crisi finanziaria in usa un chiaro esempio di speculazione protetta



  dal manifesto del 18 agosto 2007

Un caso chiaro di speculazione protetta
Rosario Patalano*

L'ultimo rapporto annuale della Bank for International Settlements (BIS, 77° Relazione annuale del marzo 2007) si lancia in valutazioni molto ottimistiche sul «consolidamento» delle istituzioni finanziarie in Europa e negli Stati Uniti. Il termine consolidamento è pudicamente usato per indicare il processo di concentrazione di capitali che sta caratterizzando la finanza mondiale degli ultimi anni. «L'attività di fusione e acquisizione - si legge nel rapporto - sostiene il mercato». Il rapporto plaude soprattutto alle acquisizioni e fusioni «transfrontaliere», e assegna una nota di merito all'Italia e alla Germania che hanno favorito nell'ultimo anno la «rimozione di ostacoli effettivi e presunti alle fusioni societarie».
Secondo l'autorevole rapporto, i profitti sia delle banche d'affari che di quelle commerciali sono cresciuti sensibilmente in questi stessi anni, e questa è la prova che la concentrazione dei capitali finanziari e la deregolamentazione del settore finanziario sono tendenze virtuose che vanno sostenute.
Il rafforzamento complessivo del settore finanziario ha però determinato - come riconosce lo stesso rapporto BIS - una maggior propensione dell'impiego dei capitali verso gli investimenti rischiosi. Gli indici del valore a rischio (value-at-risk, VaR) per le maggiori banche d'affari sono quasi raddoppiati dal 2002. Una crescente massa di capitali si è così riversata sui fondi speculativi (hedge fund), alla ricerca continua di impieghi più remunerativi e senza curarsi troppo dell'esposizione al rischio di default.
La crisi finanziaria di questi giorni non può quindi cadere come un fulmine a ciel sereno, ma è in qualche modo la conseguenza inevitabile di tendenze che sono state tollerate dalle autorità monetarie preposte alla regolamentazione e al controllo.Stiamo assistendo da oltre un decennio ad una progressiva deregolamentazione del settore finanziario che ha invertito l'orientamento normativo precedente, affermatosi dopo il crollo del 1929, che considerava l'attività bancaria un pubblico servizio da sottoporre a rigide norme regolamentari.
L'intera struttura del sistema finanziario si sta così volgendo verso la speculazione e anche la funzione delle autorità monetarie serve oramai ad assecondare questa tendenza. Lo dimostra il comportamento «accomodante» seguito dalle banche centrali in questi giorni di crisi: esse hanno semplicemente offerto una rete di protezione alla speculazione, immettendo cifre considerevoli per soddisfare la sete di liquidità e sedare il panico.
Di fronte a questo comportamento «protettivo» delle autorità monetarie non vi potrà essere alcun meccanismo di «correzione» delle tendenze speculative e il rischio diventerà semplicemente la normalità nel mercato finanziario. Una situazione che ci riporta al clima di gioco d'azzardo che l'attività borsistica aveva negli anni Venti, con l'aggiunta di una esperta protezione da parte delle autorità monetarie per attenuare, per quanto possibile, le conseguenze negative delle bolle speculative.
Questo capitalismo contemporaneo sembra aver perso ogni memoria storica, ubriacato dalla sua folle euforia per l'arricchimento facile. Sulla base dell'esperienza accumulata nella gestione delle crisi finanziarie passate le autorità monetarie pensano di avere nelle mani una serie di strumenti collaudati per intervenire ed evitare crolli sistemici.
Occorre urgentemente ostacolare queste tendenze e ritornare a considerare l'esercizio dell'attività di intermediazione finanziaria, non come un meccanismo di arricchimento, ma come una questione di pubblica utilità. E' necessario, prima che sia troppo tardi, che il mercato finanziario sia di nuovo regolamentato e che le autorità monetarie non assecondino più processi speculativi decisi da oligarchie finanziarie, ma riportino entro il giusto alveo «produttivo» l'attività di intermediazione finanziaria.
Perché chi pagherà le conseguenze di una crisi finanziaria sistemica saranno soprattutto i soggetti più deboli e non certo i rentiers che l'hanno causata.
 
Un salvagente per Wall Street
La Federal Reserve statunitense riduce di mezzo punto il tasso di sconto, portandolo al 5,75%. Una mossa d'emergenza, esclusa fino all'ultimo. Le borse mondiali recuperano fiato e soldi, ma nessuno giura che il peggio sia davvero passato
Francesco Piccioni

Non bisogna mai credere a quel che i banchieri centrali dicono, ma solo a quel che fanno. Ieri la Federal Reserve americana ha tagliato di 50 punti base il tasso di sconto, portandolo dal 6,25% al 5,75. Non ha invece toccato, per ora, i tassi di interesse (i fed fund), lasciandoli al 5,25%. Ma tutti gli analisti prevedono che anche questi caleranno 4,5% entro la fine dell'anno. Soltanto il giorno prima William Poole, uno dei membri del board della Fed, aveva categoricamente escluso un'eventualità del genere: «solo una calamità potrebbe giustificare un taglio dei tassi di interesse». Parole pronunciate mentre si accingeva ad entrare nella riunione straordinaria del Comitato operativo che doveva prendere la decisione opposta.
Che la crisi in atto sia del livello classificabile come «calamità» è testimoniato proprio da questa riunione: era dall'11 settembre 2001 che non si teneva una «straordinaria». Ma anche dal fatto che le misure prese nelle ultime 24 ore sono state tutte dello stesso genere. Da giovedì mattina, infatti, la Fed permette a chi chiede liquidità aggiuntiva di usare come collaterali titoli dalla qualità incerta, come i commercial paper di tipo asset-backed (anch'essi al centro della tempesta finanziaria). Contemporaneamente, spingeva il tasso reale sui Treasury bond a 4 settimane (4%) ben al di sotto del tasso ufficiale (5,25).
Il tasso di sconto abbassato ieri è importante in questa fase, perché definisce il tasso reale richiesto dalla banca centrale per i prestiti a brevissimo termine alle altre banche (una classica misura «d'emergenza»). La Fed ha ufficializzato la sua decisione un'ora prima dell'apertura di Wall Street, accompagnandola con l'offerta di 6 miliardi per dare ulteriore fiato agli operatori in crisi di liquidità.
«Venerdì 17» ha a quel punto cambiato volto. Le notizie provenienti dall'Asia, di prima mattina, riportavano il crollo di Tokyo (-5%, la peggiore contrazione dal 2001) e di tutte le borse orientali. L'Europa - dove era a quel punto chiaro che la Fed stava per «fare qualcosa» - provava un «rimbalzo» autonomo, che presto finiva in perdite, sia pur limitate. La notizia che il denaro diventava meno caro ha fatto girare il vento, riportando gli operatori finanziari sulla via degli acquisti.
Ma senza euforia. L'indice della fiducia dei consumatori, elaborato dall'università del Michigan, registrava infatti un crollo da 90 a 83 punti, mentre gli analisti più pessimisti si attendevano un 87. Un dato improtante, perché i consumi rappresentano i due terzi del Pil statunitense. Ciò non bastava a frenare la corsa delle borse europee, che chiudevano in gloria (Londra +3,5%, Francoforte 1,49, Milano 2,09, Parigi 1,86), mentre riduceva di molto - a metà seduta - i guadagni di Dow Jones e Nasdaq (da oltre il 2% a poco più dell'1). Ne risentivano anche i cambi delle monete e i prezzi delle materie prime. L'euro rimbalzava nuovamente oltre 1,35 rispetto al dollaro (era arrivato in mattinata anche a 1,33), mentre veniva ridimensionata la crescita dello yen. Il petrolio, depresso nei giorni scorsi dalle previsioni di recessione produttiva alle porte, ritornava a salire oltre i 72 dollari al barile (grazie anche all'uragano Dean che potrebbe minacciare le piattaforme petrolifere del Golfo del Messico).
Il calo dei tassi è stato giustificato dalla Fed con il «deterioramento» delle condizioni mercato e «la difficile situazione di accesso al credito», che avrebbero potuto diventare «un ostacolo alla crescita economica». Era una mossa attesa, ma non appare risolutiva. Per un verso, infatti, inverte la rotta della politica monetaria fin qui seguita (rigorista, per «contenere l'inflazione»), facendo balenare l'ipotesi di un ritorno al «denaro facile», ovvero a quella «sottovalutazione del rischio» che tutti considerano la causa prima dell'attuale crisi. Per un altro, invece, applicandosi soltanto al tasso di sconto e non anche ai fed fund, si qualifica come una misura di emergenza, certo reiterabile, ma che non deriva da una convinta visione di gestione dei mercati. Una mossa obbligata, insomma; difensiva, in grande misura. Wall Street apprezzava comunque la rapida disponibilità ad allentare i cordoni della borsa (Dow Jones a +1,4 e Nasdaq a +1,77, un'ora prima della chiusura). Ma sono in molti a pensare che «l'allarme resta rosso» e forse «il peggio non è passato». Dopo 15 giorni di terrore, però, i finanzieri tirano il fiato.