solidarietà e deriva europea



Deriva europea
Data di pubblicazione: 10.05.2011

Autore: Viale, Guido

Una sacrosanta invettiva contro il razzismo del Nord del mondo, e in
particolare dei nostri paesi (l'Italia e lì Europa), emerso cion nefanda
chiarezza nella gestione dei migranti
. Il manifesto, 10 maggio 2011

Volevano liberare il territorio patrio, e quello delle nazioni conquistate -
il loro Lebensraum - dalla presenza degli ebrei; per impedire che gli
contaminassero razza e costumi; ma non pensavano ancora allo sterminio.
Prima avevano cercato di chiuderli nei ghetti: ma «loro» erano troppi e
ancora troppo visibili. E si erano resi conto che con i pogrom - famoso è
quello della notte dei cristalli - non avrebbero mai risolto il «loro»
problema. Poi avevano pensato di deportarli in un paese lontano, in
Madagascar; ma era troppo difficile, soprattutto in tempo di guerra. Allora
hanno cominciato a ucciderli dove li avevano appena rastrellati, fucilandoli
sull'orlo delle fosse comuni che gli avevano fatto scavare. Ma lo spettacolo
era sconvolgente e gli schizzi di sangue gli macchiavano le divise. Alla
fine hanno inventato le camere a gas e i campi di sterminio: un sistema
«asettico», dove hanno convogliato per sopprimerli sei milioni di ebrei. È
la storia della Shoah.

Anche noi - sembra - dobbiamo preservare i nostri territori dall'invasione
di popoli inferiori ed estranei alle nostre radici giudaico-cristiane. Prima
abbiamo usato una legislazione ad hoc e le questure, equiparando la loro
esistenza a un crimine e vessandoli in ogni modo con la speranza che se ne
andassero. Non ha avuto successo. Poi abbiamo cominciato a internarli in
vere e proprie galere, fingendo che fossero luoghi di transito. Ma le hanno
riempite tutte subito; e gli altri sono rimasti fuori. Poi siamo andati a
bruciare i loro campi e le loro catapecchie, sotto la guida della Lega nelle
città del Nord e della camorra in quelle del Sud; o a radere al suolo con i
bulldozer campi e fabbriche dismesse dove si insediano sotto la guida di
molti sindaci sia del Nord che del Sud; ma ritornano sempre, accampandosi da
qualche altra parte. Per questo abbiamo pensato di affidare ai nostri
dirimpettai del Mediterraneo, pagandoli, blandendoli e sottoponendoci a
umilianti rituali - senza però mai trascurare gli affari - il compito di
fermarli prima che toccassero il nostro bagnasciuga. Erano campi di
sterminio quelli che finanziavamo, anche se lo sterminio era affidato alle
angherie di svariate polizie e non a un'organizzazione scientifica come
quella dei Lager. Poi la diga si è rotta e quelli che avevamo addestrato
perché li bloccassero si sono messi ad organizzare le loro partenze in
massa.

Così ci siamo ritrovati in guerra contro il tiranno che avevamo blandito
fino al giorno prima. Abbiamo anche provato a rimandarli indietro: in aereo,
in nave, in treno; o a spedirli oltre frontiera, sperando che se li
prendesse qualcun altro; ma è come svuotare il mare con un secchiello. Alla
fine qualcuno ha proposto di sparare direttamente sui barconi per
affondarli: in un mare che nel corso degli anni ha già inghiottito
trentamila migranti. Niente di più facile, d'altronde: sfiorano sui loro
barconi con i motori in avaria le navi che bombardano le truppe di Gheddafi
(ben armate, queste, dalla nostra industria bellica); e quelle nemmeno si
accostano per raccoglierli. Quale sarà, allora, il prossimo passo di questa
deriva?

La politica dei respingimenti è fallita sotto i nostri occhi. Il governo
italiano aveva pensato di poterla perseguire per conto suo, in combutta con
Gheddafi, per non renderne conto ai partner dell'Ue, a suo tempo definita
«Forcolandia» per aver promosso una legislazione antirazzista sgradita alla
Lega (bei tempi! Oggi l'Unione accetta senza fiatare la nuova costituzione
ungherese, che del razzismo è un'epitome). Adesso il governo italiano piange
perché i paesi che aveva appena finito di insultare non vogliono condividere
il «fardello» caduto addosso al povero ministro Maroni, diventato in poco
tempo il nemico numero uno della sua base più incarognita. Ma sulle menzogne
della politica dei respingimenti sono stati costruiti per anni successi
politici truffaldini e maggioranze di governo ad personam. E carriere ancora
più facili di quelle delle tante ragazze trasformate in ministro,
parlamentare, consigliere regionale o dirigente politico per aver fatto
sesso con Berlusconi. Pensate al «Trota», il figlio di Bossi, diventato
consigliere regionale dopo ben tre bocciature negli esamifici più screditati
della Padania, che nel suo curriculum aveva solo un videogioco intitolato
«Rimbalza il clandestino». Forse che - progressi tecnologici a parte - film
e libri come Süss l'Ebreo, che hanno spianato la strada alla Shoah, avevano
un'ispirazione diversa?

Purtroppo, in questa deriva l'Italia non è che l'avanguardia di un processo
che sta investendo tutta l'Europa, mettendo alle corde tanto la sua politica
(la capacità di scelte condivise), quanto il suo bagaglio culturale:
esattamente come a suo tempo il razzismo antiebraico (largamente recepito
sia ad est che ad ovest della Germania nazista) aveva sconfessato secoli di
cultura tedesca e sprofondato il suo popolo in una vergogna che l'oblio non
ha ancora sanato. L'Italia e l'Europa, peraltro, possono ancora incattivire
parecchio: la strada verso una qualche «soluzione finale» è ancora lunga. Ma
è già tracciata fin da quando Oriana Fallaci è assurta al ruolo di profeta
della nuova Europa razzista.

Dunque è chiaro, anche se tutt'altro che evidente e condiviso, che al di là
dei successi elettorali e delle facili carriere, la politica dei
respingimenti non paga. Con essa l'Italia e l'Europa stanno rapidamente
perdendo ogni posizione di vantaggio nell'arena della democrazia. L'alba di
un rovesciamento delle parti già si intravvede: in Tunisia, in Egitto, in
Siria, in Barhein, in Algeria; forse persino in Yemen; là dove un popolo di
giovani scolarizzati e disoccupati sta riuscendo in quello che in Italia non
riusciamo più a fare e molti di noi nemmeno a sperare: liberarsi da una
tirannia mascherata da democrazia: niente di molto diverso dai regimi di Ben
Alì, Mubarak o Assad.

Ma la storia avrebbe potuto imboccare, e forse può ancora imboccare,
un'altra strada. Se respingere è irrealizzabile, e le conseguenze sono un
danno per tutti, bisogna attrezzarsi per accogliere. Agire come se vivessimo
in un'unica grande «patria» (non la «nazione», continuamente invocata a
sproposito da Ernesto Galli della Loggia; e nemmeno uno Stato, nazionale o
sovranazionale, che è da tempo un organo senza più poteri, ma solo con
funzioni di copertura e saccheggio); bensì un'area di relazioni in grado di
arricchire tutti: chi è qui e chi resta là. Una società dove a tutti venga
offerto un ricovero e un'alimentazione decente (non sarebbe un grande
sforzo: in Italia siamo soffocati dal cemento e buttiamo via quasi metà
degli alimenti che compriamo). Un'integrazione fondata sull'accesso alla
scuola e all'educazione di tutti, fornita dei supporti necessari per fare di
ogni allievo, bimbo, giovane o adulto, un veicolo di reciproca accettazione.
Un'economia aperta a tutti su un piede di parità: dove venga meno la
possibilità di sfruttare il lavoro irregolare, ma anche il «vantaggio
competitivo» di chi lavora in condizioni e per salari indecenti perché è
irregolare (nella clandestinità c'è sempre posto per tutti; anche ai livelli
di vita più degradati; per questo è una «calamita» di disperati. Ma quando
si aprono le porte agli ingressi è possibile che molti, ai rischi di una
traversata pericolosa preferiscano aspettare un secondo turno, se turni ci
sono; anche se i turni, ovviamente, non sono la risposta ai problemi più
urgenti). E poi, una produzione sostenibile e replicabile: per poter fare
anche là, senza dipendere più di tanto da aiuti o capitali stranieri, quello
che si potrebbe imparare a fare qua: con le energie rinnovabili, la piena
utilizzazione delle risorse locali, la sovranità alimentare, la cura del
territorio, la valorizzazione del patrimonio culturale; tante «cose» che
rendono produttivi anche e soprattutto i rapporti interpersonali. Non ci
sono solo profughi alla ricerca di un futuro; ci sono anche molti migranti
che hanno imparato un mestiere, costruito un'impresa, creato una rete di
relazioni; pronti a riportare nel paese di origine il piccolo o grande
«capitale umano» che hanno acquisito. Certo sono meno di quelli che
arrivano; ma possono essere un vettore di uno «sviluppo più sostenibile»,
che nessun programma di cooperazione ministeriale potrà mai realizzare.

Un approccio del genere è mancato per una nostra debolezza culturale. Eppure
avrebbe potuto accelerare la democratizzazione in corso in molti paesi del
Mediterraneo; rallentare la spinta all'emigrazione (forse non quella
sospinta dalla miseria e dalle guerre; ma certamente quella promossa dalla
curiosità per una vita diversa); promuovere desideri di un ritorno in patria
in migranti portatori di un nuovo corredo di professionalità, di conoscenze,
di esperienze e persino di capitali. Soprattutto, avrebbe potuto, e ancora
potrebbe, fare dell'Europa e del bacino del Mediterraneo un'unica grande
comunità.