costo della difesa dai mutamenti climatici






La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 21 ottobre 2008

Il costo della difesa dai mutamenti climatici

Giorgio Nebbia
nebbia at quipo.it

Dodici, ventiquattro, zero ? quanti sono i miliardi di euro che
l'economia e le imprese italiane, e quindi i cittadini italiani,
dovrebbero spendere ogni anno se venisse approvato il "pacchetto
venti-venti-venti" di misure proposte dall'Europa per frenare le
modificazioni climatiche negative ? L'opinione pubblica è stata
frastornata nelle scorse settimane dal balletto di cifre da cui pure
dipende la vita e il lavoro di milioni di persone. Le modificazioni
climatiche da frenare sono dovute al fatto che il consumo di
combustibili fossili (carbone, petrolio, gas naturale) e la
produzione e il "consumo" di merci con l'attuale tecnologia emettono
dei gas, fra cui l'anidride carbonica, che fanno cambiare la
composizione chimica dell'atmosfera; di conseguenza una parte della
radiazione solare resta intrappolata, proprio come in una serra,
sulla superficie del pianeta e provoca un aumento della temperatura
media della Terra.

Il peggioramento presente e futuro del clima costa dei soldi perché
fa aumentare le piogge e le alluvioni in alcune zone della Terra e fa
diminuire, in altre zone, la disponibilità di acqua e quindi la
produzione agricola, con conseguente aumento del prezzo delle merci e
dei servizi; la fusione dei ghiacci e le modificazioni delle coste
marine fanno perdere guadagni e lavoro alle attività turistiche sia
al mare sia in montagna. Per rallentare --- solo rallentare perché
indietro non si torna --- l'aumento dei danni economici, lasciando da
parte quelli ecologici, dovuti al peggioramento del clima in atto,
occorrono interventi di carattere internazionale: l'atmosfera,
infatti, è la stessa sopra l'America e sopra la Cina, i gas immessi
nell'atmosfera dall'Europa modificano il clima dell'Africa, eccetera.

Per questo la comunità europea ha deciso di accettare norme e azioni
tecniche e merceologiche che consentano, da oggi al 2020, di
diminuire le emissioni di anidride carbonica e di gas serra
nell'atmosfera del 20 percento rispetto al 1990, di diminuire del 20
percento i consumi di energia e di aumentare del 20 percento i
consumi di energia da fonti rinnovabili (Sole, vento, biomasse,
idrica). Una transizione che anch'essa costa e a questo punto alcuni
paesi europei, con l'Italia in testa, hanno dichiarato che non
intendono adeguarsi alle nuove norme perché i costi sarebbero troppo
alti per la loro economia e per le loro imprese.

Per l'Italia è stato calcolato un costo di circa 24 miliardi di euro
all'anno, per modificare i cicli produttivi, per diminuire i consumi
energetici, per filtrare, con costose tecnologie, i gas dai camini o
per comprare "licenze di inquinare", per la razionalizzazione dei
trasporti; tutto questo, secondo alcuni, renderebbe meno competitive
le nostre merci nel mercato internazionale, costringerebbe molte
imprese a chiudere e licenziare i dipendenti, farebbe diminuire i
consumi interni e aumentare il prezzo delle case, eccetera.
Dall'Unione Europea è stato ribattuto che i costi per l'Italia
sarebbero di circa la metà e nessuno ci capisce niente e le decisioni
sono state rimandate al prossimo dicembre. In questo periodo sarebbe
intanto bene rifare i conti valutando quanti gas serra vengono emessi
e quanta energia viene consumata, in ciascun processo di produzione e
di consumo; quanti per ogni chilo di grano prodotto o di chilometro
percorso da una automobile, o per ogni chilo di acciaio o di plastica
o di cemento; poi bisognerebbe prevedere realisticamente quanto
grano, quante automobili o acciaio o plastica sarà opportuno produrre
da qui al 2020, poi quanto costerà, da qui al 2020, il petrolio,
quella bizzarra merce il cui prezzo è stato capace di dimezzarsi in
appena due mesi.

E se i nuovi conti mostrassero tutto il contrario, se la transizione
per attenuare i danni dei mutamenti climatici nei prossimi dodici
anni fosse non un costo per il paese, ma una straordinaria occasione
per l'ammodernamento e la razionalizzazione dell'economia, per
rendere più competitivi i nostri prodotti nei mercati internazionali
e in quello interno, adeguandoli agli standards ambientali di altri
paesi, nostri concorrenti ? La diminuzione dei consumi energetici e
delle emissioni di gas serra è realizzabile con la progettazione e
costruzione di nuove automobili, di nuovi frigoriferi, di nuove
merci, di nuovi edifici, con il cambiamento di innumerevoli oggetti
incapaci di soddisfare le nuove domande di vincoli ambientali dei
paesi industriali e di quelli emergenti.

Una sfida che contribuirebbe a riscoprire la centralità
della "fabbrica", come qualcuno ha detto, l'importanza della ricerca
nelle Università, nelle stesse imprese. Senza contare le prospettive
di innovazione, di occupazione e di affari contenute in una adesione
a quella parte del "pacchetto clima" che prevede di far dipendere
l'Europa per il 20 % dalle fonti energetiche rinnovabili. Si pensi
alle prospettive dell'energia solare anche nella progettazione di
edifici a basso consumo energetico, in una nuova urbanistica, alle
prospettive di utilizzazione delle risorse idriche nelle zone interne
del paese, di valorizzazione delle risorse energetiche offerte dal
vento e dalla biomassa vegetale.

Senza contare, infine, il valore, in soldi, che si ha evitando frane
e alluvioni, siccità, impoverimento della fertilità dei suoli,
diminuzione delle rese agricole per la mancanza di acqua; che si ha
diminuendo l'inquinamento dovuto all'uso proprio dei combustibili
fossili che, oltre all'anidride carbonica, immettono nell'atmosfera
sostanze dannose per la salute. Una realistica analisi dei reali
costi e dei reali benefici dell'adesione alle iniziative per
rallentare i mutamenti climatici mostrerebbe che l'Italia ne
trarrebbe non costi, ma ricchezza, in particolare nel Mezzogiorno,
ricco di Sole e di lavoro.