Re: sindacati, come uscire dall'angolo



affidarsi alla cisl per risolvere i problemi del lavoro è come consegnare le galline alla volpe per avere un uovo.
La cisl è un sindacato giallo, i suoi proclami sono solo fumo per accecare chi vuol tentare una via d'uscita da questa crisi.
Il sindacato si è indebolito perché si è completamente piegato ai desiderata delle imprese e delle multinazionali e cisl è stata una della massime responsabili di questa deriva.
Ci vuol altro per uscire fuori dalla crisi, prima di tutto fare a meno della cisl.
Un saluto
T

Il 29/03/2011 06:35, ANDREA AGOSTINI ha scritto:
da Eguaglianza & Libertà  

Sindacati, come uscire dall’angolo

L’impennata dei debiti pubblici per far fronte alla crisi ha ancor più indebolito il potere contrattuale delle organizzazioni dei lavoratori, ridotte ormai agli “accordi di concessione”, uno scambio ineguale tra occupazione e peggioramento nelle condizioni di lavoro. Bisogna abbandonare l’ostilità al cambiamento e varare una strategia unitaria che abbia tra gli obiettivi anche la produttività
Gianni Italia

I paesi di più antica industrializzazione soffrono tutti di un debito pubblico elevato. Oltre alle altre ragioni storiche che sono diverse da paese a paese il debito è cresciuto a causa dei finanziamenti al sistema del credito per far fronte alla crisi finanziaria recente. Ora le politiche economiche che vengono adottate sono orientate alla riduzione del debito operando attraverso l’adozione di vincoli definiti per legge addirittura di livello costituzionale . E’ questa la proposta che il governo tedesco ha lanciato ai governi dei paesi dell’Unione Europea che hanno adottato la moneta unica. Anche se tale misura non venisse introdotta come vincolo per tutti i paesi dell’eurozona è prevedibile che verranno adottati più severi vicoli di bilancio. Si stanno precisando interventi di contenimento della spesa pubblica quali il blocco delle indicizzazioni, l’interveto sui sistemi pensionistici e altri provvedimenti.
 
Nel frattempo sono già state adottate misure severe che hanno comportato il blocco dei salari per i dipendenti pubblici e manomissioni che hanno teso a limitare il potere contrattuale del sindacato oltre a tagli indiscriminati allo Stato sociale. C’è nei paesi industrializzati una sorta di rigetto delle libertà sindacali nonostante che presso l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, una istituzione tripartita che raggruppa governi, sindacati e datori di lavoro, sia stata adottata due anni fa una risoluzione dal significativo titolo “Decent work , Decent life”. Una risoluzione che, considerando le carenze registrate dalla dimensione sociale della globalizzazione, impegnava le parti a porvi rimedio dedicando ad essa le risorse provenienti dai vantaggi accumulati dagli Stati e dalle imprese per migliorare sia la qualità del lavoro che i sistemi di welfare.
 
Siamo però in presenza di un forte indebolimento del potere sindacale nei paesi industrializzati e di una debolezza ancora più grande con forti limitazioni alle stesse libertà sindacali nei cosiddetti BRIC. Tra questi solo il Brasile ha un forte sindacato, radicato nei luoghi di lavoro ma gravemente condizionato da una legge che ne limita il potere negoziale. E’ un dato di fatto che con la globalizzazione la riduzione di potere in campo economico degli Stati nazionali si riflette negativamente anche sul sindacato, che fatica a confrontarsi con le aziende multinazionali, grandi o piccole che siano.
 
La politica sindacale è per queste ragioni dominata dai cosiddetti “accordi di concessione”, che si traducono in uno scambio ineguale tra garanzie per l’occupazione e peggioramento nelle condizioni di lavoro e delle prestazioni dello Stato sociale. Ci sono situazioni come quelle di alcuni Stati Usa dove i governatori vogliono eliminare per legge i diritti di contrattazione per i sindacati dei lavoratori pubblici e invocano a sostegno di questa posizione l’obbligo federale del pareggio di bilancio.
 
Nella sostanza di fronte a debiti pubblici elevati si adottano da parte dei governi misure che riducono le prestazioni dello Stato sociale, limitano la contrattazione sindacale e accrescono la pressione fiscale e parafiscale su lavoratori e pensionati. Anche il governo italiano è da tempo entrato in questa logica e il sindacato confederale, diviso, non è in grado di andare oltre a  timide e sterili proteste (Cisl e Uil) o a vigorosi, ma poco produttivi, scioperi generali (Cgil)
 
E’ necessario che il sindacato confederale italiano esca da sterili contrapposizioni e ritrovi la volontà di ricerca di una strategia unitaria per incidere sulla gravissima situazione attuale. Senza una unità di azione condivisa non si va da nessuna parte e a farne le spese sono i lavoratori e i pensionati. Tre i temi da inserire in questa ipotesi di nuova convergenza interconfederale: il lavoro, la produttività e le relazioni industriali.
 
Operare a favore del lavoro vuol dire partire dal dato di fatto che per molto tempo saremo accompagnati, se non si interviene con decisione, da tassi di disoccupazione crescenti come ci viene periodicamente confermato dalle statistiche ufficiali. Dati ai quali vanno aggiunte le percentuali di coloro che sono “scoraggiati” e di quelli godono di trattamenti di cassa integrazione in “deroga” ma sono candidati al licenziamento in quanto il loro posto di lavoro non esiste più. Cosa ostacola una decisa azione sindacale e politica per una diversa ripartizione del lavoro attraverso la riduzione degli orari se non la mancanza di coraggio e di fantasia? La misura è necessaria per rendere efficace l’assorbimento  della disoccupazione. Gli esempi positivi non mancano sia per i risultati raggiunti con le riduzioni di orario a livello aziendale (Volkswagen) che per effetto della legge come in Francia.  Se si riduce l’orario a livello aziendale nel caso di crisi, come avviene per i “contratti di solidarietà”, a maggior ragione si potrà ridurre l’orario con profitto per l’occupazione quando le aziende sono produttive e in espansione! Se non si ripartisce il lavoro quando scarseggia quando si potrà farlo? Su questo problema E&L ha da tempo posto l’urgenza di decisioni coerenti con la gravità della situazione.
 
C’è un ulteriore e allarmante aspetto del lavoro che va urgentemente affrontato ed è il degrado della sua qualità. L’effetto della disoccupazione, specie –  ma non solo – quella giovanile e la crescita abnorme del lavoro a tempo determinato e dei cosiddetti contratti “atipici” incidono negativamente sulla qualità della forza lavoro e disperdono il bagaglio professionale dei giovani. Questo in ragione anche del fatto che quasi sempre questi contratti sono offerti per prestazioni dequalificate e inoltre le aziende, a causa della precarietà dell’impiego, non promuovono nessuna formazione sul lavoro. I giovani perdono per questo la formazione scolastica precedente senza acquisire altre capacità professionali. Anche la formazione dei lavoratori in generale durante la vita lavorativa è scarsa. I fondi interprofessionali, finanziati con il prelievo dello 0,30% del monte salari aziendale al quale si aggiunge il finanziamento pubblico, hanno la funzione di finanziare i programmi di formazione professionale a livello aziendale. Ma essi non sono in grado di spendere che una minima parte delle risorse che incamerano per le limitate richieste che ricevono dalle aziende. Cattiva volontà, scarsa capacità di previsione dei fabbisogni qualitativi in termini professionali dei propri lavoratori da parte delle aziende, insignificanza della pressione sindacali sul tema, fanno sì che una buona intuizione e soprattutto le ingenti risorse che se ben spese sarebbero utilissime per i lavoratori rischiano una gestione burocratica e il probabile fallimento.
 
Sulla qualità delle competenze dei lavoratori incide anche il funzionamento della scuola e dell’apprendimento. L’Italia è tra i paesi con i più alti gradi di abbandoni degli studi tra i 27 paesi della Ue. Il 19,2% dei ragazzi nel 2009 hanno lasciato la scuola e non vi faranno presumibilmente ritorno in futuro. Il 12,3% hanno abbandonato gli istituti di secondo grado superiore alla fine del primo e secondo anno. La rilevazione 2009 di Eurostat relega l’Italia al quartultimo posto tra i paesi della Ue per la percentuale di popolazione tra i 30 e i 34 anni che ha conseguito la laurea: solo il 19% mentre la media Ue è al 32,2%. Sono dati che disegnano un futuro di competenze scarse che incideranno sulla competitività dell’apparato produttivo e amministrativo italiano. Si dovrebbe operare uno sforzo eccezionale per recuperare questi svantaggi attraverso un allargamento del diritto allo studio. Ma la politica scolastica va nella direzione opposta a questa basilare necessità. Ed è questo il punto dal quale partire per il miglioramento della posizione competitiva del nostro paese. In particolare per i lavoratori, in contemporanea con la riduzione degli orari che già viene operata con la cassa integrazione in deroga, si potrebbe lanciare l’obiettivo,  facendo rivivere le esperienze del passato come le “150 ore”, del conseguimento della laurea e della licenza di istituti tecnici superiori per migliaia di persone. Anche allora ci fu una convergenza tra sindacato ,associazioni datoriali, provveditorati agli studi, università, ministero e insegnanti che, per anni, consentì un grande successo per l’iniziativa che portò alla licenza media decine di migliaia di lavoratori.
 
La scarsa produttività è un altro aspetto che caratterizza la situazione del paese. Scarsa produttività dell’industria e dei servizi e ancor di più della pubblica amministrazione. Allo scopo, in questo ultimo settore, non è servita la introduzione dei tornelli all’ingresso dei ministeri, cari al ministro Brunetta, né le indicazioni per una struttura del salario che premiasse il merito. Al contrario con l’ultimo accordo separato nel comparto di Cisl e Uil, senza la Cgil, si sono ripristinati gli scatti di anzianità e i livelli stipendiali uguali per tutti. Ma è chiaro da tempo, come molti autorevoli studi hanno dimostrato, che una amministrazione pubblica efficiente non si ottiene con palliativi ma con un intervento in profondità sulla organizzazione del lavoro e sulla pianificazione. Ambedue argomenti indigesti alla dirigenza pubblica che è abbarbica nella difesa della procedura e della norma e che è ormai vittoriosa anche contro i “novisti” alla Brunetta oltre che culturalmente egemone nei sindacati confederali.
 
C’è da domandarsi come i sindacati del settore possano continuare con l’immobilismo e con l’ostilità verso ogni cambiamento. Non basta certamente la constatazione magari compiaciuta che la dinamica dei salari dei lavoratori pubblici è stata superiore negli anni scorsi a quella dei settori esposti alla concorrenza internazionale perché il cambio del vento si è già sentito con il blocco contrattuale deciso dal governo mesi fa. In ogni caso il freno alla spesa pubblica continuerà e più forte se passeranno le indicazioni tedesche che trovano concorde il nostro ministro dell’Economia. Una decisa azione riformatrice che produca una crescita della produttività nel settore pubblico conviene ai sindacati per essere più forti contrattualmente e fa bene al paese per uscire dalle angustie della crescita attuale.
 
Mentre si aspettano risposte su questo tema è urgente affrontare il problema della produttività nel settore privato ed esposto alla concorrenza internazionale. La questione è decisiva per la competitività dell’industria e dei servizi e quindi per la crescita economica del paese ma lo è anche per il sindacato. E non solo per l’ovvia constatazione che ciò produrrebbe benefici riflessi sull’occupazione, ma anche perché migliorerebbe la posizione contrattuale dei sindacati e con questa la crescita auspicabile dei salari in un contesto non inflazionistico. Per intervenire efficacemente è necessario affrontare il problema nei luoghi di lavoro, non certo con discorsi sull’azionariato dei lavoratori e simili fumisterie. La partecipazione a livello aziendale ha un campo di lavoro importante se si occupa del miglioramento delle pratiche operative e dell’organizzazione del lavoro anche per la crescita della produttività. Era questo un terreno sul quale il sindacato, specie industriale, aveva fatto nel passato (ma quanti anni sono alle nostre spalle!) esperienze significative in molti settori.
 
Esperienze internazionali hanno prodotto miglioramenti organizzativi con rilevanti effetti positivi sulla produttività e sulle condizioni di lavoro e sono ormai adottati su larga scala in particolare nel settore dell’auto. Come è stato autorevolmente sostenuto anche recentemente, a margine di un convegno sulle recenti intese alla Fiat, ci sono ampi margini di miglioramento nella organizzazione del lavoro e della produzione, non solo nelle grandi aziende ma anche nelle medie e nelle piccole aziende che avrebbero positivi riflessi sulla crescita della produttività. La adozione di organizzazioni della produzione più efficaci possono essere il risultato di un dialogo a livello aziendale tra lavoratori e gerarchie che potrebbe essere incentivato dalla contrattazione aziendale sia sugli strumenti per tale dialogo sia sui risultati economici al raggiungimento degli obiettivi congiuntamente prefissati. Se si vuol evitare che anche con l’aiuto degli sgravi fiscali introdotti su un indistinto e largamente discrezionale salario di produttività siano le direzioni aziendali a promuovere la partecipazione dei lavoratori attraverso metodi di coinvolgimento che non riconoscono un ruolo positivo alla contrattazione collettiva è necessario che il sindacato abbia una propria idea della partecipazione e delle sue finalità, tra le quali, insieme al miglioramento della produttività, ci può essere la crescita professionale e il riconoscimento ai lavoratori di un ruolo non subalterno nell’impresa.
 
Antagonismo o docile coinvolgimento sono entrambi modalità che riducono il ruolo del sindacato nelle aziende alla testimonianza o alla subalternità: in entrambi i casi in posizione marginale. Ma questo è un vantaggio effimero per l’impresa in quanto marginalizza l’incidenza positiva sul processo produttivo di quella che per una stagione è stata chiamata la “risorsa lavoro”. La valorizzazione della contrattazione nella sua dimensione autonoma e collettiva attraverso il  sindacato a livello aziendale può essere un fattore positivo per creare un clima costruttivo e favorevole alla partecipazione con positivi riflessi sulla partecipazione. Anche qui l’esperienza tedesca insegna sia alle imprese che al sindacato italiano.
 
Fino ad ora la Confindustria e le altre organizzazione datoriali hanno mantenuto una posizione quantomeno ambigua sulla partecipazione dei lavoratori nell’impresa. Essa viene considerata una evenienza possibile ma non un scelta sulla quale investire e cosi è la situazione a livello aziendale. Anche la reazione dei vertici confindustriali verso le proposte di legge presentate in Parlamento, nonostante la loro impostazione che si incentra sulla volontarietà della scelta partecipativa, è negativa e in ogni caso contraria ad una eventuale legge di sostegno.
 
Il sindacato è anch’esso impastoiato tra proclami più che altro ideologici e che spesso vertono su contenuti partecipativi che sono scarsamente incentrati sul ruolo dei lavoratori nel impresa e nei processi produttivi e una incapacità di mettere a frutto i pochi spazi contrattuali acquisiti.
 
L’aspetto in questione è rappresentato dallo spazio che si vuol dare alle relazioni industriali nel sistema produttivo. Se cioè si considerano una risorsa ai fini della crescita e lo strumento attraverso il quale si garantisce un equilibrio redistributivo equo della produttività, dove equo vuol dire contrattato tra le parti secondo regole condivise. Per questo insieme di problemi è necessaria una profonda riflessione sulle forme ma anche sugli obiettivi delle rappresentanze dei lavoratori e dei sindacati a livello aziendale. Il negoziato che dovrebbe aprirsi con la Confindustria, previo accordo tra Cgil, Cisl e Uil, dovrebbe essere favorevole a riconsiderare tutta la materia delle relazioni industriali e quindi in modo più ampio dello stesso documento unitario del 2008. L’accordo del 2009, non sottoscritto dalla Cgil, aveva lasciato la questione delle regole delle rappresentanze fuori da quella intesa “separata”. A questo fine appare utile tentare strade nuove definendo assetti delle rappresentanze aziendali specializzate. Riprendendo una intuizione nata nell’ambito del gruppo di Torino, che tra le altre cose favorì l’accordo sulle Rsu del 1993, si può immaginare un organismo sindacale con compiti partecipativi eletto da tutti i lavoratori e un secondo organismo eletto su liste sindacali dai soli iscritti con compiti di contrattazione e gestione contrattuale a livello aziendale.
 
La necessità di una convergenza tra le Confederazione è sotto gli occhi di tutti e soprattutto è la sola garanzia di una più efficace tutela dei lavoratori. Tale intesa non può avere come unico scopo le regole di comportamento intra-sindacati e quindi facilitare una competitività negativa anche se meglio regolata, cosa di per sé necessaria ma non sufficiente, ma dovrebbe misurarsi con una strategia sindacale di più ampio respiro. E’ chiaro che i rapporti attuali tra le Confederazioni sono tali che immaginare a breve un ritorno alla saggezza risulta difficile ma una strategia costituente per un rinnovato ruolo dei sindacati e dei lavoratori nella società italiana va comunque perseguita da coloro che non sono stati contagiati dalla partigianeria e hanno a cuore le sorti del sindacato e dei lavoratori.
(19/03/2011)

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