ho comprato un rene in nepal



da repubblica.it
Da leggere su L'espresso

Ho comprato un rene in Nepal
di Alessandro Gilioli da Kathmandu

Mille euro al donatore. Mille all'intermediario. Cinquemila per il trapianto illegale in India. Un giornalista de L'espresso è entrato nel mercato clandestino degli organi. Tra documenti falsi e chirurghi corrotti. Ecco il suo racconto 
 
Tutto si può dire di Krishna Kanki, malavitoso nepalese in carriera, tranne che non sappia vendere la sua merce: "I miei donatori sono ragazzi sani, robusti e di campagna", dice: "Io prendo solo gente a posto, niente fumo, niente droghe, niente alcol. E poi faccio sempre tutti gli esami: Hiv, epatite, tubercolosi. Alla fine scegliamo il migliore e ve lo portate via. è facile, l'abbiamo già fatto decine di volte con gente che veniva dall'Europa, dall'America e da Singapore...".

Allora non è una leggenda metropolitana. La macelleria internazionale degli organi umani è una realtà concreta, prospera e diffusa. E adesso ha anche volti, nomi e indirizzi precisi, almeno in una delle sue tante incarnazioni: quella del traffico di reni che avviene tra il Nepal e l'India, i paesi più attivi dell'Asia - insieme al Pakistan - in questo oscuro mercato globale. 'L'espresso' ne ha percorso tutto il cammino, dai vicoli di Kathmandu fino alle cliniche di lusso di Calcutta, acquistando il rene di un ragazzo nepalese e prenotandone il trapianto con il consenso di un chirurgo indiano.

Al bazar dei documenti falsi
E' appunto a Kathmandu, l'ex capitale degli hippies oggi stremata da dieci anni di guerra civile e sovrappopolata da un'inurbazione selvaggia, che nel novembre del 2006 sento le prime voci sul boom locale dell'offerta di organi. Si dice che i contadini sfollati, la gente dei villaggi indebitata e le vedove senza speranza siano diventati il serbatoio di questo commercio gestito da una dozzina di 'middle men', gli intermediari tra pazienti benestanti (quasi sempre stranieri) e aspiranti venditori di organi. Nella confusione del dopoguerra in città è venuto meno il potere dello Stato, si è impennata la criminalità, è dilagata la corruzione. E all'anarchia nepalese fanno riscontro appena al di là del confine le moderne cliniche private indiane, dove molti medici (retribuiti 'a cottimo' per ogni intervento) accettano i certificati fasulli prodotti in Nepal, pur consapevoli della loro fraudolenza.

Così, a fine aprile, torno a Kathmandu con una falsa diagnosi di 'malattia renale policistica bilaterale', in cerca di un trapianto per evitare di entrare in dialisi. Ho con me un paio di analisi del sangue contraffatte - con la creatinina impazzita e altri valori alterati - più la diagnosi su carta intestata di un medico che certifica le mie condizioni.

Con una matita da trucco mi appesantisco le occhiaie e vado al National Kidney Center, la più nota struttura privata locale per la cura dei reni. Qui, senza bisogno di mostrare alcunché, scopro subito che basta rivolgersi a un qualsiasi paramedico - ma va bene anche un guardiano o un barelliere - per mettere in giro la voce che si ha urgentemente bisogno di un rene nuovo, lasciando il proprio numero di cellulare e una mancia. Nessuno si stupisce, nessuno chiede alcunché, molti promettono aiuto.

Nemmeno tre giorni dopo arrivano le prime telefonate, con i nomi, i numeri e gli indirizzi di due intermediari. Così inizia il mio viaggio nella malavita di Kathmandu, riconvertita dallo spaccio di droga al più remunerativo business degli organi.

Il primo 'middle man' che mi fissa un appuntamento si chiama Krishna Kanki e ha la sua base accanto a un negozio di pashmine sulla Tridevi Marg, uno stradone pieno di mendicanti a due passi dal quartiere turistico di Thamel. Per maggiore sicurezza, vado a trovarlo accompagnato da Sudarshan, un amico nepalese il cui fratello un anno fa si è comprato un rene e che quindi ha un po' di esperienza nel giro.

Krishna che ci aspetta davanti al negozio. Ha una trentina d'anni, i baffetti curati e una polo viola. Ci fa cenno di seguirlo e - senza voltarsi - ci porta in una piazzetta appartata, la Bhagwan Bahal. Sotto un ombrellone aperto davanti a un baretto malconcio ci sono quattro sedie di legno bianco che costituiscono evidentemente il suo informale ufficio. Krishna parla solo con Sudarshan, in nepalese, a voce bassa e senza mai guardarmi. Non sembrano interessargli granché le mie condizioni di salute - a parte il gruppo sanguigno - e dopo le rassicurazioni sulla robustezza dei suoi ragazzi ci spiega la procedura successiva, a sentir lui semplicissima e rodata: "Lo sapete, per la legge indiana bisogna che tra il donatore e il paziente ci sia una relazione di consanguineità. Con i malati di qui facciamo un paio di falsi certificati e diciamo che sono fratelli. Per gli occidentali invece il sistema migliore è quello di inventarci un figlio". Un figlio? "Sì, certo. Diciamo che tu sei venuto in Nepal una ventina di anni fa e hai avuto una storia con una ragazza locale. Bene, il bambino non te lo sei portato a casa ma l'hai sempre aiutato da lontano, mandandogli soldi e vestiti. Ora lui è diventato grande, vuole sdebitarsi e ti dà il suo rene. è facile, funziona sempre. Basta costruire un documento di paternità con il timbro del ministero, che noi ovviamente sappiamo come procurarci". E la mamma chi sarebbe? "Non è un problema. Troviamo una donna più o meno della tua età che certifica la vostra vecchia relazione e garantisce la paternità del ragazzo...". 
   
Luminari e prezzolati
L'estrema facilità con cui il broker descrive i vari passaggi ha un che di irreale, come se fossi lì a comprare un souvenir. Tuttavia, di fronte alla sua irritante sicurezza, cerco di mostrare le paure e l'incredulità proprie del paziente occidentale timoroso che qualcosa vada storto: "Ma sono documenti credibili? E se poi in India il medico li rifiuta?". Krishna sorride appena, senza mai rivolgere lo sguardo a me: "Vedete, non importa a nessuno se sono credibili o no. Certo, noi produciamo dei falsi perfetti, ma è solo per sicurezza. In realtà in India i chirurghi sanno benissimo che è tutto fasullo e fanno solo finta di crederci". E ancora, sempre con una punta d'ironia: "A volte sono loro stessi a telefonarci per dirci che cosa dobbiamo scrivere su quei fogli, in modo da non avere problemi con i loro consigli di amministrazione o magari con qualche collega invidioso. Ricordatevi bene una cosa: se il dottore in India vi fa qualche domanda di troppo, è solo per avere un sovrapprezzo in nero sulla parcella della clinica, che pure gli dà il 50 per cento di ogni operazione. Voi passategli una buona mancia e vedrete che tutto finisce lì".

Dopo un po', Krishna sembra perfino scocciato dalle nostre ansiose domande, quasi che queste possano mettere in dubbio la sua professionalità e le sue connessioni con i medici di là del confine. E a fronte dei miei timori sulle capacità dei chirurghi indiani, il mediatore fa già, tranquillamente, il primo nome: "Io lavoro con i migliori trapiantologi del Paese. A Chennai mando la gente al St.Thomas Hospital, dal dottor Ravichandran, il capo del dipartimento di nefrologia. Bravissimo, un luminare mondiale. Mi ha già fatto diversi occidentali come te, e sono tornati tutti a casa felici e contenti".

Il tremore pauroso di Daniel Rai
Dopo una mezz'oretta di rassicurazioni e chiacchiere, inevitabilmente il discorso cade sui costi. E qui Krishna snocciola senza imbarazzi le sue parcelle: "Servono subito 160 mila rupie (circa 200 euro) per fare gli esami del sangue ad almeno due possibili donatori. Poi, se va tutto bene, il rene costa 1.800 euro: un terzo subito, un terzo appena hai fatto l'operazione, l'ultima parte dopo le dimissioni dall'ospedale". Altre spese? "Al donatore non devi dare niente, ci penso io. Semmai compragli qualche vestito per renderlo decente quando lo presenti al dottore. Il ricovero in India e tutte le medicine sono naturalmente a tuo carico. Poi calcola tre biglietti aerei per Chennai: per te, per il donatore e per il mio watchman". E chi sarebbe questo watchman? "Ci vuole sempre un mio uomo che controlli tutto. Mettiamo che al donatore salti in testa di scappare all'ultimo minuto: bene, il mio watchman è lì per impedirglielo. Questi ragazzi a volte sono strani, si prendono paura all'improvviso, è sempre meglio tenerli d'occhio...". Poi si ferma, guarda l'orologio d'oro e finalmente alza lo sguardo: "A proposito, ne volete conoscere un paio?".

Così Krishna sfodera la sua arma a sorpresa: un numero digitato in fretta al cellulare, poche frasi secche in nepalese e tre minuti dopo da dietro l'angolo si materializzano, a passi lenti e in silenzio totale, due ragazzi già reclutati. "Naturalmente prima dobbiamo verificare il gruppo sanguigno", dice il mediatore, "ma loro sarebbero già pronti".

Uno è poco più di un bambino. Ha tratti tibetani, una magrezza impressionante sotto la T shirt lurida. La gamba sinistra gli trema, non solleva lo sguardo dal tavolo. Sembra terrorizzato dalla situazione che pure ha scelto di vivere. L'altro è molto più tranquillo, ha un inizio di barba sul mento e si siede accanto al suo carnefice. Bevono una Sprite, sempre senza aprire bocca. Io li guardo in faccia, loro fissano l'asfalto sotto le loro infradito di plastica.

È lo stesso Krishna, pochi minuti dopo, a farli un po' parlare: forse ha paura che risultino antipatici al ricco cliente venuto dall'Europa. Inizia il ragazzo più piccolo, quello spaventato. Si chiama Daniel Rai e dichiara vent'anni: una palese bugia, probabilmente è minorenne. Proviene da un piccolo villaggio del Terai, l'afosa pianura lungo i confini meridionali del Nepal. Sua madre - dice - è morta quando lui aveva otto anni. Papà ha trovato un'altra donna e ha cominciato a bere, facendo debiti per l'alcol, per poi andarsene dal villaggio con la nuova compagna. Lasciando lui - primo figlio maschio - a difendersi dai creditori. Allora Rai è venuto nella capitale, ha trovato qualche lavoretto. Ma i soldi raccattati qua e là non bastano, deve tornare in fretta al villaggio per pagare gli usurai: gli interessi sono del 30 per cento l'anno. Altrimenti quelli gli prendono la casa e sbattono in strada tutti i suoi fratelli.
L'altro ragazzo, il più grande, si chiama Sonam, dice di avere 25 anni e viene dal villaggio di Kavre, sempre nel Terai. A Kathmandu fa l'aiuto meccanico, porta a casa una quarantina di euro al mese ma ora la moglie si è ammalata di cuore e "in Nepal le medicine si pagano care, senza i miei soldi muore".

Quando hanno finito, Krishna fa un mezzo sorriso ironico rivolgendosi a noi in modo complice: "Raccontano tutti storie strappalacrime, poi non lo saprai mai che cosa ci fanno davvero con i soldi. Io sono onesto, gli dò sempre metà di quello che prendo, ma quando vedono tutte quelle rupie in una botta sola non capiscono più niente. Qualcuno se le beve, qualcuno si compra la moto: una bella Hero Honda con cui tornare al villaggio a fare il gradasso. Poi sì, ci sono anche quelli bravi, che magari si comprano un campo per coltivare il riso, ma sono sì e no due su dieci. Comunque, fatti loro".

Già, fatti loro. L'importante, per me, è che siano davvero disposti a vendersi un organo. Come faccio a sapere che sono d'accordo con quello che stiamo per fare? Alle mie perplessità Krishna si volta verso i ragazzi e dice qualcosa in nepalese. Daniel risponde con un semplice cenno di sì con la testa, tenendo sempre gli occhi bassi; Sonam - forse più bravo a recitare - si dice addirittura "felice" di poter salvare la mia vita.

In tutto, il primo incontro con Krishna e i suoi ragazzi da macello dura quasi un'ora, in un'atmosfera vagamente irreale: Daniel Rai, Sudarshan e io molto tesi, Krishna e l'altro donatore tranquilli. Poi lui spedisce via i due ragazzi e ci fornisce gli ultimi dettagli: "Se ci state, datemi subito i soldi per gli esami, così li facciamo domattina. Poi preparo i documenti, in un paio di giorni sono pronti. Se è tutto okay, tra una settimana siete a Chennai e fra un mese tu torni a casa col rene nuovo". Le 160 mila rupie passano di mano in mano, Krishna le infila rapido nelle tasche dei jeans senza nemmeno contarle. Mi dà appuntamento per il giorno dopo alla Pathology Laboratory Clinic, nella zona di Kalanki, in modo che io possa verificare che i ragazzi fanno davvero i test del sangue. Poi si alza di scatto e si dilegua verso la folla di Thamel.

Non lo rivedrò più, perché la mia compravendita avverrà attraverso altri canali. Probabilmente, in questo momento, Daniel Rai avrà già venduto il suo rene a un altro paziente straniero. Sonam, chissà: l'impressione - condivisa dal mio amico Sudarshan - è che fosse solo un complice del mediatore, portato lì per far numero e darci l'apparenza di una scelta, mentre la vittima predestinata pareva comunque l'altro ragazzo.

I bambini sepolti in giardino
L'appuntamento con il secondo mediatore avviene il giorno dopo, nel pomeriggio. Hari Tamang, una cinquantina d'anni, corporatura tozza e occhiali azzurri di marca, ha un negozio di copertura - fotocopie e fax - in un vicolo sulla strada commerciale del Bagh Bazar. Dentro, una sola fotocopiatrice, un vecchio computer, una grande foto del defunto re Birendra e un tavolo di finto legno.

Hari sa perché sono lì, mi fa sedere e parla per primo, soprattutto di sé: "Qui mi conoscono tutti, sono il migliore in città. Ho avuto pazienti canadesi e tedeschi, i miei documenti sono sempre perfetti. Adesso qui in Nepal c'è il boom e si improvvisano tutti mediatori, ma non devi fidarti. Io faccio questo mestiere da dieci anni, mi sono venduto un rene anch'io e mia moglie pure". Poi indica un adolescente con un orecchino turchese cha sta ascoltando musica al desktop lì accanto: "E quello è Prakash, mio figlio: appena ha l'età, mandiamo in India anche lui".

Il suo punto di forza, racconta orgoglioso Hari, sono i rapporti con i chirurghi indiani, coltivati in due lustri di corruzione. Hari fa il nome di Ravichandran, a Chennai: lo stesso medico indicato da Krishna. Sempre a Chennai, il mediatore dice di lavorare anche con un'altra clinica privata, il Medical Madras hospital, dove il suo riferimento - dice - è "un medico famoso, Georgi Abraham". Ma nel mio caso, dice, la cosa migliore è puntare sull'Apollo Gleneagles Hospital di Calcutta dove - sostiene lui - conosce tutto il reparto di nefrologia: "Lì hanno appena fatto il trapianto a tre occidentali, giusto la settimana scorsa", spiega, "e poi in questo periodo il West Bengala è il posto migliore". Fino a pochi mesi fa, racconta, la sua base preferita era invece Madurai, nel Tamil Nadu: all'Apollo Hospital locale lavorava senza problemi con tale dottor Palani Rajan, anche lui nefrologo esperto in trapianti. Ma "ora su Madurai la polizia ha gli occhi puntati, meglio starci lontano". Perché? Hari fa una smorfia e spiega che nel Tamil Nadu - la regione indiana più colpita dallo tsunami del 2004 - negli ultimi due anni la vendita degli organi è esplosa oltre ogni misura perché la gente aveva bisogno dei soldi per ricostruirsi le case. Il mercato dei pezzi di ricambio umani ha raggiunto dimensioni tali da costringere a muoversi perfino la pigra polizia locale. Così sono partite un po' di inchieste e ora i dottori devono stare quatti. Del resto anche a Delhi - si lamenta Hari - non si lavora più bene come una volta: nel dicembre scorso a Noida, un centro industriale non lontano dalla capitale, hanno trovato gli scheletri di 15 bambini nel giardino di una casa privata e il giudice sospetta che siano stati ammazzati per estrarne i pezzi. I cadaveri erano conciati troppo male e sepolti da troppo tempo per capire se gli organi ne erano stati asportati o no. Ma intanto a Delhi i medici stanno in campana e il mercato dei reni è quasi bloccato.

Per fortuna a Calcutta, invece, continua tutto come prima.
Dopo il racconto sulle cliniche, Hari passa finalmente alla parte economica: il rene da lui costa circa 2 mila euro, metà prima e metà dopo il trapianto. Provo un po' a contrattare ma lui non si smuove ("Sorry, fixed prices", e "per un occidentale è la tariffa minima"). Interviene anche Prakash, il figlio adolescente già destinato a un prossimo espianto, che molla per un attimo il pc e si rivolge a me con impavida arroganza: "Guarda che mio papà è il migliore sulla piazza, lui fa una telefonata in India e il trapianto è già fatto...".

Alla fine Hari accetta solo una diversa distribuzione delle rate, un terzo alla volta come Krishna. E anche lui mi dà appuntamento è per il giorno dopo per conoscere i donatori e fargli fare i test del sangue.

Una mazzetta per uscire di galera
Se l'incontro con Krishna era stato pieno di silenzi e tensioni, la trattativa con Hari si è svolta invece in modo molto diretto, magari un po' rude ma senza alcuna emotività: come esige una qualsiasi transazione commerciale da concludere in fretta, per il bene di tutti.

La sera, a cena con un paio di amici nepalesi, chiedo notizie sui due mediatori incontrati in giornata e scopro che in città sono ben conosciuti. Krishna Kalki - il primo che ho incontrato - è un emergente del settore: cresciuto alla scuola di Hari, ora si è messo in proprio e sta cercando il suo spazio in un mercato in rapida crescita. Non ha mai voluto vendersi direttamente un suo rene, ma l'ha fatto fare al suo vice, Ashok, che usa anche come watchman da spedire in India.

Hari Tamang invece è un veterano, considerato davvero il numero uno a Kathmandu, con una media di dieci clienti al mese. Mille euro netti di profitto l'uno, e il calcolo di quanto si porta a casa è presto fatto. Ogni mattina i suoi uomini fanno il giro della città - ma a volte vanno anche fuori Kathmandu, nei sobborghi della vallata - a cercare nuovi ragazzi da squartare. Hari ha avuto anche i suoi problemi con la giustizia: tre anni fa ha litigato con un donatore - pare per una percentuale non pagata - e quello l'ha denunciato. Lui è finito in galera ma ne è uscito sette mesi dopo, pagando una cauzione e aggiungendo una stecca al magistrato. Quindi ha ripreso l'attività, che ora gira a pieni motori.

L'acquisto di Deepak
Il giorno dopo, al negozio, Hari dà prova di efficienza facendo arrivare in pochi minuti i tre donatori che in meno di 24 ore ha trovato per me, sulla base del mio gruppo sanguigno. Entrano nel vicolo un po' ciondolanti, uno accanto all'altro, e - richiesti dal mediatore - si presentano al loro acquirente europeo come alunni disciplinati.

Uno si chiama Dinesh, ha 24 anni e viene da Hetauda, cittadona del sud nepalese. Dice di essersi sposato a 13 anni, ora ha tre figli e con il suo stipendio di 35 euro al mese - fa l'operaio in una fabbrica di tappeti - non riesce a mantenerli.

Il secondo, Bikran, 22 anni, con un cappellino da baseball e una T-shirt di Kurt Cobain, sorseggia una Fanta e parla pochissimo: dice solo di venire dal Terai e di avere bisogno di soldi.

Il terzo, più giovane di tutti, si chiama Deepak Lama: ha un volto timido e pulito, l'aspetto apparentemente curato, anche se la maglietta che indossa è poco più di uno straccio. E nato in un villaggio del Terai, sempre nell'area di Hetauda, e spiega che la sua è una famiglia di 'sukumbashi': parola nepalese che si potrebbe tradurre come 'rifugiati', ma qui indica semplicemente quelli che non hanno nemmeno una casa di frasche e quindi dormono per strada.

Anche Deepak lavora alla fabbrica di tappeti - la stessa di Dinesh - e questo consente al mediatore di cantare le lodi della sua merce: "Sono tutt'e tre di etnia Lama, come la mia. Gente robusta, fisici sani, per questo li prendono nelle carpet factories. Credetemi, sono i donatori migliori, ve lo dico io che ho esperienza".

Poi Hari, di buon umore, esce dal negozio e ferma un taxi, per andare tutti insieme al Siddharta Hospital a fare gli esami. Io devo restare fuori, in un baretto di strada. Lui entra insieme ai i ragazzi e mezz'ora dopo si riappalesa con le ricevute in mano, per farsi restituire subito i soldi. Indica i buchi sulle braccia dei donatori, a dimostrare che i prelievi li hanno fatti davvero. Poi mi dà appuntamento nel pomeriggio - quando avrà i risultati - sempre nel negozietto di fotocopie.
Puntuale, poche ore dopo, nel vicolo sulla Bagh Bazar arriva il verdetto. Il primo, Dinesh, ha un paio di valori sballati ("Si vede che mangia male", sentenzia Hari): in un paio di mesi sarà pronto per un altro cliente, ma per adesso è fuori gioco. Di Biktan - quello che parlava poco - neanche a parlarne: "Ha i calcoli, tanto vale rimandarlo al villaggio che qui ci fa solo perdere tempo". Meno male che c'è Deepak, il ragazzino. Lui ha tutto in regola: sangue, reni, fegato, Hiv, Tbc, epatite e così via. Quindi, dice Hari, me lo posso portare via anche subito, dopo aver versato ovviamente il 30 per cento del totale pattuito, cioè quasi 700 euro.

Lì per lì resto un po' sorpreso: non pensavo che le cose si sarebbero concluse così in fretta. Portarmelo via? E dove? Per fare che? Hari sorride, quasi bonario: "Da questo momento lui è tuo figlio no? Beh, allora dovete conoscervi, familiarizzare. Portalo al mercato e rivestilo, offrigli una cena al ristorante, fallo dormire nel tuo hotel. Intanto io preparo i documenti e fra due o tre giorni andiamo tutti a Calcutta. Guarda, invece di mandarti il mio watchman per questa volta vi accompagno io in persona, così vi faccio vedere com'è tutto semplice e veloce. Però tu in cambio quando torni in Europa spargi la voce su di me, okay? Dici in giro che a Kathmandu c'è il buon Hari pronto a salvare la vita a chi ha bisogno di un trapianto...".

Poi il buon Hari allunga la mano e il rotolo di rupie che gli passo finisce subito nel cassetto del tavolo in finto legno.

Davanti al telaio 15 ore al giorno
Così, poco dopo, mi ritrovo con Deepak all'Hong Kong Bazar di Kathmandu, un mercato popolare a due passi dal palazzo reale, cercando di immaginare che cosa devo comprare al ragazzo per affrontare il viaggio a Calcutta. Lui non apre bocca e guarda le merci con gli occhi sgranati. Sudarshan lo prende, anche letteralmente, per mano. Davanti a ogni bancarella quello sorride incredulo. Io penso a uno zainetto per il viaggio e lui entusiasta sceglie un falso Diesel a 250 rupie, circa tre euro. Poi mi rendo conto che in effetti non ha niente - ma proprio niente - da metterci dentro, allora gli compriamo pantaloni, camicie, calze, mutande, spazzolino, tagliaunghie, sapone... Alla bancarella delle false Nike (quattro euro il paio), Deepak agguanta le scarpe ancora allacciate e cerca di infilarsele così. Gli spieghiamo che prima deve slacciare le stringhe e lui sorride imbarazzato: in vita sua non ha mai indossato altro che infradito di plastica. Chiudiamo lo shopping con un orologino digitale - quello con le lancette non sa leggerlo - e una cintura simil Gucci a tre euro, su cui il calzolaio deve fare tre buchi in più perché Deepak sarà anche di robusta etnia Lama, ma è pure magro da far spavento.

Nel taxi che ci porta in albergo, appena fuori città, il ragazzo si guarda intorno spaesato senza chiedere niente. Alla guest house fa una doccia ed esce dalla stanza orgoglioso dei nuovi vestiti, prima di accettare da bere - una Sprite, naturalmente - e di sedersi nel giardino del Planet Bhaktapur per iniziare quel rapporto di conoscenza tra paziente e donatore tanto auspicato da Hari.

Deepak ha lasciato il suo villaggio in autobus, a 14 anni, perché tanto lì - appunto - viveva per strada. Nella capitale ha iniziato a lavorare subito alla fabbrica di tappeti ed è quello che fa ancora adesso che di anni ne ha 19 - o almeno così dice lui, chissà se è davvero maggiorenne. Attacca al telaio alle cinque del mattino, alle 10 fa una pausa di un'ora per mangiare, poi riprende e va avanti fino alle otto di sera, con un'altra mezz'ora di pausa nel pomeriggio. Questo sei giorni a settimana, dalla domenica al venerdì. Il sabato gran vita: si lavora solo dalle cinque alle dieci, poi la giornata è libera per bighellonare in giro con gli amici. Guadagna poco più di 3 mila rupie nepalesi al mese (35 euro) ma in tasca gliene resta poco più di metà, perchè 1.300 sono detratte dal padrone della fabbrica in cambio del vitto (riso e lenticchie) e dell'alloggio (una camera senza bagno divisa con altri tre). Con le rupie che gli avanzano, Deepak compra qualcosa in più da mangiare o da bere e parla con i suoi una volta al mese: da un apparecchio pubblico chiama un conoscente al villaggio, quello va a chiamargli la mamma e dopo dieci minuti Deepak ritelefona. Ovviamente ha una nostalgia struggente ("Non torno a casa da tre anni") ma pensa che non lascerà più Kathmandu: "Con i soldi del rene apro un negozietto qui, di quelli che vendono sigarette sfuse, saponi, shampoo, cose così. Mi basta un metro quadro, non chiedo di più, pur di non stare tutto il giorno davanti al telaio. Se poi mi avanza qualcosa lo mando alla mamma e ai miei fratellini, che almeno si costruiscano una baracca di legno e non dormano più o davanti al tempio".
Nei due giorni successivi - mentre Deepak resta in albergo a guardare la tv - Hari prepara come promesso i documenti in cui il donatore si dichiara mio figlio e un'ignota signora locale assicura di essere sua madre confermando la mia paternità. Il primo foglio che arriva - pur con tutti i timbri ministeriali - è francamente imbarazzante per gli errori di grammatica e sintassi inglese. Ne parlo con Sudarshan e lui ci ride su: "Beh, meglio se ci sono un po' di strafalcioni: i documenti del governo nepalese sono tutti così. E poi si sa che gli indiani ci considerano degli analfabeti, se vedono un documento di qui scritto in un buon inglese pensano che sia falso...". Alla fine, tuttavia, conveniamo che forse gli svarioni sono un po' troppi (il mio anno di nascita, '62, si è trasformato nell'età, 62 anni; la parola 'son', figlio, è stata confusa con 'husband', marito... ) e quindi chiediamo a Hari una nuova edizione, appena più corretta, che arriva il giorno dopo con gli stessi timbri e la stessa carta intestata. Forse un po' piccato per essere stato bocciato al suo primo tentativo, il broker ci aggiunge due differenti versioni del documento sulla falsa madre, con altrettante foto di donne che avrei frequentato alla fine degli anni Ottanta. In entrambe le varianti, le signore confermano che il ragazzo è nostro figlio e si dicono d'accordo con la sua decisione di donarmi un rene. Alla fine scegliamo il certificato firmato da tale Seti Maya, forse la più credibile in termini di somiglianza con il mio donatore.

Chi sono? Un benefattore dell'umanità
A Calcutta, con Hari e Deepak, viene anche il mio amico Sudarshan: formalmente per aiutarmi durante il ricovero, di fatto per gestire una situazione che a quel punto è un po' più delicata. Per giustificare la mia condizione di malato - sia con Hari sia con i medici - so che devo dare segni di frequente stanchezza: in fondo dovrei essere già in dialisi, e se non l'ho ancora iniziata è solo perché voglio tornare dall'Asia con il mio rene nuovo. Cammino sempre con lentezza e mi siedo appena posso, ma la recita è più difficile passando tutto il tempo con un intermediario abituato a frequentare pazienti veri. La sera, dovendo far cena tutti insieme, mi attengo alla dieta di un malato di reni: solo acqua, poche verdure e riso bianco. Probabilmente è tutto superfluo, perché Hari non sembra avere il minimo sospetto e anzi si lascia andare a racconti orgogliosi sul suo lavoro: "Non capisco perché questa cosa sia vietata, è una vergogna", dice. Poi indica Deepak: "Se lui ha bisogno di soldi e tu di un rene nuovo, perché non potete combinare? Mah!". Poi, arrivato al dolce, tira fuori di tasca la foto di un monaco buddista di nemmeno vent'anni: "Guarda, è il mio prossimo paziente. Per lo Stato potrebbe morire, io lo porto qui in India e lui campa un altro mezzo secolo. Dimmi tu perché deve essere vietato!". E ancora: "La verità è che io non lavoro per soldi, lavoro per fare felice la gente. Guarda com'è contento Deepak, e pensa come sarai felice tu quanto sarai tornato in Italia e invece di quel riso bianco potrai mangiarti una bella pizza!". Infine ritorna pragmatico: "Però quando torni a casa ricordati di parlare di me ai tuoi amici. Chissà quanti ne hai conosciuti di malati di reni, in ospedale...".

Il giorno dopo, venerdì, arriva finalmente il momento dell'incontro con il chirurgo. Hari esce dall'hotel il mattino presto e prende il taxi per andare all'ospedale - l'Apollo Gleneagles - e incontrare il medico prima di me, in modo che poi tutto fili liscio. Mi spiega che il suo referente abituale, il dottor Mishra, quel giorno non può vederci: è a un congresso o qualcosa di simile. Però c'è il suo vice, tale dottor M. H. Raibagi: "Non ti preoccupare, conosco bene anche lui ed è un ottimo chirurgo". Dopo un paio d'ore arriva la telefonata: tutto a posto, possiamo andare.

Apollo Hospital, stanza numero 25
Attraversando l'insopportabile caldo umido di Calcutta, arriviamo all'Apollo Gleneagles, un grande complesso moderno in cemento, a pochi metri dalle 'bustees' della periferia in cellophane e bambù. Hari resta fuori con Deepak ("Se il dottore vuole vedere subito il donatore, chiamatemi al cellulare o venite a qui a prenderlo, ma per adesso è meglio che noi stiamo qui"). Io dunque entro solo con Sudarshan.
è a pian terreno, reparto di nefrologia, stanza numero 25, che il dottor Raibagi riceve i clienti. è un uomo di mezza età, in camice bianco e cravatta, con un inglese fluente e un sorriso mellifluo. Gli spiego brevemente la mia situazione, fingendo di non sapere che ha già parlato con Hari. Gli racconto della mia malattia e della dialisi che non voglio affrontare perché "in Italia ho una vita brillante, un lavoro nel marketing che mi impegna tutto il giorno, sono sempre tra taxi, aerei e riunioni, non posso stare per ore attaccato a una macchina sennò mi rovino la carriera". Lui conviene con me ("Eh sì, la dialisi è molto noiosa..."), non chiede niente di più e pensa solo a vendere bene il suo prodotto: "La nostra media di successo, nel trapianto dei reni, sfiora il 99 per cento. Abbiamo i migliori farmaci antirigetto, stanze private con aria condizionata e un secondo letto per l'accompagnatore". Quanto ai tempi, non sono un problema: "Naturalmente dobbiamo ripetere gli esami, a lei e al donatore, ma in tre o quattro giorni si conclude tutto. Poi lei si fa solo una settimana di dialisi, qui da noi, ed è pronto per il trapianto. Quindici-venti giorni di convalescenza e può tornare a casa con il suo rene nuovo". I costi? Il dottor Raibagi non ha falsi pudori: "Tra operazione, test clinici e ricovero siamo attorno ai 5 mila euro, tutto compreso. Deve aggiungere soltanto i soldi per le medicine, che gli ospedali indiani non passano...".

Dopodiché, finalmente, il chirurgo chiede di vedere i documenti: le mie analisi del sangue - quelle truccate al computer prima di partire dall'Italia - e i certificati falsi del donatore. Prende in mano i fogli preparati da Hari e li guarda per pochi secondi. Solleva gli occhi rassicurante: "Tutto okay, possiamo ricoverarla anche lunedì". Poi sospira: "Certo, se questo ragazzo fosse veramente suo figlio, le possibilità di successo sarebbero del 100 per cento...". A questo punto sono io a provocarlo: "E se invece non lo fosse, mio figlio?". Raibagi mi guarda: "Beh, in questo caso dovrò prescriverle una terapia antirigetto un po' più potente, ma vedrà che andrà bene lo stesso". Per lui, l'ipotesi che Deepak non sia mio consanguineo costituisce solo un ostacolo tecnico, non certo un impedimento etico o legale.

Sbalordito dall'assurda facilità con cui il tutto sta avvenendo, provo a immaginare qualche possibile ostacolo: "Ma che cosa succede se il rene di Deepak non risulta compatibile? C'è qualcuno che può aiutarmi a trovarne un altro qui?". Il dottore sorride ancora: "Affronteremo la questione solo al momento, ma vedrà che non ce ne sarà bisogno. Comunque ci arrangeremo ('Anyhow we'll manage it')".

Alla fine del colloquio, il dottor Raibagi si offre anche di visitarmi subito, sul lettino. Lo ringrazio ma declino accampando stanchezza, caldo, una gran voglia di tornare subito in albergo. La cosa non gli sembra strana: "Allora venga lunedì, quando vuole. Basta che bussi alla mia porta, senza fare la coda. Iniziamo subito le analisi e poi la ricoveriamo. Vedrà, andrà tutto benissimo...".

Sudarshan e io usciamo dall'ospedale un po' frastornati. Hari non c'è, ma ha lasciato detto di aspettarlo: è andato "un attimo a salutare un altro dottore", cioè probabilmente a corromperlo. Deepak beve una spremuta di canna da zucchero sotto il sole. Se fossi davvero un malato, nel giro di dieci giorni il suo rene sarebbe nel mio corpo. Invece è arrivato il momento di chiudere tutto.

Lascio a Sudarshan un po' di soldi per Deepak, poi salgo su un taxi e sparisco nel torrido caos di Calcutta.
Col patrocinio di Madre Teresa

Gli ospedali indiani indicati per il trapianto illegale dai due spacciatori di organi nepalesi incontrati da 'L'espresso' sono tutte cliniche private, con standard occidentali e strutture sanitarie considerate di lusso. Il St Thomas di Chennai è nato nel 1972 come ambulatorio medico per iniziativa di un gruppo di suore cattoliche, poi a poco a poco è diventato un vero ospedale che cura circa 80 mila pazienti l'anno. Ancora oggi ci lavorano decine di religiose e l'istituzione conserva un carattere di charity per orfani e vedove. Il dottor Ravichandran - indicato da entrambi i mediatori come loro contatto - è un affermato nefrologo con decine di pubblicazioni alle spalle, e risulta responsabile del Kidney diseases and Institute of Organ Transplantation (Kiot) di Chennai. Anche l'altra clinica di Chennai suggerita dal mediatore Hari Tamang, il Medical Madras Hospital, ha un'origine religiosa: è nata infatti come costola della Chiesa ortodossa indiana. Ora è un moderno colosso di cemento armato, inaugurato nel 1987 sotto il patrocinio di Madre Teresa e alla presenza de famoso chirurgo Christian Barnard. Il reparto nefrologico - che vanta 280 trapianti già effettuati da quando è stato inaugurato, solo quattro anni fa - è diretto da uno specialista noto anche fuori dall'India come Georgi Abraham. La clinica offre una serie di servizi appositi per i pazienti stranieri, come l'interprete a tempo pieno e - se necessario - una convenzione per l'appartamentino in cui possono abitare i parenti durante il ricovero. Per chi dopo la degenza vuole andare in vacanza in India, c'è anche il pacchetto 'Post surgery holiday'.

Ma gli istituti che vengono utilizzati con più frequenza dai venditori di organi nepalesi sono le cliniche della catena Apollo, un colosso della salute quotato alla Borsa di Mumbay, con ospedali di lusso a Delhi, Chennai, Hyderabad, Madurai, Calcutta e altre città indiane. Con più di 10 mila dipendenti e 7,5 milioni di pazienti curati finora, le cliniche Apollo hanno già effettuato oltre 5 mila trapianti di reni. Il presidente della società, Prathap Reddy, spiega nel sito ufficiale corporate che il suo sogno è "fare dell'India la destinazione sanitaria di tutto il mondo" e per questo gli Apollo "sono all'avanguardia nel turismo medico a livello globale".

Il fatturato del gruppo è cresciuto del 42,81 per cento negli ultimi quattro anni.
Sei anni in lista d'attesa
di Letizia Gabaglio

Sono più di 6 mila le persone che oggi in Italia aspettano di ricevere un rene. Nei primi mesi del 2007 sono stati eseguiti 234 trapianti di questo genere, mentre in totale nel 2006 sono stati 914. In media, ogni anno sono circa mille i reni trapiantati nel nostro paese (senza contare le operazioni di trapianto multiplo: doppio rene, rene e pancreas o fegato).

In altre parole, anche se da oggi nessuno si iscrivesse più alle liste di attesa ci vorrebbero almeno sei anni prima di esaurire le richieste.

Come risulta dai dati internazionali elaborati dall'Organización Nacional de Trasplantes spagnola, in Italia ci sono 113,5 pazienti in attesa di un rene ogni milione di abitanti, un dato più alto di quello di Francia (95,98) e Spagna (94,1), ma inferiore a quello del Regno Unito (120,7). In termini di tempo, chi al 31 dicembre 2006 risultava iscritto alla lista d'attesa del Centro Nazionale Trapianti lo era in media da 3,03 anni. Un periodo piuttosto lungo se paragonato con quelli medi di fegato (1,84 anni) e cuore (2,33 anni). Sulla base del tipo di organo di cui si fa richiesta è possibile iscriversi a più di una lista d'attesa: nel caso del rene ogni paziente adulto può iscriversi a due centri trapianti, uno della sua regione e un altro di sua libera scelta. I pazienti sotto i 18 anni confluiscono invece in una lista nazionale.

Gli esami diagnostici che precedono l'operazione, l'intervento e i controlli post operatori sono a carico del Sistema sanitario nazionale. Quando le strutture italiane non sono in grado di offrire il trattamento di cui un paziente ha bisogno, oppure quando i tempi sono troppo lunghi, gli italiani possono andare all'estero per farsi curare, non prima però di aver ricevuto, sulla base di certificati e relazioni mediche, l'apposita autorizzazione dal Centro di Riferimento Regionale per i trapianti. Nel caso del rene si tratta però di un evento molto raro.
Macelleria punto com

Insieme a India e Nepal, tra i paesi in cui è più facile procurarsi un organo gioca un ruolo fondamentale il Pakistan. Qui il mercato dei reni è fiorito negli ultimi anni soprattutto per i pazienti provenienti dai paesi di religione islamica, ma anche dall'America e dall'Europa. In Pakistan un rene costa attorno ai 10 mila dollari: le 'agenzie' che li procurano lavorano perlopiù con gli ospedali di Lahore e nei loro siti Web (come Pakkidneytransplant.org) assicurano di prendersi cura del paziente dal suo arrivo in aeroporto fino alle dimissioni dall'ospedale, consigliando alla clientela di arrivare in Pakistan con i soldi pronti in valuta americana cash. Prezzi un po' più alti in Cina: il China International Transplantation Network Assistance Center di Liaoning propone nel suo sito (http://en.zoukiishoku.com) un tariffario che va dai 65 mila dollari per un rene ai 130 mila per un fegato, fino ai 150 mila per un impianto duplice di reni e pancreas e altrettanto per l'innesto di un nuovo cuore e o di un nuovo polmone. Un'altra società cinese, la Bek Medical, offre i reni a 70 mila dollari l'uno, i pancreas a 110 mila e i fegati a 120 mila (http://bek-transplant.com). I prezzi includono l'organo, il ricovero, l'operazione e gli interpreti dall'inglese al cinese.

Nelle Filippine la vendita di organi è legale e l'agenzia Liver4You (sito Web: http://bek-transplant.com) offre trapianti negli ospedali del Paese sia da donatori viventi sia da cadaveri, con prezzi che si aggirano sui 100 mila dollari per un fegato e variano dai 35 mila agli 85 mila dollari per un rene.