le citta' del futuro



da Eddyburg.it
 
La città del futuro
Data di pubblicazione: 25.03.2009

Autore: Mazzette, Antonietta

Se confrontiamo l'urbanistica italiana con quella degli altri paesi...Una lezione al Centro studi urbani di Sassari. La Nuova Sardegna, 25 marzo 2009

Wulf Daseking, uno dei city-manager più importanti d’Europa, e che da 25 anni si è occupato stabilmente della trasformazione di Friburgo in senso sostenibile, nei giorni scorsi ha tenuto una lezione presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Sassari, invitato dal Centro Studi Urbani dell’Ateneo. Il quesito centrale in cui si inquadrava la sua lezione è stato “Perché in Italia è difficile applicare modelli di sostenibilità urbana?”.

La lezione di Daseking, supportata da 100 fotografie, si è concentrata attorno ai seguenti principi che egli definì “elementari”: 1. conservare confini netti tra campagna e città; 2. costruire le infrastrutture necessarie, a partire dalla linea tranviaria, prima di avviare un qualunque piano di sviluppo edilizio; 3. consumare e produrre energia pulita negli edifici di nuova costruzione, che non devono superare i 4-5 piani, ciò al fine di garantire un maggior controllo sociale del territorio circostante anche dal punto di vista visuale (si pensi ai bambini che giocano ‘sotto casa’ e che possono essere controllati a vista dagli appartamenti); 4. porsi l’obiettivo di trasformare il patrimonio edilizio esistente in senso sostenibile, a partire dai pannelli fotovoltaici; 5. praticare mobilità urbana con mezzi pubblici e sostenibili, quali il tram, con piste ciclabili e aree pedonali, mentre le auto non devono sostare lungo le strade della città, utilizzate dai suoi abitanti, a partire dai bambini; 6. prevedere mescolanza sociale nei nuovi quartieri, ciò al fine di evitare forme di segregazione, considerate fattore di insicurezza sociale; 7. considerare la partecipazione dei cittadini essenziale per il controllo sociale di ogni tipo di intervento.

Friburgo oggi funziona attorno a questi principi ed è perciò che altre città, anche più complesse, come Los Angeles, vedono in questo city-manager una fonte preziosa per capire come governare gli effetti negativi della diffusione di urbana. Ma questi principi sono così ‘elementari’? Per il buon senso sembrerebbe di sì, ma se provassimo ad applicarli in Italia ci apparirebbero utopici. E ciò per varie ragioni.

Innanzitutto perché è evidente che, per poterli applicare, sono necessarie politiche pubbliche autorevoli e riconosciute socialmente, ma che qui appaiono irraggiungibili non ultimo perché non esiste una legge sul regime dei suoli che separi nettamente l’essere proprietari di suolo (e perciò essere portatori di interessi particolari contingenti) dalle scelte pubbliche che dovrebbero rispondere a interessi generali e a un’idea futura di sviluppo urbano. E ciò in Italia è andato a scapito di un’idea di città da intendere come bene comune.

In secondo luogo perché l’indebolimento dell’azione pubblica nei processi di trasformazione urbana si è tradotto sostanzialmente in rinuncia alla pianificazione “ordinaria” in senso proprio. Ciò ha favorito e talvolta sollecitato forme private di intervento nel territorio, in nome di una non ben precisata, almeno in senso regolativo, “urbanistica contrattata”, qual è il caso di Castello a Firenze, un esempio di significativa commistione tra politica e rendita immobiliare nell’uso del territorio, giacché, mettersi d’accordo sui metri cubi da costruire e decidere dopo le altre utilizzazioni, comprese le infrastrutture necessarie, in Italia è una pratica diffusa ed è l’opposto della pianificazione.

In terzo luogo perché non avere regole chiare è diventato un “fatto sociale” normale e rientra in un insieme di comportamenti condivisi, perché si è affermata l’idea che essere proprietari di suolo equivalga automaticamente alla costruzione di volumetrie, ovvero alla concreta possibilità per i singoli di trarre profitti in tempi brevi, senza peraltro correre tutti quei rischi insiti nei settori economici produttivi. Infatti, il processo di consumo di suolo che va di pari passo con l’estensione del fenomeno dello sprawl, non solo non è oggetto di intervento regolativo e di attenzione sociale, ma rischia di accelerare il suo corso tanto per le più recenti politiche urbane che hanno coinvolto importanti città come Milano e Roma, quanto per le politiche governative relative alla grave crisi economica in cui versano il Paese e il resto del mondo, e per le quali “la ripresa edilizia” sembra essere la risposta più facile per recuperare posti di lavoro e rilanciare l’economia. Ancora oggi in Italia non si riflette sufficientemente a livello sociale sugli scempi ai paesaggi urbani e naturali di questi ultimi decenni - sui quali comunque c’è una vasta letteratura e di cui ha dato conto anche la migliore cinematografia italiana -, scempi che non sono mai serviti a risolvere i problemi di chi non ha una casa, mentre sono stati utili alle pratiche speculative di ogni tipo e alle cosiddette bolle immobiliari che possiamo trovare un po’ ovunque. Come ad esempio il complesso di Santa Giulia a Corvetto-Rogoredo, pubblicizzato come “città ideale”, ideata da Norman Foster, e che Stefano Righi in un articolo sul Corriere della Sera (24 Novembre 2008) aveva definito “città bunker” perché «chi finisce il turno di lavoro tardi viene accompagnato al parcheggio dai vigilantes armati, che sono numerosissimi…».

In quarto luogo perché la debolezza delle politiche pubbliche va di pari passo con il fatto che la figura del sindaco ha assunto l’ambiguo ruolo di amministratore pubblico e di manager, e in pratica è diventato il diretto interlocutore delle forze produttive e finanziarie che generalmente hanno più voce. Di contro, i problemi di coesione sociale, di integrazione multietnica, di formazione e di lavoro, insomma, tutti quei problemi vissuti comunemente dalle diverse popolazioni presenti nelle nostre città, continuano a essere governati come problema di sicurezza e di ordine pubblico: dalle impronte digitali dei rom alle ronde e ai cosiddetti guardiani del territorio.

In Italia vi è sempre stata una sottovalutazione delle questioni attinenti al consumo di suolo e al degrado delle nostre città e dei nostri paesaggi. Con ciò non voglio sostenere che il consumo del suolo sia generalizzato, anzi si registrano buone pratiche sia in alcune regioni del nord-Italia che nelle aree centrali e insulari. Ad esempio, la Regione sarda sotto la guida di Renato Soru aveva adottato nel 2006, attraverso lo strumento del Piano Paesaggistico Regionale, una politica di vincoli al fine di ridurre il consumo del suolo costiero, anche se appare superfluo ricordare che questa è stata una delle ragioni principali (anche se non l’unica) della sconfitta elettorale di Soru.

Per concludere, se in Italia siamo “disattenti” rispetto a questi problemi, lo sguardo straniero ne avverte tutta la gravità: è come dire che “Prima che Mosca stessa, è Berlino che si impara a conoscere attraverso Mosca”, come ha scritto nel 1929 Walter Beniamin in Immagini di città.Si pensi, per ultimo, alle dichiarazioni rilasciate da Rafael Moneo al Corriere della Sera (6 marzo 2009), secondo il quale in Italia si costruisce “fin troppo, al di là del bisogno della gente, ancora una volta solo per speculazione”. Ma la “disattenzione” ha a che fare direttamente con la pratica della democrazia e con tutto ciò che attiene all’individuazione di interessi comuni di lungo periodo e che necessitano del superamento della primaria preoccupazione individuale di difendere i singoli interessi, ossia tutto ciò che attiene all’esito finale di un processo di formazione di cittadinanza in senso democratico. Non è un caso, infatti, che il contesto di politicità debole ben si concili con la pratica del metodo Decidi, annuncia, difendi perché considerato il più efficace per accelerare il processo decisionale. Metodo ampiamente praticato dal nostro Governo, a partire dall’annuncio reiterato della costruzione del ponte sullo Stretto di Messina fino alla sciagurata ipotesi di liberalizzare l’edilizia.