l'ora della biobenzina con qualche ma



da boiler.it
27.09.2006
FOCUS: Energia
L’ora della biobenzina. Con qualche ma...
Ancora non hanno un grande spazio nelle politiche energetiche, ma sono in molti a progettare un futuro più verde, e a puntare sui biocarburanti. Le piante potrebbero essere la soluzione ai combustibili fossili. Ma occorrono approfonditi studi preliminari per non incorrere in rischi più gravi di quelli che si vorrebbero arginare.
Biodiversità in pericolo con la biomassa?
di SARA CAPOGROSSI COLOGNESI 

BIOCOMBUSTIBILI sì, ma ricavati da organismi di casa propria, perché altrimenti si andrebbe a gettare acqua (in questo caso peggio ancora: combustibile) sul fuoco. E il fuoco di cui si parla sull'ultimo numero di Science è quello delle specie invasive, che rischiano di inquinare, o nel peggiore dei casi sostituire completamente, quelle native. Un gruppo di studiosi, che prende parte all'Illinois Natural History Survey ha voluto richiamare l'attenzione su un aspetto di queste sperimentazioni che troppo spesso passa inosservato. «Le coltivazioni per combustibili biologici possono portare benefici economici, ma raramente vengono effettuati studi sui rischi ambientali delle introduzioni di organismi viventi in nuovi ambienti», scrivono i ricercatori. «Malgrado possano essere validi gli accenni aneddotici di “basso rischio” per alcune specie, l'introduzione di molte specie vantaggiose ha avuto costi economici e ambientali a lungo termine a causa della loro invasività». E gli esempi si sprecano: si va dalla cosiddetta canna domestica (Arandodonax), alla picta (Phalaris arundinacea, graminacea usata per abbellire i giardini), alla cannarecchia (Sorghum halepense, pianta infestante del mais e di numerose altre colture erbacee ed arboree) che in alcuni stati Usa causaogni anno danni per oltre 30 milioni di dollari.

Le piante invasive sono in genere specie provenienti da paesi diversi, che introdotte in situazioni nuove trovano ambienti favorevoli, privi di predatori e malattie specifiche e che si propagano quindi rapidamente a scapito delle varietà locali. Purtroppo anche quando si cerca di prevenire danni ambientali di questo tipo, isolando piante sterili, incapaci di riprodursi e dare semi fertili, nessuno garantisce che l’incontro con specie native non dia risultati inaspettati, e che la propagazione risulti anzi più rapida e violenta di quanto avviene in altri casi. Questo è quanto succede per esempio con il Miscanthus giganteuso con il Panicum virgatum, considerate in Europa e negli Stati Uniti come possibili protagonisti in coltivazioni per l’energia da biomassa.

Sembrerebbe una battaglia persa in partenza: nel mondo sono pochi i successi ottenuti nel controllo di vegetali (o animali) invasivi. Esistono, certo, gli erbicidi, ma un uso eccessivo (come richiesto in questi casi) sarebbe controproducente dal punto di vista economico e anche ambientale. Le armi biologiche esistono, e in molti casi sono più accessibili, ma introdurre un nemico naturale (nuova specie invasiva) per controllare il nostro intruso sarebbe come cercare di aggiustare un tavolo martellando a casaccio: magari becchiamo pure la gamba rotta, ma intanto lo abbiamo riempito di buchi. In pratica gli organismi ostili alla specie da controllare potrebbero decidere di “controllare” varietà con grande valore commerciale, come mais, grano o riso e produrre danni ancora maggiori all’economia. La riflessione va fatta a monte. Prima di introdurre qualsiasi specie (e questo è un discorso generale, che non vale solo per i biocombustibili) bisogna ragionare sui rischi e i benefici di questa azione, che spesso è un cammino senza possibilità di ritorno. «Introdurre determinate specie vegetali come fonti di biocombustibili può essere sicuro, ma la sicurezza deve essere stabilita da analisi agronomiche ed ecologiche. Analisi che sono già ora obbligatorie per quanto riguarda gli agenti di controllo biologico e le piante transgeniche», concludono gli studiosi nell’articolo su Science.

Una rivoluzione tra economia e agricoltura

L’ERA dei carburanti fossili non è ancora tramontata, ma «produrre combustibili supplementari con la biomassa allo stesso tempo può assolvere tre importanti compiti senza richiedere modificazioni sostanziali dei veicoli esistenti o delle infrastrutture per la distribuzione del carburante: la sicurezza dei rifornimenti (i biocombustibili possono essere prodotti localmente con sistemi sostenibili), una minore emissione netta di gas serra (i biocarburanti riciclano l’anidride carbonica estratta dall’atmosfera per produrre la biomassa), e sostengono l’agricoltura», ha scritto Steven Koonin, fisico teorico del California Institute of Technology, in un editoriale pubblicato pochi mesi fa su Science, in un numero che approfondisce vari aspetti dello sviluppo e dell’economia dei biocarburanti.
Per ora i prezzi non sono competitivi e le tecniche non sono perfezionate, ma molti paesi (inclusa l’Unione europea, gli Stati Uniti e l’India) entro i prossimi 5 anni mirano a produrre in questo modo il 5 per cento del combustibile usato nei trasporti terrestri.
In effetti esistono studi, sottolinea Koonin, che dimostrano come il 30 per cento dell’intera domanda energetica potrebbe essere coperto dai biocarburanti, in maniera responsabile, con senza gravare sulla produzione alimentare e sull’ambiente. E’ una sfida cui sono chiamati esperti di tutti i campi, dai biologi agli agronomi, dagli ingegneri ai sociologi. Le coltivazioni per la produzione di energia dovrebbero essere incrementate geneticamente, dovrebbero essere ampliate fisicamente, dovrebbero essere modificate in modo tale da aumentare la resistenza agli stress. «La combinazione delle moderne tecniche transgeniche e di incrocio dovrebbero dare risultati più grandi di quelli della Green Revolution nelle coltivazioni alimentari, e in minor tempo», scrive Koonin.
I costi di trasporto possono essere ridotti notevolmente perchè non è necessario che in questo caso la biomassa rimanga intatta. Può essere migliorata la produttività della biomassa in termini energetici, per esempio utilizzando la componente lignocellulosica.
Devono infine essere approfonditi gli aspetti politici e sociali della produzione di biocarburanti. Il bilancio tra vegetazione naturale e colture, meccanizzazione dell’agricoltura e opportunità di impiego, coltivazioni destinate alla produzione di cibo e di energia: «Qualsiasi siano le esigenze, le tecnologie dovranno essere in grado di assecondare una varietà di richieste in tutto il globo». Finora, aggiunge lo studioso, le capacità scientifiche e ingegneristiche non si sono focalizzate in modo coerente per analizzare e risolvere tutti i problemi che girano intorno allo sviluppo e all’uso dei biocarburanti. Ma il prezzo da pagare continuando a usare i combustibili fossili sarebbe troppo alto: è tempo ormai di coordinare gli sforzi di governo, industria, università per dare avvio a politiche energetiche più responsabili ed efficaci.

La fotosintesi nel serbatoio

L’USO di combustibili fossili come fonti energetiche riscalda il nostro pianeta. In un editoriale pubblicato quest’estate, a giugno, su Science Chris Somerville, professore a Stanford e direttore del Department of Plant Biology della Carnegie Institution ricorda che questa scoperta non è recente: già nel 1895 Svante Arrhenius, un chimico austriaco, pubblicava un articolo a questo proposito. E da allora una crescente mole di dati sperimentali non ha fatto che confermare e anzi aggravare le più nere previsioni. Il riscaldamento aumenta e i combustibili fossili sono alla base del problema. Un problema che peraltro è destinato a crescere al crescere della richiesta energetica. Eppure la Terra ha, o avrebbe, una sua fonte energetica rinnovabile che può fornire 4000 volte più energia di quanto l’uomo ne possa aver bisogno anche tra una cinquantina di anni. Una fonte che però non è facile utilizzare. Si parla infatti del sole, e finora l’unica reazione in grado di raccogliere una quantità di energia solare sufficiente a contribuire in maniera efficiente e competitiva ai nostri bisogni è la fotosintesi. Le piante dunque sono la chiave, l’unica che possa aprirci enormi serbatoi di energia, in forma di biomassa.
Forse non tutti sanno, per esempio, che il Brasile ottiene un quarto del combustibile necessario per i trasporti via terra dall’etanolo prodotto attraverso la fermentazione dello zucchero di canna, ricorda Somerville. O che negli Stati Uniti circa 90 raffinerie per la trasformazione del mais producono 4,5 miliardi di galloni ogni anno. Eppure non basta. Per sostituire il 30 per cento dei 140 miliardi di galloni che annualmente gli Usa utilizzano per i trasporti terrestri, come auspicato dal segretario per l'energia, si dovrebbe arrivare a raffinare 60 miliardi di galloni di etanolo. E il programma non sembra del tutto campato in aria.

Prima di allora però, avverte Somerville, bisognerà risolvere alcuni problemi. Per esempio la cellulosa è un substrato recalcitrante per la bioconversione e la quantità di enzimi necessaria per produrre zucchero sarebbe troppo enorme. La lignina occlude i polisaccaridi e inibisce l’idrolisi enzimatica di questi carboidrati; la sua rimozione richiede pretrattamenti eccessivamente dispendiosi dal punto di vista energetico e corrosivi. Il lievito che attualmente viene utilizzato nella produzione di etanolo su grande scala non riesce a fermentare in modo efficace zuccheri diversi dal glucosio. E basta una piccola concentrazione di etanolo per uccidere i microrganismi, cosicché serve una dispendiosa separazione del prodotto dal medium su cui cresce il lievito.

Questi sono solo alcuni degli aspetti più tecnici che complicano la produzione di energia da biomassa. Problemi complessi, come quello delle specie invasive utilizzate in questi programmi, ostacoli che difficilmente verranno risolti senza adeguati finanziamenti alla ricerca di base sulla biologia vegetale (che per esempio negli Usa ammontano solo all’1 per cento del budget dei National Institutes of Health). E allora non stupiamoci, scrive ancora Somerville, se non conosciamo informazioni fondamentali come la composizione del complesso enzimatico che sintetizza la cellulosa.

Sono molteplici gli aspetti da prendere in considerazione se si vuole incrementare l’industria di biocarburanti cellulosici. Una possibilità, secondo lo studioso, è quella di creare un progetto come quello Manhattan, che tra l’altro ha dato il via ad alcune linee di studio utili alla tecnologia dei biocarburanti e potrebbe quindi rivelarsi una fonte importante di conoscenza scientifica e ingegneristica.