la società dei beni comuni



La societa' dei beni comuni

Data di pubblicazione: 30.10.2010

Autore: Ravaioli, Carla

Un commento alla raccolta di scritti, promossa e curata da Paolo Cacciari, “La società dei beni comuni”, dedicata a un tema che i partiti della sinistra ufficiale colpevolmente trascura. Liberazione, 28 ottobre 2010

Non molti decenni fa l’acqua era un bene abbondante, un bene gratuito, un bene di tutti. Oggi quasi un milione e mezzo di italiani hanno votato il referendum contro la privatizzazione dell’acqua, e la sua immissione sul mercato come un manufatto o un materiale raro; in tal modo peraltro inserendosi in una vastissima e complessa battaglia su questa materia, in cui molti popoli dei paesi più diversi sono impegnati.

Che cosa è accaduto negli ultimi trenta-quarant’anni a determinare questa situazione? Molte cose sono accadute. Gli umani si sono moltiplicati: ai primi del ‘900 erano circa un miliardo e mezzo, oggi sono quasi sette miliardi, e si parla di 9,2 miliardi per il 2050. Ciò nonostante secondo gli esperti l’acqua del mondo sarebbe ancora sufficiente a soddisfare i bisogni di tutti, se per buona parte non fosse inquinata dall’attività industriale, anch’essa vertiginosamente aumentata e diffusa su tutto il globo; e se l’agricoltura, ancora non molto tempo fa praticata secondo saperi quasi immutati da millenni, non fosse stata anch’essa industrializzata, con una crescita esponenziale del fabbisogno d’acqua e insieme un uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi; cioè con un progressivo inquinamento dell’intero sistema idrico, e conseguentemente del pianeta Terra. Che il mercato abbia colto in questi fatti un’occasione d’oro, e si sia affrettato a imbottigliare questo elemento indispensabile, ma non più così abbondante né incontaminato, rilanciandolo come elisir di lunga vita e perfino garanzia di bellezza, non può stupire: la vicenda si iscrive, in modo del tutto omogeneo e funzionale, nel progressivo imporsi del mercato quale indiscussa priorità e referente dell’intero agire sociale.

Le conseguenze politiche di questo recente mutamento dell’uso dell’acqua, e quindi del mutato rapporto tra umani e acqua, sono tra i temi privilegiati da La società dei beni comuni, un ricco utilissimo libro curato da Paolo Cacciari e appena pubblicato per le Edizioni Carta. Il quale, insieme a una bella introduzione firmata dallo stesso Cacciari, e una premessa elaborata da “Officina delle idee di Rete@Sinistra”, ci offre una vasta panoramica di fatti e riflessioni, relativi a questa recente riscoperta del “bene comune” come valore di alto significato simbolico, sociale, politico. Un discorso che si snoda e via via di arricchisce lungo una ventina di interventi, recanti firme per lo più largamente note (tra cui Gianni Tamino, Riccardo Petrella, Edoardo Salzano, Laura Marchetti, Giuseppe De Marzo, Bruno Amoroso, per ricordarne solo alcune).

Soffermarmi sui singoli articoli, sia pure per rapidi cenni, non mi è ovviamente possibile, non solo per ragioni di spazio, ma per l’estrema varietà di lettura e di “utilizzo” del concetto di “bene comune”, che ne certifica non solo la grande rilevanza, ma la molteplicità dei temi e delle pratiche ad esso riconducibili: ciascuno dei quali da potersi assumere in sé come una sorta di freccia indicativa per un percorso e un obiettivo specifico (sovente infatti divenuto oggetto di impegnate lotte particolari) e però tutti in qualche misura omogenei e convergenti.

Se bene comune è - dovrebbe essere - non solo la natura nella sua totalità e nella sua integrità, indispensabile all’esistere degli umani come di ogni altro vivente, ma anche il diritto di ognuno a fruirne per quanto necessario, ne discende l’esigenza di servizi che lo consentano: come la disponibilità di nutrimento igienicamente sicuro, di aria pulita, di mari e fiumi non inquinati, di un clima più o meno rispondente ai cicli stagionali, e pertanto di una politica che tenda ad assicurare per quanto possibile tutto ciò. Ed è così che al concetto stesso di bene comune non può non appartenere la difesa del paesaggio, nella sua duplice valenza di natura e cultura: e cioè la garanzia di città vivibili, il rifiuto dello stravolgimento di antichi o comunque collaudati assetti urbani, l’impegno contro la stolta realizzazione di opere di pura esibizione di grandeur (vedi Tav, ponte di Messina, e simili); e insieme la possibilità di recupero e rimessa in valore di antiche pratiche e culture, ma anche la certezza di libero accesso al sapere di ogni tipo e livello, e per questa via il recupero e il rilancio del concetto di cittadinanza partecipata, vale a dire la messa in opera di una democrazia il più ampia possibile…ecc. ecc. Il concetto di “bene” occupa di per sé uno spettro di significati e valori praticamente senza limiti: accoppiarlo all’aggettivo “comune” dà il via a orizzonti sterminati, equivalenti a pratiche, ipotesi, aspirazioni, rivendicazioni, esperimenti di proprietà comune e vita collettiva, ecc. ecc. Che è quanto in effetti va accadendo, come questo lavoro a più mani felicemente documenta e considera.

Ma il fatto che tutto ciò oggi si verifichi secondo tante e diverse modalità, sovente spinte fino a un azzardo prossimo al surreale, che dunque il “bene comune”, nelle accezioni e per i fini più diversi, trovi attenzione e impegno, apre un discorso di rilevanza enorme, se appena si considera che “bene comune” (cioè qualcosa da usare al suo meglio in favore della collettività, ma non da possedere individualmente) è un concetto totalmente estraneo, anzi decisamente opposto, alla logica dell’avere, costitutiva della cultura oggi dominante. La quale, secondo la regola del mercato capitalistico, si definisce in base alla categoria dell’“individualismo proprietario”, e nella “quantità”, impostasi come obiettivo primo di ogni agire, pubblico e privato, trova la sua espressione più congrua: fino a equiparare la persona a ciò che possiede, non importa in che modo ottenuto.

E’ evidente che imbattersi nel concetto di “bene comune”, con tutto quanto comporta, può significare, specie per i giovani, un’occasione per la rimessa in causa dell’intero panorama dei rapporti sociali, e spesso anche personali, oggi dominanti e in larga misura più o meno da tutti pigramente riprodotti. E può essere la presa d’atto dell’attuale scadimento di valori civili, sociali, culturali, in un processo di svuotamento della stessa democrazia. Che è quanto in larga misura - seppure spesso confusamente - accade, come buona parte degli interventi di questo libro testimonia.

Tutto ciò meriterebbe forse maggiore attenzione da parte delle sinistre. Perché queste masse, in gran parte composte di giovani, che appunto per i “beni comuni” si organizzano e lottano, non costituiscono potenzialmente la critica più eversiva della società neoliberista? Non sono una forza capace di affiancare le battaglie del lavoro, perseguendo obiettivi nello specifico diversi ma sostanzialmente convergenti? Non sono di fatto “sinistra”?