le bugie degli economisti .



da lanuovaecologia.it Giovedì 5 Aprile 2007

TERRAMADRE|

Le bugie degli economisti
Vandana Shivadi VANDANA SHIVA

"Sotto lo tsunami della globalizzazione è in atto il tentativo di marginalizzare i piccolo coltivatori"

Nel 1942 due milioni di indiani morirono di fame a causa della carestia in Bengala. Da quando ha conquistato l’indipendenza, l’India ha realizzato un modello di sicurezza alimentare isituzionalizzando una serie di politiche, centrate sui piccoli coltivatori e su un sistema di sussidi pubblici all’agricoltura. Oggi, sotto lo tsunami della globalizzazione, è in atto il tentativo di marginalizzare e rendere non più indispensabili i piccoli coltivatori, spina dorsale dell’economia e della democrazia indiana. Già negi anni passati i loro profitti si sono notevolmente ridotti. Ora si sta cercando di impossessarsi della loro terra, sostenendo che l’agricoltura su scala ridotta non è sostenibile dal punto di vista economico. Ma non sono le piccole fattorie ad essere economicamente poco sostenibili. Prima della globalizzazione, gli appezzamenti di terra hanno avuto un’ottima capacità di sostentamento, quando i prezzi pagati per i prodotti erano corretti ed esisteva una politica di tutela. Anche oggi, se non cadono nelle trappole delle multinazionali, le piccole fattorie hanno una produzione certa e vantaggiosa. Il problema, insomma, non sta nel modello delle fattorie ma in quello della globalizzazione imposta dalle multinazionali.

Per cercare di giustificare la politica degli espropri dei terreni, già in atto con la creazione delle cosiddette Zone a economia speciale, vengono utilizzati due argomenti, entrambi falsi. Il primo l’abbiamo appena accennato: l’agricotura tradizionale non è più sostenibile e gli agricoltori devono lasciare le terre. Questo argomento è stato proposto, tra gli altri, dall’economista Jayaprakash Narayan in un articolo pubblicato a gennaio scorso sul Financial Express. Narayan sostiene che «con la riduzione del Pil, sia un aumento di industrializzazione che un cambio delle occupazioni si rendono ormai indispensabili. L’India non può continuare ad essere un paese ad economia prevalentemente agricola se vogliamo realizzare un ideale di rapida crescita economica e di potere globale». Eppure la “crescita rapida” è attualmente una crescita della disoccupazione, sia perché si gioca in gran parte nel campo dell’economia speculativa finanziaria sia perché lo sviluppo industriale non è più basato sulla manodopera e non crea grandi quantità di posti di lavoro.

Come si fa a dire che l’India sarà una grande potenza mondiale quando milioni di indiani potrebbero essere derubati della loro terra? La visione degli economisti è così distorta da perdere di vista le semplici verità. Un altro articolo pubblicato dall’Economist sentenzia che «i contadini possono salvarsi dal suicidio solo se si salvano dalla terra». Ma per un contadino la terra non è mai stata una minaccia dalla quale si sente il bisogno di mettersi in salvo. È al contrario il loro sostegno, il mezzo che offre da vivere, la loro sicurezza e identità. Mentre i cattivi affari in cui si sono trovati tanti contadini sono solo il risutato dei profitti delle multinazionali nel settore agricolo. Alti costi di base, per i semi o per gli additivi, hanno fatto crescere i costi di produzione. E al tempo stesso la liberalizzazione del mercato ha fatto abbassare i prezzi dei prodotti agricoli. Il risultato di questo doppio movimento è una congiuntura drammatica per i coltivatori: le spese superano spesso i profitti e di conseguenza sono sempre più diffusi i debiti e i casi di suicidio.

Alternative praticabili esistono e sono praticabili: si possono abbassare i costi con l’autoproduzione di semi e l’agricoltura biologica e aumentare i proventi degli agricoltori introducendo un sistema di prezzi equo. Ci siamo riusciti a Navdanya e non c’è nessun motivo per cui anche altrove i contadini non debbano vedere garantiti diritti e dignità. L’altro argomento utilizzato per giustificare la politica degli espropri è che l’India deve industrializzarsi. Ma si tratta di un’argomentazione falsa: l’India è già industrializzatata. Abbiamo le nostre acciaierie e le nostre fabbriche, che garantiscono la produzione dei beni necessari alla popolazione. L’ondata di industrializzazione ritenuta indispensabile è quella indirizzata al mercato globale. Fino a che punto l’India è capace di sostenere un sistema di produzione ad alto consumo di risorse? Se l’Occidente ha distrutto il pianeta per soddisfare il proprio appetito di beni e di energia, quanti pianeti dovrà distruggere l’India per replicare un modello basato sullo spreco?