la vivibilità nella città sconnessa



La vivibilità nella città sconnessa
Data di pubblicazione: 23.10.2008

Autore: Somma, Paola

Ancora parole chiave: vivibilità e qualità, rigenerazione e segregazione, enclosure e recinzione. Il testo della lezione tenuta alla Scuola eddyburg, 24 settembre 2008

L’ingiustizia sociale, di cui la localizzazione e condizione abitativa è solo una manifestazione, è sempre esistita. In passato, però, si raccontava che compito delle istituzioni era di lavorare per mitigarla, adesso accentuare le differenze e racchiuderle spazialmente, recintarle, è un obiettivo dichiaratamente perseguito e teorizzato.

Parlare di città sconnessa dovrebbe essere considerato un ossimoro. Per definizione, la città è un sistema il cui buon funzionamento dipende dalla reciproca relazione tra le sue componenti fisiche e sociali. In realtà, sempre più i progetti e gli interventi di trasformazione del territorio, a tutte le scale, sono esplicitamente finalizzati alla frammentazione e sconnessione. Nelle dichiarazioni d’intenti prevale l’acritico riferimento a metafore che, descrivendo la struttura dello spazio urbano e territoriale attraverso l’immagine dei nodi e della rete, trascurano i meccanismi di formazione dei nodi - ad esempio l’inclusione o l’espulsione di attività e abitanti - e ignorano quel che avviene al di fuori degli stessi. Nello stesso tempo, si mettono a punto e si attuano misure che inducono e/o accelerano lo spostamento dei vari gruppi di popolazione nelle zone ritenute più appropriate alle rispettive caratteristiche. Il riequilibrio territoriale è una voce desueta del vocabolario urbanistico, sostituita dalla esaltazione delle differenza che si traducono in disparità. Più che chiederci dove si vive bene, quindi, dovremmo cominciare il ragionamento sulla vivibilità chiedendoci chi vive bene e perché.



1.Dove si vive bene o chi vive bene?

era una gran bella cittadina… la gente che vi abitava era di questa idea… non ci voleva molto per amarla, bastava non perder tempo a meditare sulle catapecchie dei negri e dei messicani ammucchiati nelle squallide distese di là delle vecchie carraie interurbane(Raymond Chandler, La signora nel lago,1943)

era una zona in rovina che dieci anni prima era stata in condizioni piuttosto buone perché si trovava a confini della comunità bianca, prima che la comunità bianca si trasferisse più a ovest e la manutenzione del posto venisse abbandonata, a favore di altre vie dove stanno i veri soldi e il vero potere, nei quartieri dei visi pallidi col portafoglio grasso (Joe R. Landsdale, Mucho Mojo, 1994)

era uno di quei quartieri pretenziosi spuntati in città dopo la seconda guerra mondiale, con case accessibili ai militari in congedo. Adesso probabilmente ci sarebbe voluta la paga di un generale per comprarne una. A questo avevano pensato gli anni Ottanta. L’esercito di occupazione degli yuppies aveva ormai assunto il controllo dell’area. Ogni prato esibiva un piccolo cartello metallico piantato nell’erba. Erano di tre o quattro diverse società specializzate in impianti di sicurezza, ma dicevano tutti la stessa cosa RISPOSTA ARMATA. Era l’epitaffio della città (Michael Connelly, La bionda di cemento, 1994)

Mezzo secolo separa i succitati noir americani che continuano ad essere fonti di informazioni probabilmente più attendibili di quelle fornite dalla miriade di esercizi di rating fra le città, commissionati da amministratori ansiosi di pubblicizzare la propria posizione nella graduatoria dei luoghi dove si vive bene per attirare investitori e abitanti pregiati, e che fanno abituale riferimento alla vivibilità e/o alla qualità di vita.

I due termini non sono sinonimi - la qualità di vita viene misurata in base ad una serie di indicatori prestabiliti, mentre per la vivibilità prevale il giudizio soggettivo circa il livello di soddisfazione individuale rispetto alle caratteristiche dell’ambiente - ma in entrambi i casi è scomparso il criterio che buone condizioni di vita urbana siano legate alla disponibilità di un livello minimo di spazi, di servizi, di risorse per tutti i cittadini. Al contrario, luoghi senza servizi, attrezzature e spazi pubblici vengono considerati buoni, proprio in quanto la loro mancanza è un segnale della assenza degli individui o gruppi sgraditi ai quali vengono associati.

Se il significato attribuito alla vivibilità dipende dagli obiettivi e dal sistema di valori di chi effettua la valutazione, il determinismo spaziale che comunque permea il discorso sulla città vivibile e che, non solo fa corrispondere a determinate condizioni fisiche determinati comportamenti sociali, ma stabilisce l’equazione pubblico = deviante, ha effetti devastanti per le nostre città.

Da una lato, alimenta il consenso attorno alla sistematica distruzione delle case e degli spazi pubblici, dall’altro contribuisce all’affermazione del principio secondo il quale, dal momento che non tutti i luoghi hanno la stessa qualità e amenità, e quindi lo stesso valore/costo, è giusto che l’insediamento di un individuo o di un gruppo di popolazione in una determinata parte di territorio e di città dipenda dalla sua capacità a pagare.

A differenza dei "vecchi standards", quindi, la vivibilità non è un diritto, ma una merce con un prezzo che non tutti si possono permettere.

Di fonte a questo prevalente e pervasivo orientamento, al quale ben si adattano le dichiarazioni del signor Swart, ministro della giustizia del Sud Africa che, nel 1953, spiegava in a country we have civilised people, we have semicivilised people and we have uncivilised people. The Government gives each section facilities according to the circumstances of each (dove circumstances significa financial conditions), è necessario ricondurre il tema della vivibilità accanto a quello della spazializzazione- territorializzazione dell’iniquità sociale perseguita, attuata e sancita dalle istituzioni pubbliche.



2. Luoghi di qualità per abitanti di qualità

ci hanno detto di sognare come il quartiere sarebbe potuto essere bello... non ci hanno detto che il sogno significava che noi non ne saremmo più stati parte (dichiarazione di un abitante cacciato nel corso del programma di rigenerazione urbana HOPE VI, The Baltimore Sun, 2004)

senza gli immigrati, Castelvolturno potrebbe diventare la Malibu d’Italia (dichiarazione del sindaco, Corriere della Sera, settembre 2008)

In qualsiasi città esistono, e sono facilmente individuabili, zone con migliori o peggiori condizioni ambientali rispetto a quelle contermini, che sono riservate, di diritto o di fatto, a ben determinati gruppi di abitanti, e il cui pregio relativo è in gran parte il risultato di iniziative delle pubbliche istituzioni.

La gamma dei possibili interventi è ampia, ma sia che si riduca la fornitura di servizi pubblici per accelerare il declino e lo svuotamento dell’area prima di procedere alla sua revitalizzazione (1), o che si attuino progetti per migliorarne la vivibilità - progetti che spesso consistono in una banale barcellonizzazione degli spazi pubblici e accelerano l’allontanamento forzato degli abitanti e la loro sostituzione con altri più desiderabili - l’obiettivo più o meno esplicito è di far corrispondere la qualità degli abitanti, cioè il loro reddito e/o potere, alla qualità dei luoghi.

Collocare i piani e le iniziative per la vivibilità all’interno del ciclico succedersi di fasi di investimento-disinvestimento-reinvestimento (Smith, 1996) aiuta a capire la complementarità e l’interdipendenza degli interventi il cui intento dichiarato è di accrescere la qualità urbana e di quelli punitivi nei confronti degli abitanti dei cosiddetti ghetti, cioè di quartieri o zone con le seguenti caratteristiche:

confini riconoscibili e riconosciuti,
strade che segnano il limite tra il quartiere e il resto della città o, nel caso di insediamenti periferici, un isolamento fisico segnalato dalla presenza di barriere difficilmente valicabili - autostrada, linea ferroviaria, fabbriche, zone "speciali" - e aggravato dalla carenza di trasporti pubblici;.

condizioni ambientali mediamente peggiori rispetto al territorio circostante,
minore dotazione di servizi, mancanza di manutenzione degli immobili, abbandono e degrado degli spazi pubblici, presenza di attività inquinanti;

omogeneità della popolazione al suo interno e eterogeneità rispetto al contesto,
la popolazione può essere composta da gruppi diversi e talvolta in conflitto fra loro - autoctoni e immigrati, immigrati di diversa provenienza - ma condivide una condizione di debolezza, per reddito, occupazione, età, a causa delle quali è considerata una comunità "a parte"; la concentrazione del disagio è un fenomeno cumulativo ed è spesso aggravata dai criteri di assegnazione degli alloggi pubblici;

limitate possibilità di effettiva "partecipazione",
gli immigrati non possono votare, gli autoctoni non sono proprietari o le loro proprietà valgono così poco che la vendita non consentirebbe il trasferimento ad altra zona;

localizzazione appetibile per l’investimento- reinvestimento immobiliare,
il valore potenziale del terreno e le aspettative di sviluppo immobiliare sono condizione indispensabile per assurgere alla cronaca, prima come quartiere problema, zona a rischio, ghetto e poi come laboratorio, quartiere risorsa, area da rivalorizzare e "restituire alla città"; la rimozione degli abitanti, almeno parziale e selettiva, è uno degli ingredienti della valorizzazione (bonifica!) del quartiere, perché la terra su cui sorgono i ghetti vale molto, e potrà valere molto di più se "liberata" dagli attuali abitanti. (2)



3. Enclosure e recinzione, parole chiave dell’urbanistica

il primo, che recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: Questo è mio, e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile (Jean Jacques Rousseau, Discorso sulle origini ed i fondamenti dell’ineguaglianza, 1754)

Nel testo da cui è tratta l’abusata citazione, Rousseau individua nell’atto di chi si impadronisce, delimitandola, di una porzione di terra, l’origine della proprietà privata e della organizzazione sociale che su questa si basa. Ma oltre che strumento e indicatore dell’appropriazione individuale, la recinzione è anche una pratica abitualmente utilizzata dalle pubbliche istituzioni per sottrarre alla collettività beni comuni e quindi cederli a singoli privati.

La questione è particolarmente rilevante nel momento attuale, perché gli interventi per aumentare la vivibilità urbana vengono attuati contestualmente - quando non ne sono un prerequisito - alla privatizzazione o riprivatizzazione di tutto quello che è/era pubblico e a cui può essere attribuito un prezzo. Questo elemento costitutivo della trasformazione della società, e quindi delle città (Blomley, 2004), renderebbe necessaria una adeguata riflessione sulle sue conseguenze nella attività professionale degli urbanisti e nella codificazione della natura stessa della disciplina.

Presentate come uno strumento indispensabile per far aumentare la produttività dei beni di volta in volta tolti alla collettività (Hardin, 1968), le enclosures ritornano regolarmente nel corso dell’accumulazione capitalista, con particolare intensità e diffusione nei momenti di più radicale riorganizzazione della struttura economica e sociale.

Nella seconda metà del settecento, la recinzione delle terre comuni, e la loro privatizzazione, fu uno degli elementi che contribuirono all’affermazione della rivoluzione industriale e, quindi, alla nascita dell’urbanistica moderna. La necessità di mitigare gli effetti dannosi della industrializzazione e urbanizzazione sulla salute e sulle condizioni di vita, infatti, portò all’affermazione del principio che è compito delle pubbliche istituzioni regolare l’uso del suolo e che in ogni città deve esistere una adeguata dotazione di spazi comuni utilizzabili da tutti i cittadini.

Anche oggi, la recinzione e la privatizzazione degli spazi pubblici concorrono alla realizzazione della cosiddetta rivoluzione postindustriale, ma esattamente opposto è il ruolo assunto dall’urbanistica (dagli urbanisti) postmoderna che partecipa attivamente alla spartizione di questo enorme bottino e alla sua giustificazione teorica: propaganda la città per parti, individua le aree pubbliche da destinare alla valorizzazione o al degrado, progetta gli interventi necessari ad aumentarne la redditività prima di cederle ai privati.

Improvement, termine con il quale, nel secolo scorso, si definivano e reclamavano gli interventi necessari a migliorare le condizioni dell’ambiente urbano, è diventato mero sinonimo di incremento della appetibilità di un’area per gli investitori immobiliari e cercare the highest and best use, il più alto e miglior uso di ogni bene, incluso il suolo, non è più solo un’aspettativa del mercato, ma una sorta di imperativo morale per le amministrazioni.

In questa logica, la gentrification perde qualsiasi connotazione di fenomeno socialmente distruttivo, non essendo altro che un’evoluzione naturale e benefica verso un uso più redditizio del suolo, mentre tutto quello che può ostacolarla (lacci e laccioli) viene bollato come dannoso per lo sviluppo e la competizione tra le città.

Le enclosures, sono un elemento decisivo di questa trasformazione del paradigma disciplinare, sia come concetto guida attorno al quale costruire piani e progetti di valorizzazione, che nelle speciifiche forme nelle quali si possono concretare: zone economiche speciali, distretti e entrerprise zones; siti per eventi speciali, manifestazioni sportive, grandi esposizioni commerciali; zone industriali inquinate, da bonificare e poi restituire ai privati,; zone riservate alla residenza di gruppi di popolazione omogenei per preferenze e stili di vita ai quali si concede la facoltà di governarsi privatamente; isolati urbani e complessi residenziali di proprietà pubblica da demolire e privatizzare.

Si tratta solo di pochi esempi, molti altri ne esistono, tutti caratterizzati dalla complementarietà fra le richieste degli investitori privati e le iniziative delle pubbliche istituzioni che ad esse si adeguano - effettuando importanti interventi infrastrutturali e sopprimendo o rilassando regole e leggi normali - per garantire una sorta di extraterritorialità normativa e fiscale che si traduce, sulle mappe, in una configurazione a macchie.

Enclosure e recinzione non sono sinonimi; si possono recintare porzioni di territorio senza che ne venga ceduta la proprietà ai privati, ad esempio per delimitare le zone da lasciare all’abbandono e al degrado, dove le condizioni di vita variano seguono una gerarchia qualitativa che va dalla povertà meritevole fino al vero e proprio modello concentrazionario. Ma, qualunque sia loro condizione dal punto di vista giuridico, tutte queste linee chiuse danno origine a una configurazione del territorio come sfondo indefinito, sul quale figure ben delimitate vengono messe in risalto o relegate in secondo piano.

Che racchiudano opulenza o disperazione, la separatezza di questi recinti dal contesto fisico e sociale, sempre più accentuata e segnalata dalla presenza di barriere fisiche, è diversa da quella che si poteva realizzare con la zonizzazione ed altre pratiche di suddivisione territoriale - circoscrizioni elettorali, distretti scolastici e sanitari - che pure venivano utilizzate con finalità discriminatorie, ma che non negavano la continuità fra le zone confinanti.

La recinzione ha un significato molto diverso. A differenza della linea di confine, che presuppone l’esistenza di due soggetti che tracciano una divisione fra i rispettivi territori, sulla base di un compromesso o d un accordo che può essere modificato nel corso del tempo, e che lo controllano dai rispettivi lati, la recinzione è un atto unilaterale. Spesso imposto con la violenza e la prevaricazione, a qualunque scala territoriale- dalle homelands del Sud Africa alle barriere costruite dallo stato di Israele attorno ai villaggi palestinesi, dai muri attorno ai quartieri a rischio perché etnicamente connotati alle gated communities con le cancellate che bloccano l’accesso e il transito lungo le strade privatizzate, la recinzione è frutto di decisioni finalizzate alla separazione e alla discriminazione.

Di fronte all’affermazione di atteggiamenti e comportamenti che teorizzano la città disconnessa e ne progettano la frammentazione, manca una adeguata consapevolezza delle conseguenze che l’enclosure dei commons (l’uso di termini arcaici è adatto in attesa di compilare un vocabolario per definire il furto e all’appropriazione dei beni comuni), avrà sulla/e città.

Rendere coscienti i cittadini - che "non tollerano che si mettano le mani nel loro portafoglio", ma accettano passivamente di essere rapinati dei beni comuni - dell’impoverimento collettivo e delle conseguenze a lungo termine provocate da questo fenomeno, associato alla distribuzione degli uomini in spazi chiusi disegnati secondo il criterio che ciascuno deve stare nella porzione di territorio che si merita, può essere il punto d’inizio per una mobilitazione per la inappropriabilità e incommerciabilità dei commons e, quindi, per una vivibilità diffusa.



Note

(1) E’ grazie al benign neglect, il disinteresse benigno! spiegava il sindaco di New York, alla fine degli anni ’70, che nel Bronx, la chiusura di alcune scuole e stazioni della metropolitana e di alcune scuole, la eliminazione degli idranti antincendio e altri tagli nella ordinaria manutenzione, hanno accelerato l’auspicato drenaggio degli abitanti.

In Italia, dichiarazioni così esplicite non vengono rilasciate dai pubblici amministratori, o almeno non ancora, né sono disponibili inchieste sistematiche sul legame tra i meccanismi di concentrazione di cittadini immigrati o comunque sfavoriti, le proteste degli indigeni ed i piani di rigenerazione urbana. E’, però, interessante notare che alcuni studiosi attribuiscono un ruolo sostanzialmente positivo ai conflitti etnici in quanto potenti "fattori di cambiamento" . Il caso emblematico di "crisi urbana" che ha accelerato le trasformazioni sarebbe Torino, nei cui due quartieri, San Salvario e Porta Palazzo, a lungo dipinti come ghetti, "5 anni dopo lo scoppio dei conflitti risultano aperti due tra i più importanti cantieri della città" (Allasino, Bobbio, Neri, 2000).

(2) Lo slogan renewal=removal coniato negli anni ’60 per denunciare gli effetti degli interventi di rinnovo edilizio sugli abitanti è ancora attuale, come dimostra tra gli altri il programma Hope VI, "grazie" al quale, tra il 1993 ed il 2003, sono stati demoliti negli Stati Uniti decine di migliaia di alloggi di proprietà pubblica. Molti degli edifici e dei complessi distrutti erano più che "decenti", ma il valore del suolo sul quale erano collocati era potenzialmente così alto, che non si poteva continuare a sprecarlo per tenervi "parcheggiati dei poveri". Il programma federale, quindi, ha "liberato" le aree necessarie ai privati per la costruzione di liveable communities secondo i dettami del cosiddetto new urbanism (Somma, 2007).



Riferimenti bibliografici:

Enrico Allasino, Luigi Bobbio, Stefano Neri, 2000, Crisi urbane: che cosa succede dopo?, Ires

Nicholas Blomley, 2004, Unsettling the city. Urban land and the politics of property, Routledge

Garrett Hardin, 1968, The tragedy of the commons, "Science", n. 162, p. 1243-48

Neil Smith, 1996, The frontier city, Routledge

Paola Somma, 2007, The destruction of American historic housing projects, Open House International, vol. 32,

n. 1