alternativa alla politica lacrime e sangue



da liberazione ottobre 2006 

L’alternativa alla politica di lacrime e sangue
Augusto Graziani e Riccardo Realfonzo

Un’azione di contrasto all’indirizzo di finanza pubblica messo in campo dal ministro Padoa-Schioppa e sostenuto dall’ala moderata dell’Unione è necessaria. Le forze politiche e sindacali della sinistra l’hanno capito e stanno dando battaglia. Tuttavia, come si sa, nell’arena politica affinché le migliori intenzioni conducano a buoni risultati è necessario che le armi della critica siano ben affilate. Occorre insomma comprendere sino in fondo cosa c’è dietro le diverse opzioni di politica di bilancio, al di là del balletto di cifre al quale assistiamo.
E’ evidente che i moderati dell’Unione ripropongono la strategia messa in campo dai governi dell’Ulivo nella seconda metà degli anni ’90. L’intenzione è di condurre già nel 2007 il deficit pubblico (l’eccesso annuale della spesa statale sulle entrate) al di sotto del limite del 3% del Prodotto interno lordo (Pil), come previsto dal Trattato dell’Unione. Ma si tratta solo di un primo passo. Negli anni successivi il deficit annuale dovrebbe continuare a diminuire in modo da determinare un consistente abbattimento dello stock di debito pubblico accumulato nel corso del tempo. Stando al Dpef il debito dovrebbe infatti calare di ben 10 punti di Pil nell’arco della legislatura. Questi obiettivi naturalmente possono ottenersi soltanto attraverso tagli alla spesa pubblica ed aumenti del gettito fiscale. Questi ultimi potrebbero ovviamente essere benvenuti, qualora derivassero dalla lotta all’evasione e dalla modifica delle aliquote in senso progressivo.
Invece la strada dei tagli alla spesa sembra al momento al vertice dell’agenda politica. Al tempo stesso, appare innegabile il profilo altamente restrittivo di un simile orientamento di politica economica.
Al fine di giustificare questo indirizzo, come è ben noto, si usa elencare una serie di vincoli che non lascerebbero alternative al governo: dalle norme del Trattato di Maastricht, ai rischi di declassamento del debito operato dalle agenzie di rating, al peso degli oneri del debito pubblico. Ormai sappiamo che si tratta di vincoli fittizi: non esistono infatti imperativi di natura tecnico-istituzionale che forzino il governo a porre in atto il presunto “risanamento” delle finanze pubbliche. Per chi avesse ancora dubbi a riguardo rinviamo all’appello degli economisti per la stabilizzazione del debito pubblico (disponibile sul sito www. appellodeglieconomisti. com, ora aggiornato con un’ampia raccolta di materiali).
Per fare un passo avanti nel comprendere le reali motivazioni delle forze moderate dell’Unione occorrerebbe piuttosto tornare a discutere di un altro vincolo, questo sì effettivo ed operante: si tratta dell’equilibrio dei conti con l’estero. La questione è molto semplice. L’Italia non può continuare indefinitamente ad esportare meno di quanto importi. Se intendiamo continuare ad importare massicciamente dall’estero dobbiamo essere capaci di collocare i nostri prodotti nei mercati internazionali. La letteratura sul declino tuttavia conferma che il nostro paese soffre di una cronica perdita di quote nel commercio internazionale e di una conseguente tendenza al disavanzo della bilancia commerciale. Di fronte a questo problema l’impostazione prevalente vede con favore le politiche di bilancio restrittive, fondate sull’abbattimento del debito pubblico, le quali freneranno la crescita della domanda, del reddito e quindi delle importazioni. L’aumento della competitività dell’economia italiana (e quindi la crescita delle esportazioni) viene affidato al contenimento dei costi di produzione, attraverso la riduzione degli oneri fiscali e contributivi, e soprattutto tramite un rinnovato patto di contenimento dei salari. Azione di abbattimento del debito e rilancio di un modello di competitività fondato sui bassi salari rappresentano dunque due facce della stessa medaglia.
Se questo è il quadro generale entro il quale si inscrive l’indirizzo di governo avanzato dalle forze moderate, è chiaro che l’azione critica che la sinistra sta portando avanti in queste settimane è opportuna. L’idea di “distribuire” il “risanamento” su due anni e ritardare la contrazione del deficit ostacola meritoriamente un progetto complessivo che ai lavoratori e alla sinistra non può che risultare inaccettabile. Tuttavia è anche chiaro che questa idea non basta e che, se lasciata a sé stessa, potrebbe anche rivelarsi fuorviante. Perché la gestione della congiuntura politica risulti efficace, infatti, occorrerebbe porre in luce che dietro di essa sussiste una “visione” dei problemi non subalterna ma realmente alternativa, una visione in base alla quale non ci si limiti a chiedere “sconti” sulla finanziaria ma si propongano soluzioni nuove. 

Il già citato appello degli economisti offre qualche buona indicazione in questo senso. Sono due gli aspetti che è qui necessario tenere ben chiari. Il primo aspetto attiene alla politica generale della finanza pubblica. L’appello chiarisce che è tecnicamente possibile assicurare la piena sostenibilità dei conti pubblici semplicemente stabilizzando il debito rispetto al Pil ai valori attuali. Il secondo aspetto attiene alla politica di rilancio dell’economia compatibile con la stabilizzazione del debito. Rispetto alla politica di abbattimento, anche la semplice stabilizzazione libererebbe ingenti risorse pubbliche. Naturalmente, la disponibilità di risorse è condizione non sufficiente ma necessaria per costruire una reale alternativa alla politica restrittiva basata sui bassi salari che sembra profilarsi all’orizzonte. Si tratterebbe cioè di attivare un meccanismo di sviluppo fondato su una nuova politica industriale, in grado di stimolare gli investimenti pubblici e privati ed accrescere, per tale via, il Pil. Ma la crescita del Pil, nelle condizioni attuali, genererebbe un aumento delle importazioni, aggravando i conti con l’estero. Per ovviare a questi inconvenienti, occorrerebbe quindi incidere sulla qualità degli investimenti. Non solo, infatti, non possiamo consentirci uno sviluppo che generi squilibri nella bilancia dei pagamenti, ma non possiamo nemmeno tollerare uno sviluppo che si traduca in un crescente squilibrio distributivo e territoriale o che aggravi ulteriormente il danno ambientale. Insomma, accanto agli investimenti privati servono considerevoli investimenti pubblici nelle infrastrutture, nella ricerca, nella produzione e nel trasferimento dei brevetti, al fine di guidare l’apparato produttivo verso un vero e proprio salto tecnologico. A date condizioni, una competitività legata non più ai bassi costi di produzione e ai bassi salari, bensì alle nuove tecnologie, è tuttora possibile.