le citta', luoghi dell'alternativa



  da edyburg marzo 2008
Dialoghi sulla politica/1 La sinistra e la «questione urbana». Parla l'urbanista Edoardo Salzano
«Le città, luoghi dell'alternativa»
Oggi anche le istituzioni, come la politica, sono appiattite sul breve periodo: quello spendibile alla scadenza del mandato amministrativo. Se non c'è più un progetto di società come può essercene uno di città?
Francesco Indovina

Edoardo Salzano, pianificatore, già preside della facoltà di Pianificazione, è autore di molti saggi. L'ultimo è Ma dove vivi? La città raccontata.
Continua l'indifferenza della «politica» per la città. Nessun programma si occupa della questione, neanche quello della Sinistra. Non ti pare che questa indifferenza sia molto grave, non solo per la città ma per la stessa qualità della politica, essendo la città il luogo della «condensazione», delle contraddizioni e ineguaglianze della nostra società?
È grave e incomprensibile. Non solo per le ragioni che dici tu, ma anche perché la città è il luogo della possibile speranza. Le contraddizioni e le ineguaglianze possono essere risolti in tanti modi: emarginandone i portatori, cioè espellendo e ghettizzando i soggetti più deboli oppure trasformando la protesta che nasce dal disagio e dalla sofferenza in una carica di rinnovamento. La prima strada è quella seguita dalle destre italiane (quella di Berlusconi e quella di Veltroni), che la persegue abbandonando la città al mercato, al potere degli immobiliaristi, alla deregolamentazione e alla rinuncia del potere pubblico. Non afferrare il nodo della questione urbana significa perciò per la sinistra abdicare a una delle poche possibilità di rappresentare un'alternativa.

D'accordo, anche perché nella città si costruisce il senso collettivo, senza il quale non c'è politica, non c'è rappresentanza, ma solo rappresentazione. Si dice che l'intervento pianificato nella città sia di ostacolo allo sviluppo, alla crescita, fa fuggire investitori, mentre noi insegniamo che un intervento ordinatore crea opportunità non di speculazione ma di crescita ordinata, quindi socialmente più produttiva. Come mai questo semplice concetto non riesce a fare breccia nell'opinione pubblica?
Se andiamo al fondo delle cose troviamo che esistono concetti e connessioni che non sono veri, ma sono diventati, nell'ideologia corrente, verità assolute. Tra queste due pesano particolarmente nell'annebbiare e distorcere la consapevolezza della condizione urbana. La prima è la convinzione (il dogma) che ci sia una connessione ineliminabile tra sviluppo economico dell'economia data (ritenuta l'unica ipotizzabile), crescita di determinate grandezze (quelle misurate con il termometro del Pil), e il mercato (cioè la libertà per qualsiasi proprietario di qualsiasi cosa di farne ciò che vuole). È solo il mercato che consente, attraverso la crescita, di conseguire uno sviluppo (quello sviluppo). Quindi, viva il mercato. Questo dogma è anche molto comodo perché rinunciare, nel campo dell'organizzazione urbana, alla pianificazione e abbandonarsi alla spontaneità del mercato riduce la responsabilità del politico, e gli consente di giocare a tutto campo sulla «scena urbana» per svolgere il suo ruolo di «rappresentazione». La seconda verità è l'annebbiamento di una delle due componenti ineliminabili della natura dell'uomo moderno, cioè della sua dimensione pubblica. La bilancia si è nettamente spostata sulla dimensione individuale (vedi Richard Sennett, Il declino dell'uomo pubblico). Questo è nefasto per la città, la quale può esistere, può essere trasformata secondo una logica olistica (quale è quella che la città necessariamente richiede) solo se l'uomo si sente ed è cittadino. Ove si riduca a cliente, tutto è perduto.

Ma c'è una realtà non eliminabile: nella città ci si rende conto che non tutto può essere risolto individualmente, la dimensione non solo della collettività ma anche della soluzione collettiva di molte nostre necessità si tocca con mano. Non ti pare che mettere in evidenza, politicamente, questa dimensione sia anche un modo per combattere il declino dell'«uomo pubblico»?
Non c'è dubbio. Ma quella che tu chiami «realtà non eliminabile» è stata eliminata dalla maggioranza delle coscienze. Perciò credo che ci sia da compiere in primo luogo un duro lavoro culturale, non più solo sulle élites universitarie; perciò ho scritto quel libro che hai citato all'inizio, che è rivolto a tutti. Perciò credo che uno dei pochi segni di speranza siano in quei comitati, gruppi, associazioni che nascono per affrontare insieme un, sia pur piccolo, problema comune nell'assetto della città. Si tratta di lavorare perché imparino a passare dal particolare al generale e poi dal sociale al politico, perché solo in una politica rinnovata c'è un futuro accettabile.

Com'è oggi la situazione delle diverse città? Un tempo alcune erano esaltate per il loro livello di pianificazione e di crescita ordinata. Oggi la situazione è ancora articolata e differenziata?
Molto, molto meno che nel passato. C'è una forte tendenza all'omogeneizzazione. La politica come spettacolo, l'amministrazione come rappresentazione, la ricerca di uno «sviluppo» a qualsiasi costo, perfino l'introduzione della concorrenza contro le altre città come impegno decisivo (ecco un'altra applicazione ideologica del mercato a realtà che col mercato non c'entrano), tutto questo mi sembra caratterizzare le città italiane in modo generalizzato. Ricordo sindaci che legavano il loro ruolo e il loro orgoglio al fatto di aver dato alla loro città un buon piano regolatore, pur sapendo che gli effetti di quel progetto di città si sarebbe visto a lunga scadenza. Oggi anche le istituzioni, come la politica, sono appiattite sul breve periodo: quello spendibile alla scadenza del mandato amministrativo. Del resto, se non c'è più un progetto di società come può esserci un progetto di città?

Oggi la città si estende nel territorio, dando luogo a nuove conformazioni urbane. La comprensione del fenomeno è ancora non piena, la discussione sugli strumenti vaga. Ci si riferisce con insistenza al «piano di area vasta», ma senza un'autorità in grado di governarlo rischia di essere solo una speranza. Lo sviluppo urbano nel territorio quali problemi pone al pianificatore?
Invece di città e territorio, da vedere come due entità separate, preferisco parlare dell'ambiente della nostra vita sociale come territorio urbanizzato. I principi da seguire, e anche le regole, secondo me sono le stesse nell'affrontare le trasformazioni della città e quelle del territorio. Non pone quindi problemi nuovi dal punto di vista metodologico, ma semplicemente problemi diversi dal punto di vista dei fenomeni. Direi che gli urbanisti avevano compreso che i fenomeni urbani richiedevano una capacità di controllo e di governo a livello di area vasta. La politica non li ha seguiti. Pensa allo stesso tentativo di riforma della legge 142 del 1990, che prevedeva un riordinamento dell'assetto territoriale in funzione del diverso assetto delle urbanizzazioni. Una riforma modesta, che comunque poteva permettere (attraverso le città metropolitane in alcune aree, un nuovo ruolo delle province altrove) di governare i fenomeni di diffusione. Ma si è ritenuto che fosse complicato modificare i cristallizzati equilibri politici tra comuni maggiori e minori, comuni grandi e province e così via. Si è preferito non applicare la legge. Si è lasciato che l'espansione delle città, abbandonata agli interessi fondiari e allo spontaneismo, provocasse quelle nuove estese periferie a bassissima densità (e altissima domanda di energia) che conosciamo.