new economy: infrastrutture di rete, quel che resta di un'idea di economia



 da greenreport.it
8 marzo 2010 

Infrastrutture di rete, ovvero quel che resta della vecchia new economy
Diego Barsotti

Il 10 marzo di dieci anni fa la new economy toccò il massimo del suo splendore per poi cominciare a sgonfiarsi sempre più repentinamente dando vita alla prima bolla speculativa del nuovo millennio, che presto ne avrebbe conosciute di altre e di ben più gravi. Nel 2000 anche chi scrive faceva parte a pieno titolo del magico mondo avvolto in una cupola di vetro dove nevicavano bit e i domini internet si vendevano a peso d'oro: i giornalisti della new economy si chiamavano publisher (junior e senior) e chi li coordinava - come nel mio caso - si chiamava content manager, titolo al quale dovevo affiancare l'ulteriore ridondanza "del primo network europeo di portali verticali". Le ore passavano più a fare brain storming che a scrivere, a fare public relation più che a cercare le notizie, a improvvisare trading online, a cercare l'intuizione geniale di turno o magari a far nascere l'Arnovalley che avrebbe messo in rete i cervelli di Firenze e Pisa sotto l'egida compiacente delle istituzioni e delle larghe mani delle banche toscane, pronte a finanziare qualsiasi cosa avesse un net come prefisso o come suffisso.
Sappiamo tutti come è andata. La bolla è scoppiata, le previsioni si sono puntualmente non avverate, le ridicole new-yuppaggini sono state prestamente cancellate e la rete si è profondamente evoluta: se la new economy si è sgonfiata perche non produceva che miti, la rete di oggi produce soprattutto informazione (dati e immagini che rischiano di intasare quelle che un tempo erano le immense autostrade telematiche), che prima o poi qualcuno dovrà pagare, almeno quella di qualità (sempre di esseri capaci di discernimento).
Qui però si è anche verificato il disaccoppiamento tra l'evoluzione sociale della rete che è stata stratosfericamente più veloce dell'evoluzione strutturale. Il fenomeno google prima, i social network poi, hanno profondamente cambiato anche la vita reale e le abitudini della gente, soprattutto la gente dei paesi sviluppati ma non solo quella. Hanno sconvolto le dinamiche del marketing e dei consumi, costituendo un'ancora semi-inesplorata miniera ricchissima di dati per chi deve vendere, qualsiasi prodotto o servizio. La prossima frontiera, da questo punto di vista, sarà il software che non capterà più soltanto le parole, i tag, bensì sarà capace di leggere i concetti espressi  nei mille rivoli 2.0 della rete, permettendo così alle imprese di avere una fotografia reale delle opinioni e dei gusti dei consumatori.
Un altro fronte caldo sarà quello delle traduzioni, inaugurato da google che mentre affina sempre di più le sue versioni, si appresta a lanciare i sottotitoli su you tube. I ricercatori fanno l'esempio virtuoso dello studente che pur non conoscendo l'inglese potrà seguire l'ultima conferenza del Mit sottotitolata, ma in realtà anche qui il gioco vale soprattutto per le imprese: perché limitarsi a una sola lingua quando con il traduttore i propri messaggi video potranno raggiungere molte più persone? Anche perché il file con la trascrizione deve essere messo dall'utente, mentre il software di google si "limiterà" a sincronizzare il video con i sottotitoli. Quindi non solo pare ad oggi uno strumento esclusivamente ad uso e consumo delle imprese che vogliono allargare ulteriormente il target dei propri clienti (il servizio, gratuito in apparenza, lo pagano i ritorni commerciali)  ma va ad evidenziare uno dei vulnus della rete riconosciuto da tutti: la facilità di far passare per vere notizie false, con la possibilità per chiunque di tradurre una cosa per un'altra.
L'evoluzione delle rete dal punto infrastrutturale invece è stata molto più lenta, non solo in Italia,  dove per esempio sono ancora fermi al Cipe gli 800 milioni finalizzati a ridurre il digital divide. Giovanna De Minico, docente di diritto  costituzionale all'università Federico II di Napoli ricordava ieri sul Sole 24 ore  che sono già trascorsi 16 mesi «da quando la commissione europea sottopose a consultazione pubblica il destino della futura rete in fibra ottica che dovrebbe sostituire la rete in rame nella trasmissione di voci, immagini e servizi digitalizzati dell'amministrazione». In realtà l'Europa sembra aver deciso di non decidere, lasciando questo ruolo ai singoli Stati «che ci porta a una cartina europea che somiglia a un puzzle, e nemmeno si avvicina a una scelta univoca e comune». De Minico rassegna quindi la posizione di Regno Unito e Germania per arrivare poi al nostro Paese dove «circa le nuovi reti, l'Italia non ha  un progetto politico maturo con obiettivi, predisposizione di mezzi certi, e definizione di tempi adeguati per conseguirli». «Se è vero che l'Europa tace - conclude Giovanna De Minico - la Germania favorisce l'ex monopolista, e il Regno unito fa il primo della classe, i nostri ritardi di oggi li pagheranno i cittadini e le imprese italiane di domani, in termini di mancata inclusione sociale e di emarginazione della competizione internazionale».