uomini e parchi



da greenreport.it
 
 24 giugno 2010 ]
Uomini e parchi (I): quale prospettiva oggi?
 
Renzo Moschini

E' innegabile che raramente la vigilia di importanti scadenze istituzionali sia stata caratterizzata come quella attuale da una tale confusione sui ruoli dei vari protagonisti vecchi e nuovi. E' sempre più netta e diffusa, infatti, la sensazione che si proceda ormai spesso a fari spenti e con sortite improvvisate che talvolta durano lo spazio d'un mattino.
L'affanno economico-finanziario ovviamente non aiuta spostando l'asse del ragionamento esclusivamente o quasi sui costi e poco e male sulle funzioni.
A questa confusione non sfuggono i livelli elettivi e non di meno tutti gli altri che dai primi derivano traendone legittimazione e definizione dei ruoli.
I parchi vivono questa crisi quanto e talvolta più degli altri perché operano in quel ganglio delicatissimo che è l'ambiente oggi al centro di una crisi epocale incomparabilmente più profonda e generale rispetto ad altre stagioni anche a noi vicine. Qui oggi più che mai si gioca il futuro dell'economia e della stessa sopravvivenza dati i rischi che già gravano sulla natura e la condizione di vita del pianeta.
A politiche ambientali degne di questo nome si è giunti specialmente in Italia tardi e tra resistenze varie non ultima quella culturale che tendeva a circoscrivere i danni con interventi sottratti il più possibile al governo delle istituzioni. Solo quando si è preso coscienza, specialmente con ‘Uomini e parchi' di Valerio Giacomini, che il territorio che si voleva tutelare e proteggere era inseparabilmente connesso con la storia e la presenza delle comunità locali e delle loro attività, si è dovuto prendere atto che qualsiasi intento volto a ricondurre questi territori a logiche gestionali separate-sia pure in nome di valori culturali e scientifici condivisibili- non era accettabile.
D'altronde le politiche di tutela e protezione del territorio non erano più circoscrivibili a ‘isole' sottratte alle interferenze esterne ormai in massiccia crescita per portata e natura .
Da qui l'avvio di quella svolta che tra tanti rinvii e contraddizioni sarebbe approdata nella approvazione della legge quadro e già prima in una diffusa e importante esperienza dei parchi regionali.
Questa svolta -credo che possiamo definirla così vista anche la crescente connessione con le politiche ambientali comunitarie e internazionali- presentava inevitabilmente anche zone grige, ossia aspetti ambigui e dei retropensieri che non avrebbero poi tardato a manifestarsi. Tra questi vi era senza ombra di dubbio quello istituzionale dovuta al fatto che la legge quadro, ferma per periodi lunghissimi, ripartì anche sotto la spinta dell'avvento delle regioni con le quali lo stato doveva ora fare i conti sulla ‘ripartizione' complessiva delle competenze. Il lungo digiuno regionale era finito e lo stato non poteva ovviamente far finta di niente. Da qui un braccio di ferro che riguardava il complesso delle competenze tra le quali l'ambiente e i parchi erano tra le più nuove e impegnative per lo stesso stato.
Questo, come è stato ricordato tante volte, investì e riguardò anche inevitabilmente la vicenda dei parchi dove proprio la novità per tutti accrebbe tensioni e contrasti. Lo stato rivendicava per sé un ruolo ‘storico' che però appariva ormai logorato e comunque non in grado di rispondere alle finalità e ancor meno per la gestione a quelle nuove esigenze che erano andate via via maturando e prendendo corpo non solo in Italia. Questa coincidenza tra ridefinizione dei ruoli statali e quelli regionali influenzò e non sempre positivamente il cammino e l'approdo della legge. Restò diffusa anche se non sempre conclamata la convinzione che il ruolo dello stato e quindi dei parchi nazionali fosse comunque più importante, godesse insomma di una incontestabile supremazia. D'altronde avremmo avuto presto conferma di quanto ciò pesasse e con effetti certamente non positivi sulla svolta in atto. In altri paesi questo contrasto istituzionale disturbò meno la vicenda dei parchi perché non ci fu la stessa coincidenza tra ridefinizione del ruolo delle aree protette e definizione degli assetti istituzionali generali.
L'approvazione della legge quadro aprì naturalmente una nuova partita nazionale che risentì tuttavia quasi da subito di questo retro pensiero e cioè che il protagonista principale restava lo stato non in quanto regista ‘nazionale' per quella che allora veniva definito ruolo di ‘indirizzo e coordinamento', ma soprattutto perchè titolare dei parchi nazionali i quali come avremmo visto presto non potevano rappresentare da soli quella dimensione nazionale di un sistema che tale non è riuscito mai a diventare, men che meno oggi. Ciò fu particolarmente evidente in riferimento alle aree marine che tutt'ora ci si ostina a considerare competenza esclusiva dello stato nel senso più burocratico del termine nonostante la legislazione vigente anche sul piano comunitario.
Perso lo slancio iniziale che pur non esente da incertezze ed errori palesi, aveva permesso finalmente anche al nostro paese di ben figurare nel confronto con l'europa, la situazione e andata sempre più chiaramente e vistosamente peggiorando. Come per altre situazioni si è cercato solo di tagliare le risorse e per poterlo fare meglio il ruolo dei parchi si è rapidamente impoverito, è diventato più evanescente e marginale al pari di altri soggetti come le autorità di bacino, più soggetto anche nelle scelte più ordinarie e scontate ad una burocrazia ministeriale d'altri tempi.
E' calata insomma per troppi versi la tela su un soggetto che un ventennio fa fece la sua comparsa sulla scena suscitando legittime aspettative per quel nuovo tipo di governo del territorio che era rimasto troppo a lungo incardinato esclusivamente su norme urbanistiche vecchie o su una tutela del paesaggio che però restava appannaggio esclusivo e separato delle sopraintendenze e quindi sottratto ad una pianificazione ambientale ‘sovraordinata' affidata appunto per la prima volta alle istituzioni elettive. Istituzioni che avevano così incontrato e coinvolto positivamente anche quel variegato mondo ambientalistico tanto diffidente quando non ostile verso un sistema che fino a quel momento aveva giocato il ruolo di controparte.
A conferma di questa allarmante situazione basta richiamare le idee -si fa per dire- che circolano più meno disinvoltamente passando dalla abrogazione dei parchi regionali, all'ulteriore riduzione di autonomia degli enti parco nazionali per quanto riguarda la spesa ma anche la vigilanza, la composizione, la nomina dei direttori, senza contare poi le fisime sull'apporto dei privati nonostante i clamorosi fallimenti per quanto riguarda i musei pur sempre meno complicati dei parchi. E infine le ultime sortite e ipotesi che prevedono addirittura la estromissione delle stesse regioni dalla gestione delle aree protette marine. Il rifiuto ostinato e immotivato di affrontare questo delicatissima situazione in un confronto serio nazionale in cui non sia possibile cavarsela come sulla biodiversità con passarelle riservate a poco credibili dichiarazioni di buona volontà, conferma purtroppo l'inaffidabilità della gestione attuale di un ministero privo di idee e di volontà.
Ciò detto non basta certo uscire dai troppi silenzi anche istituzionali su un aspetto non soltanto non separato da quella situazione più generale che rischia di diventare sempre di più una insopportabile melassa foriera di nuove complicazioni, ma per molti versi determinante proprio per quelle politiche ambientali che nonostante i tanti richiami alla green economy restano spesso un oggetto misterioso.
E qui probabilmente non basta solo impedire che cali davvero la tela del silenzio sui parchi.
Serve credo un ripensamento, una riflessione che sappia come ai tempi di Giacomini cogliere la portata dei cambiamenti e rendere così più chiaro il ruolo dei parchi di cui c'è oggi più e non meno bisogno.
E lo si può fare proprio partendo dalla legge quadro che ebbe il merito di immettere -diciamo così- tematiche fondamentali e per molti versi nuove quali la protezione della natura, del paesaggio, della biodiversità, del suolo, delle coste in un circuito istituzionale fino a ieri riservato esclusivamente o quasi ad un regime scientifico e tecnico. Le politiche nazionali, regionali e degli enti locali avrebbero dovuto da ora in avanti tenendo conto che ogni altro momento del governo del territorio doveva conformarsi a queste nuove e inedite finalità che ‘prevalevano' su tutte le altre anche di carattere economico. Questa scelta pur chiara e tale da suscitare persino sorpresa oltre che non poche diffidenze di cui avemmo presto conferma, fu in qualche misura circondata da reti di protezione che ne attenuassero l'impatto politico -istituzionale.
Il piano socio-economico che doveva affiancare quello ambientale, il sostegno ai comuni inclusi anche solo parzialmente nei confini del parco per il recupero dei centro storici etc volti a favorire anche forme di turismo meno invasivi e altro ancora, delineavano un parco volto naturalmente ad un ruolo fortemente innovativo ma non separato e tanto meno sovrapposto alle comunità locali e alle sue istituzioni rappresentate nelle Comunità del parco.ù
Questo ‘modello' è risultato nel complesso valido soprattutto per la scelta di far giocare alle grandi questioni ambientali e non separatamente, un ruolo assolutamente inedito.
Questo modello oggi ossia nel momento in cui crisi economico-finanziaria e crisi ambientale sono e appaiono sempre più due facce della stessa medaglia occorre forse rivedere qualcosa. Il modello della 394 configura certo una prevalenza degli interessi -diciamolo così- dell'ambiente sul resto ( almeno ovviamente nei territori perimetrali a parco sebbene questa ‘prevalenza' sia prevista oggi anche in molte normative e protocolli comunitari e internazionali anche per il restante territorio). Ciò induceva e ha indotto a mettere ogni volta sul piatto della bilancia quanto potessero essere sacrificati certi interessi anche locali sull'altare della tutela.
Il caso forse più emblematico di questa contraddizione è quello dell'agricoltura considerata allora quanto di meno compatibile potesse esserci con le finalità di un parco. Basta leggere cosa a quel tempo si sostenne nelle sedi più varie e autorevoli per dimostrare che l'abbandono faceva bene all'ambiente e alla natura, ignorando sia le conseguenze più generali incluse però anche quelle ambientali come poi avremmo visto.
Per la pesca si possono fare considerazioni analoghe. Oggi nessuno se la sentirebbe di riproporre idee del genere tanto è evidente che certe politiche agricole come per la pesca sono indispensabili nella stessa misura sia per l'economia che per la tutela ambientale, della salute etc. Oggi vengono meno insomma molte delle ragioni che indussero a prevedere una doppia regia sia pure non ‘paritaria' tra gestione dell'ambiente ( il piano ambientale) e attività socio-economiche ( il piano socio-economico). Del resto i risultati confermano che qualcosa non andava tanto è vero mentre il piano ambientale sebbene non tutti molti l'hanno fatto, l'altro non l'ha fatto quasi nessuno. Una ragione deve pur esserci e non può essere attribuita semplicemente a negligenza ( che pure ci sarà anche stata).
Va aggiunto che negli ultimi anni sono state proprio le leggi ambientali più importanti -vedi la 183- ma anche il paesaggio nel momento in cui la Convenzione europea lo rilanciava come momento ‘unitario' e non più separato dalla natura, ad essere penalizzate e in qualche modo manomesse.
Insomma, mentre il contesto generale e non soltanto nazionale ci induce a riconsiderare le connessioni tra ambiente nelle sue molteplici connotazioni e profili e economia le leggi più incisivamente pianificatorie perdono i colpi e finiscono in un angolo per lasciare il posto alle più strambe ipotesi ed esercitazioni.
Emergono in sostanza due aspetti che pure già presenti nella legge 394 non hanno prodotto gli esiti previsti e cioè la costruzione di un sistema nazionale di aree protette che doveva contare su una nuova ‘classificazione' coerente anche le disposizioni comunitarie e internazionali mai affrontata seriamente per mettere in relazione più efficace i territori protetti con il restante territorio perché gli effetti innovativi delle politiche ambientali delle aree protette incidessero sul governo del territorio complessivo. Insomma avvalersi della ‘specialità' dei parchi per meglio governare il territorio nel suo insieme. A questo d'altronde dovrebbero servire i parchi come i bacini.
E si torna così alle caratteristiche peculiari del parco come soggetto istituzionale che nel bailamme di un dibattito confuso si è notevolmente appannato tanto da confondersi ed essere sovente assimilato a quei tanti organismi derivati per la gestione regionale o provinciale o locale di specifiche competenze quasi sempre settoriali che fanno capo soprattutto ma non solo alle regioni. Da qui l' auspicio, ad esempio dell'UPI che anche gli enti parco regionali siano sciolti per trasferirne le competenze alle province. Si tratta di una richiesta sorprendente oltre che velleitaria perché si dovrebbe sapere che le competenze del parco non sono ‘trasferibili' a chicchessia. E tuttavia essa conferma quanti danni abbiano fatto quelle inconsulte sortite anche a livelli ministeriali sulla necessità e possibilità di ridurre gli enti parco alla stregua di uno dei tanti organismi consortili o meno ai quali oggi viene affidata la gestione di competenze e funzioni che i titolari ritengono conveniente e più efficace gestire collegialmente. Sono in sostanza organismi ‘derivati' che nulla aggiungono alle competenze dei titolari salvo la auspicata migliore gestione anche sotto il profilo dei costi.
Tutto ciò non ha niente a che fare con l'ente parco non a caso definito dalla Corte ‘ente misto' dotato di competenze e finalità proprie e non derivate. La sua ‘specialità sta appunto in queste sue competenze sovraordinate che sono proprie e non derivate da quelle degli altri soggetti istituzionali coinvolti nella gestione. Ecco perché in caso di scioglimento dell'ente esse non sono ‘restituibili' a nessuno.
Ed è proprio in ragione di questa sua specialità che a suo tempo il parlamento a conclusione di una indagine sulla legge 183 auspicava che anche i bacini fossero affidati alla gestione di un ente dotato di poteri come quello dei parchi. Ciò non è avvenuto per i bacini e oggi non difficile coglierne anche gli effetti negativi, ma anche per i parchi le cose non sono migliorate tanto che sono cresciuti i rischi di una loro burocratizzazione e quindi depotenziamento, fino all'assurdo di una strategia nazionale per la biodiversità che, unica al mondo, non considera il ruolo specifico dei parchi nemmeno per la salvaguardia della biodiversità!
E data la fase che stiamo vivendo sul piano delle riforme istituzionali non sarà male sgombrare il campo da posizioni di cui già in passato furono artatamente e strumentalmente agitate per mettere i bastoni fra le ruote dei parchi.
Come si ricorderà tra le non poche ragioni opposte alla istituzione dei parchi nazionali ed anche regionali figurava quella assai diffusa che l'ente parco più o meno calato dall'alto specie da Roma espropriava o comunque penalizzava il ruolo dei comuni enti elettivi mentre l'ente parco non lo era sebbene qualcuno anche autorevole a suo tempo lo propose.
I fatti, specialmente in quella realtà dove il parco regionale ma anche nazionale è nato dopo una lunga e partecipata incubazione, hanno dimostrato e dimostrano senza ombra di dubbio che non solo i comuni ed anche le province non hanno subito ‘danni' ma sona notevolmente avvantaggiate di questa presenza. In particolare i piccoli comuni che hanno potuto cosi svolgere una altrimenti insperata funzione anche in territori contigui dove non avrebbe potuto assolutamente giocare alcun ruolo. Ma vale anche per quei comuni più grandi e metropolitani che con i parchi dispongono di linee guida pianificatorie più ricche e non ancora unicamente alla gestione urbanistica magari contrattata.
Ma vale anche e non di meno per le stesse regioni che hanno potuto dove hanno saputo e voluto farlo avvalersi di una competenza importante -ad esempio in riferimento al paesaggio ( ora non più !) - per le loro politiche regionali di programmazione.
D'altronde non si tratta di una coincidenza casuale che la crisi che stanno vivendo oggi i parchi nel loro complesso abbia come sfondo una crisi più generale che da anni riguarda l'assetto generale del nostro sistema istituzionale e che attualmente sembra non riuscire a trovare sbocchi e approdi seri e convincenti. Prevale tuttora un po' come per i parchi una confusa azione incentrata principalmente più su abrogazioni, contenimenti e tagli da cui non è emerso finora un convincete e condiviso disegno davvero riformatore, quella via italiana al federalismo di cui tanto si parla spesso a vanvera. Vengono talvolta riproposte vecchie ricette già a suo tempo scartate e quando -raramente- messe in pratica presto riviste e riconsiderate. Vale per le province, i comprensori, le comunità montane, i consigli di quartiere e in tempi più recenti i bacini ed anche i parchi. Anche nuovi soggetti da tempo previsti e confermati dalle leggi ormai da anni come le aree metropolitane sono rimaste al palo e molti ritengono che ci rimarranno ancora.
Il nuovo titolo V che avrebbe dovuto ridelineare un governo del territorio capace di raccordarsi meglio con l'unione europea che sottrae spazi alle decisioni nazionali degli stati i quali debbono riuscire ad avvalersi meglio di tutte le potenzialità locali per farle pesare di più e meglio nelle scelte comunitarie le proprie istanze. I parchi e le aree protette anche sotto questo profilo hanno concretamente dimostrato e con risultati apprezzabili e riconosciuti questa capacità di proiettare quanto c'è di più valido e prezioso nella dimensione locale nell'area comunitaria con un ‘ritorno' significativo. Risultati guastati purtroppo dalle troppe inadempienze e infrazioni governative costate peraltro salate al nostro paese.