la fine dell'illusione neoliberista



da l'Unità
Data      12-09-2008

La fine dell'illusione neoliberista
Loretta Napoleoni

La parola nazionalizzazione non fa parte del lessico del libero mercato, è una parola in disuso dalla caduta del Muro di Berlino, appartiene al gergo del socialismo reale. Da qualche mese, però, spunta spesso nelle prime pagine dei giornali color rosa, quelli dove si parla di economia e finanza. A usarla è proprio la generazione di politici che, ideologicamente ispirata dal padre del neo-liberismo, Milton Freedman, l'aveva cancellata dal vocabolario della globalizzazione. Il primo a pronunciarla è il premier britannico, Gordon Brown, ex cancelliere dello scacchiere di Blair ed agguerrito oppositore delle politiche di nazionalizzazione del vecchio partito laburista. Di fronte all'assalto delle agenzie della Northern Rock, inciampata sulla buccia di banana dei muti subprime, New Labour tenta una serie di operazioni che non vanno in porto, tra cui l'intervento massiccio del tesoro. Alla fine Brown getta la spugna e nazionalizza la banca. A pagare i debiti saranno i contribuenti britannici, già vessati dalla crisi economica. Anche la nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac, i giganti dei muti americani, ricade sulle spalle della classe media americana ed avviene dopo il fallimento del Tesoro e della Riserva Federale di rivita-
lizzarle. E una decisone difficile ma II pericolo all'orizzonte è un replay della crisi del 1929, riassunto in una singola parola: panico. Solo l'intervento massiccio dello stato lo può evitare. È paradossale, ma i maghi della globalizzazione, gli inventori della finanza creativa, i predicatori del non intervento statale in economia oggi sono come bambini viziati che hanno paura del buio e pretendono da quello stesso stato un tipo d'intervento di stampo socialista. Il mondo cambia e noi con esso e le trasformazioni in atto oggi sono epocali al punto da gettare luce sui ruoli che istituzioni pubbliche e private devono ricoprire nella società civile. Nel modello socialista le prime non esistono e il mercato è sempre in balia dello stato che decide cosa, come e quando produrre. Il modello neo-liberista è esattamente l'opposto: ogni interferenza di quest'ultimo deve essere evitata. Quando applicati all'economia reale, nessuno dei due paradigmi funziona: nei paesi comunisti c'è carestia di merci e in quelli neo-liberisti eccessivo indebitamento. Socialismo e neo-liberismo sono modelli economici estremisti, che poggiano sull'ideologia, sono mere illusioni, ecco perché falliscono. La crisi attuale sembra confermare quanto scritto da Adam Smith nella Ricchezza delle Nazioni, che la mano magica del mercato funziona solo se si muove all'interno di un si-
stema economico e finanziario ben regolato. La libertà non è licenza.
Ne sa qualcosa il fisco dei paesi dell'Unione Europea, la finanza creativa sottrae alle economie del vecchio continente decine e decine di miliardi di euro parcheggiati nei paradisi fiscali dell'Europa del nord. Il neo-liberismo non dà diritto all'evasione fiscale, questo il messaggio della Menkel quando inizia la crociata per il recupero di quei soldi e lo fa con una decisione che rimette lo stato al centro della società civile: minaccia il Lichtenstein dove sono nascosti 8 miliardi di euro sfuggiti al fisco tedesco.
Lo stato sembra quindi rialzare la testa per proteggere la nazione dal pericolo dell'olocausto economico, ma siamo lontanissimi dalla nascita di un nuovo modello. Con la nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac il debito pubblico statunitense sale al 40% del PIL, si tratta di cifre da capogiro, ben più alte di quelle che trascinarono l'esperimento neo-liberista argentino nella voragine della bancarotta. Gli azionisti maggiormente penalizzati, quelli che perderanno tutto, sono le piccole banche regionali e provinciali e le società di assicurazione americane: il cuore economico della nazione. Chi invece ne esce bene sono le banche centrali e quelle private straniere che da mesi non comprano più «car-
ta americana». E Washington firma in bianco cambiali per 5.000 miliardi di dollari per evitare che questi investitori volgano del tutto le spalle al dollaro e riducano Wall Street ad una piazza affari di provincia. A monte non c'è la volontà di salvare la classe media americana dalla povertà. Ed ecco la prova: entro la fine dell'anno il numero degli americani senza tetto che mangiano grazie ai buoni alimentari salirà da 30 a 35 milioni, pari all'I 1% delle famiglie. Per sfamarli ci vuole uno stanziamento di 280 miliardi di dollari che il parlamento da mesi non approva.
La manovra socialista, dunque, vuole salvare chi tiene le redini di un sistema economico agonizzante. Cosi gli Italiani si ritrovano a dover ripagare i debiti accumulati dalla gestione del carrozzone Alitalia. Anche qui lo stato interviene, de facto ne nazionalizza la parte scadente e poi vende quella buona alla cordata industriale che ha messo insieme. Il contribuente è doppiamente penalizzato: perché per anni ha usufruito di un servizio scadente di cui ora deve pagare i debiti.
Anche se entrata nel lessico neo-liberista, la nazionalizzazione è un atto disperato. Per salvare l'economia mondiale ci vuole un atto di grande umiltà: ammettere di aver sbagliato. Solo allora ci sarà spazio per una nuova teoria economica.