende lo 0,6 per cento del Pil a fronte di
una media dell’ Unione europea di circa il 2 per cento) e le distorsioni
nel mercato del lavoro. Ridisegnare richiede perciò di definire sussidi, e
schemi di finanziamento degli stessi, che ne scoraggino l’uso prolungato e
ripetuto nel tempo, da parte delle imprese (quando licenziano o quando
vengono meno dei contratti a termine) e da parte dei lavoratori.
Ridisegnare significa anche "attivare" i beneficiari dei sussidi –
sostenendoli e controllandoli nella ricerca di un nuovo lavoro -
indirizzando in tal senso quei servizi pubblici per l’impiego che, a dieci
anni dall’avvio di un assieme di riforme che hanno aperto il campo agli
operatori privati e passato parte prevalente delle competenze pubbliche al
livello regionale (e provinciale), sono ancora in mezzo ad un guado e privi
di una mission pregnante. (2)
Nonostante la continuità sostanziale delle direttrici di riforma in tutto
il decennio si è infatti ancora molto indietro: permangono ambiguità nelle
interazioni tra privati e pubblico, le cui specificità sono trascurate
tanto in quelle realtà regionali che immaginano di legittimare i primi solo
nell’ambito di quanto programmato dal secondo, quanto in quelle dove si
immagina che non vi siano affatto distinzioni tra gli uni e l’altro.
Rischia così di essere trascurata la difesa della contendibilità del
mercato degli intermediari privati e di non svilupparsi quella mission
specifica dell’operatore pubblico di gestione, controllo e attivazione dei
beneficiari di sussidi, una mission che tra l’altro, pur dovendo adattarsi
ai diversi territori e potendo prevedere meccanismi di outsourcing sulla
falsariga di quanto sperimentato in altri paesi, ad esempio Australia e
Olanda, è intrinsecamente nazionale.
Regolare la flessibilità
Rilevante è però anche il secondo punto. La legge Biagi è una legge
complessa, il dettaglio dei cui effetti colpevolmente non è stato a
sufficienza monitorato ed esaminato, come invece sarebbe necessario, per
individuare gli eventuali eccessi e le parti che, più banalmente, hanno
girato ben poco e quindi non hanno prodotto miracoli ma neppure guasti.
Il vero punto generale, strategico, non è però il giudizio sui singoli
istituti contrattuali introdotti o toccati dal legislatore (o sul loro mero
numero), ma quello sull’opportunità di regolare nel dettaglio, più avverso
la flessibilità o più a favore di questa e quindi consentendo poche o tante
deroghe al contratto standard. Questa è stata la modalità tradizionale per
introdurre quelle flessibilità richieste dalle imprese, e che pur con
indubbi meriti storici, specie al suo avvio, è stata portata ai suoi
estremi con la legge Biagi. Si sono così ampliate le flessibilità, ma anche
i rischi insiti in quell’approccio, in termini di segmentazioni nel mercato
del lavoro, di distorsioni nella scelta dei moduli organizzativi da parte
delle imprese, di "complessificazione" delle regole, a beneficio dei
consulenti ancor più che delle imprese.
Al di là di pregi e difetti delle singole previsioni della legge Biagi, la
questione strategica è se quell’approccio non abbia fatto il suo tempo. Da
questo punto di vista, non si tratta tanto di discutere se e quanto ridurre
le singole flessibilità introdotte, quanto di stabilire come regolare il
sistema. Più proficuo ed atto a evitare i problemi prima detti sarebbe i
consentire la flessibilità, ma calmierandone l’uso con un costo aggiuntivo,
ad esempio tenendo conto, in una logica assicurativa, del maggior ricorso
ad ammortizzatori sociali che è insito nel lavoro a termine. O per venire
ad un altro esempio, quello delle collaborazioni coordinate e continuative
(che la legge Biagi ha cercato di comprimere e non ha certo ampliato), il
quesito è se sia più proficuo dettagliare le condizioni di esperibilità
delle stesse, più o meno restrittivamente, o allineare i costi contributivi
delle diverse modalità organizzative del lavoro, evitando un ricorso
distorsivo alle collaborazioni e altre fattispecie, così affrontando anche
la questione dell’inadeguatezza dei futuri trattamenti previdenziali dei
cosiddetti parasubordinati.

* Le opinioni qui espresse sono esclusivamente personali.
(1) Per l’esattezza della legge 30, detta anche legge Maroni, il rifiuto
dell’attribuzione a Marco Biagi della paternità di quella legge essendo
anch’esso parte dello scontro semantico tra le opposte coalizioni
politiche. Se devo esprimere un parere, la polemica sul nome mi pare
futile – perché la paternità di Marco Biagi né migliora e né peggiora la
qualità della legge e questo era un concetto ben presente a un pragmatico
come Marco Biagi – e pretestuoso – perché fattualmente molto della legge
risale a proposte abbozzate da Marco Biagi, che però non ha potuto vedere
quei dettagli finali che sono sempre decisivi.
(2) La tematica in questione è meglio trattata in S. Pirrone e P. Sestito,
Disoccupati in Italia. Tra Stato, Regioni e cacciatori di teste, il Mulino,
dedicato proprio all’interazione tra politiche attive e passive del lavoro
ed alla trasformazione ed al ruolo dei servizi per l’impiego e che però
contiene anche un capitolo dedicato alle tante fattispecie contrattuali
toccate dalla legge Biagi.

Ragioniamo sui dati
Sandro Trento
Anita Guelfi

La legge 30/2003 di riforma del mercato del lavoro ("legge Biagi") è stata
ritenuta da parte di alcuni la principale responsabile della presunta
precarizzazione dei rapporti di lavoro in Italia.
La verità è che, ad oltre tre anni dalla sua approvazione, non esistono
ancora informazioni sufficientemente adeguate e dettagliate per poter
valutare i suoi effetti sul mercato del lavoro.
L’indagine Confindustria
Consapevole di questa lacuna, nel 2005 Confindustria ha promosso un’indagine
presso le proprie imprese associate per raccogliere informazioni sul primo
anno di utilizzo degli strumenti della nuova legge. All’indagine, riferita
al 2004, hanno partecipato oltre duemila imprese con circa 560mila
lavoratori alle dipendenze. Pur essendo rivolta prevalentemente al settore
industriale, la rilevazione ha coinvolto anche alcune importanti realtà del
terziario: 217 imprese con circa 131mila addetti.
Obiettivi principali dell’indagine sono stati: a) verificare se e in quale
misura le aziende intervistate hanno utilizzato le forme contrattuali
previste dalla legge Biagi; b) valutare l’esistenza e l’entità dei rapporti
di lavoro di natura precaria chiedendo alle imprese non solo il numero e la
tipologia contrattuale delle assunzioni effettuate nell’anno, ma anche il
numero di trasformazioni a tempo indeterminato di precedenti contratti di
diversa natura.
L’utilizzo delle forme di flessibilità contrattuale dopo la legge Biagi
L’indagine Confindustria ha raccolto informazioni sulla propensione delle
imprese sia verso le forme contrattuali introdotte ex novo dalla legge -
lavoro condiviso, lavoro a chiamata, staff leasing, contratto d’inserimento)
 - sia verso quelle tipologie che, già esistenti nel nostro ordinamento,
sono state modificate o ridefinite dalla nuova normativa - part-time,
collaborazioni a progetto, somministrazione a tempo determinato,
apprendistato. (1)
Le informazioni raccolte indicano, nel 2004, un utilizzo poco più che
marginale di quelle forme contrattuali nuove, quali il lavoro a chiamata,
lo staff leasing e il lavoro condiviso. (2) Anche il ricorso al contratto d’inserimento
è stato molto contenuto: 1,3 per cento del totale addetti.
Nel 2004, naturalmente, l’utilizzo di queste tipologie è stato limitato da
un lato dalla scarsa conoscenza delle innovazioni contrattuali da parte
delle imprese, dall’altro dall’assenza della necessaria disciplina di
dettaglio. (3) Un problema analogo riguarda i rapporti di apprendistato:
grazie alle novità introdotte dalla legge 30, rappresentano uno dei
principali punti di forza della riforma dal punto di vista dell’inserimento
dei giovani nel mercato del lavoro e il mancato decollo nel 2004 (0,4 per
cento sul totale addetti) va principalmente imputato ai ritardi nella
emanazione delle disposizioni applicative da parte delle Regioni.
Maggiore è risultata invece l’adozione di quegli strumenti normativi che,
pur ridefiniti dalla nuova disciplina, erano già noti e utilizzati da
tempo. Si tratta innanzitutto dei contratti di somministrazione a termine
(ex lavoro interinale) che, nel 2004, hanno riguardato un numero di ore
lavorate corrispondenti, in termini di lavoratori equivalenti a tempo
pieno, all’1,4 per cento degli addetti. Rilevante appare anche l’utilizzo
dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa e della nuova
forma dei contratti a progetto, il cui ricorso (circa 7.600 persone nel
2004) risulta guidato principalmente dall’esigenza di disporre di risorse
qualificate da dedicare ad attività specialistiche ad alto contenuto
professionale: il 59 cento dei collaboratori ha infatti più di 50 anni d’età,
mentre il 73 per cento risulta in possesso di un titolo di studio superiore
(46,1 per cento diplomati; 27,4 per cento laureati).
Struttura dell’occupazione e comportamenti di assunzione delle imprese
I dati raccolti indicano una struttura occupazionale stabilmente ancorata
ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato (oltre il 90 per cento dell’organico
aziendale), che rappresentano la forma contrattuale di gran lunga
prevalente.
Riguardo ai flussi di assunzione, su un totale di circa 50mila assunzioni
effettuate, nel 50 per cento dei casi si tratta di contratti a tempo
indeterminato, seguiti da quelli a tempo determinato (39 per cento),
formazione-lavoro/inserimento (9 per cento) e apprendistato (2 per cento).
Poco meno della metà delle persone assunte come lavoratori dipendenti
cominciano quindi a lavorare con un contratto di tipo flessibile; il dato
appare sostanzialmente coerente con i risultati diffusi a marzo dalla Banca
d’Italia sulla base delle informazioni tratte dall’indagine Istat sulle
forze di lavoro. (4) L’analisi della Banca d’Italia è stata malamente
interpretata e utilizzata da alcuni osservatori come prova inconfutabile
delle condizioni di precarietà del mercato del lavoro italiano. In realtà,
per poter parlare di precarizzazione dei rapporti di lavoro non è
sufficiente guardare alla quota di persone che iniziano a lavorare con un
contratto a termine, ma occorre anche sapere se, alla scadenza del
contratto, si procederà o meno ad una trasformazione a tempo indeterminato.
I dati Istat pubblicati dalla Banca d’Italia non affrontano direttamente
questo secondo punto e non consenteno quindi di trarre conclusioni. Qualche
informazione in tal senso può invece desumersi dall’indagine Confindustria:
poco meno della metà dei contratti a termine è stata trasformata in
contratti a tempo indeterminato nel corso dell’anno. (5) Ciò significa che
mediamente un lavoratore assunto a termine ha la prospettiva di diventare a
tempo indeterminato entro due anni.
L’indagine mostra inoltre che le imprese fanno ampio ricorso ai contratti a
termine come bacino da cui selezionare i futuri contratti a tempo
indeterminato: oltre la metà (53 per cento) delle assunzioni a tempo
indeterminato effettuate nel 2004 è infatti in realtà una trasformazione di
un precedente contratto di natura temporanea. In particolare, le
conversioni hanno riguardato prevalentemente i lavoratori inizialmente
assunti con contratto a tempo determinato (48 per cento) e di
formazione-lavoro/inserimento (37 per cento ), ma anche ex lavoratori
interinali (10 per cento), ex apprendisti (3 per cento) ed ex collaboratori
autonomi (2 per cento). L’indagine indica anche che il 54 per cento delle
trasformazioni riguarda lavoratori in possesso di un titolo di studio
superiore (40 per cento diplomati; 14 per cento laureati). La percentuale
di lavoratori con titolo di studio superiore diventa nettamente più elevata
(38 per cento con laurea) nel caso di assunzioni a tempo pieno e
indeterminato di lavoratori che entrano invece per la prima volta in
azienda. Le imprese esaminate, quindi, preferiscono assumere a tempo
indeterminato persone che, in qualche misura, risultano già formate o che
comunque possono essere "sperimentate" per un adeguato periodo di tempo
prima di essere assunte definitivamente. Si tratta di un risultato che
conferma precedenti evidenze empiriche. (6)
In conclusione, i dati raccolti dall’indagine Confindustria sembrano
smentire la tesi che identifica i lavori a termine con i lavori precari,
almeno per quanto riguarda il settore industriale che è quello
prevalentemente coperto dall’indagine. Inoltre, come ha sottolineato
recentemente Pietro Ichino sul Corriere della Sera, non è corretto accusare
la legge di aver dato vita all’utilizzo di forme contrattuali flessibili
per l’ingresso di nuovi lavoratori in azienda. (7)
Qualche passo avanti nella valutazione degli effetti della riforma del 2003
potrà comunque essere fatto nei prossimi mesi, quando saranno resi noti i
risultati della seconda edizione dell’indagine Confindustria sull’utilizzo
della legge Biagi nel 2005.
* Centro Studi Confindustria. Le opinioni qui espresse non impegnano
necessariamente Confindustria.
(1) Per i dettagli si veda Centro Studi Confindustria, "L’utilizzo nel 2004
degli strumenti normativi introdotti dalla legge 30/2003", gennaio 2006,
http://www.confindustria.it/AreeAtt/DocUfPub.nsf/All/43.
(2) Solo il 2,2 per cento delle aziende intervistate afferma di aver fatto
ricorso ad almeno una di queste tipologie lavorative nel corso dell’anno.
(3) È il caso, ad esempio, dello staff leasing che è divenuto operativo
solo nel corso del 2004. Il 2004 è stato inoltre un anno di rallentamento
dell’economia ed ha condizionato negativamente la dinamica occupazionale di
molte imprese.
(4) Vedi Banca d’Italia, Bollettino economico, marzo 2006.
(5) Va in ogni caso ricordato che l’indagine Confindustria non è, per sua
natura, rappresentativa dell’intera realtà nazionale essendo il frutto
della partecipazione (su base volontaria) delle sole imprese associate.
(6) Vedi Cipollone-Guelfi (2003), "Tax Credit Policy and Firms’Behaviour:
The Case of Subsidies to Open-end Labour Contracts in Italy", Banca d’Italia,
Temi di discussione n.471, March.
(7) Vedi Ichino P., "Ma i precari non crescono", Corriere della Sera, 26
aprile 2006.