uranio nemico invisibile tra noi




da lanuovaecologia.it Lunedì 19 Giugno 2006

SALUTE|
La gestione dello scarto radioattivo

Uranio, nemico invisibile

Si utilizza in guerra ma anche per costruire strumenti medici, aeroplani e collari per cani. Stoccate nel mondo 1,2 milioni di tonnellate

Chi pensa che l’uranio impoverito si trovi soltanto negli scenari di guerra dovrà cambiare idea. Il famigerato Du (depleted uranium) è fra noi: dalle strumentazioni mediche ai contrappesi di alcuni aeroplani, fino ai brevetti per mazze da golf e ai collari per cani. E' l'argomento dell'articolo pubblicato su "La Nuova Ecologia" di giugno che punta l'indice proprio sul destino delle scorie radioattive.

Il Du (depleted uranium) è il maggiore scarto dello sfruttamento del nucleare per la produzione di energia elettrica. Si calcola che conservati nei siti di stoccaggio di tutto il mondo ce ne siano 1,2 milioni di tonnellate . Una cifra destinata a crescere, dato che il processo di arricchimento volto a ottenere il combustile produce un residuo di uranio impoverito sette volte superiore a quello dell’uranio arricchito ottenuto a fine ciclo. Ecco perché assieme alla questione dei costi e della sicurezza, la gestione dei rifiuti radioattivi è uno dei nervi scoperti del partito del nucleare. Che ha tutto l’interesse a sperimentare nuove forme di “smaltimento” e a trovare impieghi alternativi, anche in campo non militare. Ma a quale costo?

Che la gestione delle scorie sia una delle principali criticità del ricorso all’energia nucleare appare evidente se si considerano i costi, economici e ambientali, dell’opzione attualmente più usata: lo stoccaggio in siti costruiti ad hoc. Secondo i dati del Department of energy (Doe) statunitense stoccare un chilogrammo di uranio impoverito in forma solida costa 4,57 dollari. Ma altre stime della Nuclear energy agency dell’Ocse calcolano un prezzo che può superare i 100 dollari per chilogrammo: se si pensa che soltanto negli Stati Uniti sono presenti 480.000 tonnellate di scorie il conto è presto fatto.

di Mariangela Paone

 

Chi pensa che l’uranio impoverito si trova soltanto negli scenari di guerra dovrà cambiare idea. Il famigerato Du (depleted uranium) è fra noi: dalle strumentazioni mediche ai contrappesi di alcuni aeroplani, fino ai brevetti per mazze da golf e ai collari per cani.

 

Il Du è il maggiore scarto dello sfruttamento del nucleare per la produzione di energia elettrica. Si calcola che conservati nei siti di stoccaggio di tutto il mondo ce ne siano 1,2 milioni di tonnellate (vedi tabella). Una cifra destinata a crescere, dato che il processo di arricchimento volto a ottenere il combustile produce un residuo di uranio impoverito sette volte superiore a quello dell’uranio arricchito ottenuto a fine ciclo. Ecco perché assieme alla questione dei costi e della sicurezza, la gestione dei rifiuti radioattivi è uno dei nervi scoperti del partito del nucleare. Che ha tutto l’interesse  a sperimentare nuove forme di “smaltimento” e a trovare impieghi alternativi, anche in campo non militare. Ma a quale costo?

 

Caro stoccaggio

Che la gestione delle scorie sia una delle principali criticità del ricorso all’energia nucleare appare evidente se si considerano i costi, economici e ambientali, dell’opzione attualmente più usata: lo stoccaggio in siti costruiti ad hoc. Secondo i dati del Department of energy (Doe) statunitense stoccare un chilogrammo di uranio impoverito in forma solida costa 4,57 dollari. Ma altre stime della Nuclear energy agency dell’Ocse calcolano un prezzo che può superare i 100 dollari per chilogrammo: se si pensa che soltanto negli Stati Uniti sono presenti 480.000 tonnellate di scorie il conto è presto fatto. La World nuclear association, che riunisce le associazioni e le organizzazioni favorevoli all’uso del nucleare per scopi pacifici, da parte sua minimizza. In un documento pubblicato nel febbraio scorso sostiene che la gestione dei rifiuti delle centrali nucleari incide per il 5% sul costo totale dell’energia prodotta. Ma a sentire i ricercatori dell’Anl, il laboratorio del Doe gestito dall’università di Chicago, lo stoccaggio non soltanto rappresenta un costo considerevole ma non garantisce il permanere di adeguati livelli di sicurezza nel lungo periodo. Presentando uno studio sulla gestione delle scorie, gli scienziati dell’Anl spiegano: «Dal momento che le condizioni di stoccaggio sono peggiorate negli ultimi anni è necessario un programma per la ricostruzione dei siti e per la manutenzione, il controllo e lo spostamento dei cilindri (in cui sono immagazzinate le scorie, ndr). In un contesto più ampio, il Doe ha bisogno di un metodo di valutazione dei rischi e dei costi anche per interagire con le agenzie di controllo e il pubblico». Lo stesso Doe, a giugno 2005, ha comminato una multa di 55.000 dollari alla Safety and ecology corporation, la società che gestisce il sito di Postsmouth, in Ohio, per le ritorsioni commesse ai danni di operai che lamentavano problemi di sicurezza.

 

Riarricchire l’impoverito

Una delle opzioni più “gradite” per risolvere la questione delle scorie è il loro reinserimento nel ciclo delle centrali nucleari attraverso il riarricchimento. A questa seconda possibilità negli ultimi anni hanno fatto ricorso le società europee Urenco e Cogema, che hanno impianti di arricchimento in Francia, Gran Bretagna, Germania e Paesi Bassi, e che hanno inviato le proprie scorie di uranio impoverito in Russia per il loro riprocessamento. Secondo un rapporto commissionato dall’organizzazione russa Ecodefense, datato agosto 2005, su 14.000 tonnellate di Du inviate in Russia, le società europee hanno riavuto indietro 2.330 tonnellate di materiale utilizzabile per le proprie attività. Il dato va letto anche in relazione ai costi del riarricchimento, di deposito e trasporto. Una valutazione in merito la fornisce Massimo Scalia, docente di Fisica ambientale all’università La Sapienza di Roma: «Il tasso di recupero dell’uranio rapportato al costo unitario dell’arricchimento raggiunge solo il 60% del valore che renderebbe economica l’operazione di riarricchimento» spiega. Senza contare che il processo produce nuovamente delle “code” di uranio ulteriormente impoverito. In definitiva, secondo Scalia, «sia per la sistemazione di lungo termine che per lo smaltimento, la soluzione del riarricchimento appare sostanzialmente marginale e densa di incognite ambientali e sanitarie».

 

La terza via

Sarà per questo che gli Usa stanno per sperimentare anche un’altra via. Nel 2007 è prevista la fine dei lavori per la realizzazione di un megasito di conversione dell’uranio impoverito a Paducah, in Kentucky. Qui l’esafluoruro di uranio, la forma gassosa in cui attualmente sono conservati gran parte degli stock di uranio impoverito presenti negli Usa, verrà trasformato in ossido di uranio, una forma solida e più stabile. Sarà il primo risultato concreto di una risoluzione operativa del Doe dell’agosto 1999, in cui l’istituto governativo raccomandava di convertire tempestivamente in ossido d’uranio le scorie conservate in forma gassosa. Il testo dichiara espressamente l’intenzione di utilizzare «quanto più possibile l’ossido di uranio impoverito per tutti i possibili usi». Inoltre il Dipartimento prospettava una conversione in metallo «ma solo nel caso in cui fossero disponibili usi per questo prodotto». In entrambi i casi, nel testo si faceva riferimento ai possibili usi civili dell’uranio impoverito. A questo scopo, nello stesso periodo, il governo ha avviato un programma di ricerca sulle applicazioni potenziali, ed economicamente vantaggiose, delle “scomode” scorie, partendo dagli usi già esistenti. E il riferimento non è solo all’ampio e noto utilizzo nell’industria bellica, per la realizzazioni di munizioni e il rafforzamento di carri armati e tank.

 

La scoria riciclata

«Dal 1985 la nostra azienda ha convertito oltre sei milioni di pound di uranio impoverito in 70mila prodotti sicuri». Recita così l’home page del sito di una delle aziende che realizzano prodotti contenenti uranio impoverito, la Manufacturing sciences corporation, società controllata dalla britannica Bng, con sede a Oak Ridge, Tennessee. Sei milioni di pound corrispondono a circa 2.721 tonnellate. L’elenco delle applicazioni lo fornisce la stessa società. Si va dai componenti per strumenti scientifici alle schermature per le radiazioni nucleari, dalle coperture per container a varie strumentazioni mediche, dall’impiego in leghe metalliche alla realizzazioni di contrappesi. Sono solo alcuni degli usi consentiti per l’impiego di materiali derivati dall’uranio impoverito.

Allo European patent office, l’ufficio dei brevetti europeo che ha sede all’Aja, sono registrati oltre 800 brevetti che utilizzano l’uranio impoverito, soprattutto per uso civile, alcuni dei quali depositati da meno di vent’anni e quindi ancora potenzialmente validi. L’utilizzo più consistente riguarda l’ambito dell’industria nucleare, della medicina e dell’industria petrolifera. «L’interesse per l’utilizzo dell’uranio impoverito a questi scopi – spiega Scalia – è facilmente comprensibile se si pensa che l’uranio depleto metallico è un materiale a basso costo e ad alta densità (la stessa del costoso tungsteno), facilmente disponibile: ideale, quindi, dal punto di vista economico, per ogni applicazione in cui la limitatezza degli spazi a disposizione impedisca il ricorso a materiali meno densi». È il caso dei contrappesi utilizzati per molto tempo dalle maggiori corporation aeronautiche per la costruzione di mezzi destinati all’aviazione militare e civile. «Ma – aggiunge Scalia – c’è anche un inventario di un centinaio di invenzioni che riguardano i campi più disparati, la quasi totalità dei quali configurano applicazioni per strumenti, dispositivi e utensili della nostra vita quotidiana».  Oltre agli usi industriali – come semiconduttori e catalizzatori chimici – nell’elenco dei prodotti brevettati figurano infatti anche oggetti di uso comune come freccette per il gioco dei dardi, mazze da golf, attrezzature per la pesca sportiva, collari per cani, respiratori subacquei, placche antiscasso e persino pannelli insonorizzatori per abitazioni.

 

Incidenti collaterali

Secondo gli studi finora realizzati, come quello condotto nel 2001 da Maria Betti dell’Istituto di ricerca europeo per gli elementi transuranici che ha sede a Karlsruhe, in Germania, i rischi derivanti da questi utilizzi non riguardano tanto l’esposizione alle radiazioni quanto le conseguenze di imprevedibili incidenti. I più significativi e di maggiore impatto riguardano lo schianto in aree abitate di aerei contenenti contrappesi in uranio (vedi box). Ma negli ultimi anni altri incidenti hanno riguardato oggetti contenenti uranio impoverito. Un’ampia rassegna è offerta dal sito della Wise (World information service on energy), il network internazionale con sede ad Amsterdam che raccoglie e diffonde notizie su tutto ciò che riguarda l’utilizzo del nucleare, a scopi pacifici o militari. La notizia più recente risale al febbraio 2004, ed è stata ripresa dal quotidiano francese Le Figaro. Quattro schermature per radiazioni contenenti Du, scambiate per lastre di piombo, sono state inavvertitamente fuse in una fonderia della Budin company ad Aubervillers, addetta appunto al recupero del piombo. Il 19 maggio 2003, la società che aveva acquistato i materiali recuperati ne accertò la radioattività, scoprendo la vera natura dei componenti. I lavoratori della Budin avevano dunque lavorato in ambiente contaminato per oltre sei mesi. Sempre in Francia è stata scoperta la presenza di uranio impoverito, in una concentrazione del 10%, nelle polveri utilizzate per la colorazione degli smalti. Le polveri erano liberamente acquistabili presso la ditta produttrice e venivano vendute senza alcuna indicazione sui possibili rischi.

Sono alcuni esempi di quella che Scalia definisce «la possibile invasione silenziosa» di componenti di uranio impoverito negli oggetti più disparati. Proprio per questo, conclude il fisico, «vanno predisposti in tempo utile strumenti legislativi che, come minimo, obblighino i produttori e i distributori a evidenziare la presenza di materiali tossici e radioattivi, anche se debolmente come nel caso dell’uranio impoverito».

 

Box/Voli radioattivi

Fino alla metà degli anni Ottanta, l’uranio impoverito è stato utilizzato per realizzare contrappesi per aerei ed elicotteri. Secondo l’Ente aviazione civile sono stati costruiti 551 Boeing 747 e 450 Douglas Dc10 con questi contrappesi. Anche il modello Lockeed Tristrar e alcuni tipi di elicottero contengono uranio impoverito. Il quantitativo stipato in un Boeing 747 era stimato, a seconda dei modelli, fra i 370 e i 500 chilogrammi. La “scoperta” dei pericoli legati all’utilizzo del Du in quest’ambito è avvenuta il 4 ottobre 1992, quando un Boeing 747 della El Al si schiantò a Bijilmermeer, un quartiere popolare di Amsterdam. Oltre alle vittime causate immediatamente dall’impatto, l’incidente ha lasciato una pesante eredità per gli abitanti del quartiere. Dei 288 kg di Du contenuti nell’aereo ne sono stati recuperati solo 130. I vigili del fuoco che accorsero per spegnere l’incidente non erano stati avvertiti della presenza di materiale radioattivo e alcuni di loro si sono ammalati. Secondo la fondazione Laka di Amsterdam, successivamente migliaia di persone hanno manifestato sintomi di malattie legate al sistema immunitario.

Il 22 dicembre 1999 un jumbo della Korean airlines precipita nei pressi dell’aeroporto di Stansted, in Inghilterra. Il velivolo conteneva 435 kg di uranio impoverito. Dopo questi incidenti il Du è stato via via sostituito dal tungsteno nella costruzione dei contrappesi e in alcuni dei velivoli già in uso. Nel 2000 la statunitense Nuclear regulatory commissione (Nrc) ha ricevuto una petizione con la richiesta di rafforzare le regole per il controllo dei contrappesi in uranio impoverito. La risposta dell’Nrc è arrivata il 6 gennaio 2005: «Le norme in vigore assicurano già adeguati livelli di sicurezza, sia per quanto riguarda i casi di incidenti che lo stoccaggio dei contrappesi presenti nei velivoli dismessi».