[Economia] la città un ecosistema di beni comuni



La città. Un ecosistema di beni comuni
da eddyburg

"Urbanistica e pianificazione"

La città. Un ecosistema di beni comuni
di Piero Bevilacqua
26 Dicembre 2013 71

Perchè e come, e a che prezzo, i saperi e le prassi  urbani hanno
dimenticato la natura, il fondamento materiale dell'esistenza dell'habitat
della società. Un contributo al convegno  "ricostruire la città", Società
dei territoriali sto/e, Roma, 17-18 gennaio 2014

Le risorse e il mercato

Che la città nasca, si conservi e si sviluppi all'interno di una rete di
condizionamenti ambientali è una conquista sorprendentemente recente del
pensiero sociale. Solo il progredire, negli ultimi decenni, della cultura
ambientalistica e - per il nostro caso - dell'ecologia urbana, hanno
cominciato a disvelare ciò che a lungo la cultura dominante aveva tenuto
nascosto. Vale a dire i vincoli di risorse e le condizioni di habitat entro
cui sono sorte e vivono le città. E non a caso le ragioni di un così lungo e
perdurante occultamento risiedono nelle condizioni materiali del loro stesso
successo, della loro espansione: in primo luogo il mercato. Se noi ci
accostiamo alla grande analisi storico-sociologica che si occupa della città
e delle sue ragioni fondative, restiamo oggi colpiti dalla centralità con
cui il mercato viene assunto quasi a principio generatore dello spazio
urbano. Nel suo saggio Die Stadt pubblicato postumo (1921), Max Weber, dopo
aver messo in rilievo le condizioni politiche che in genere presiedono alla
nascita delle le città antiche o medievali, non ha dubbi sul fatto che,
condizione essenziale « perché si possa parlare di "città" è l'esistenza nel
luogo dell'insediamento di uno scambio di prodotti - non soltanto
occasionale ma regolare - quale elemento essenziale del profitto e della
copertura del fabbisogno degli abitanti:l'esistenza di un mercato »
Anche allorquando gli studiosi prendono in considerazione una delle risorse
naturali più ovvie, condizione imprescindibile per la nascita e la vita di
un aggregato di popolazione, l'acqua di un fiume, ne sottolineano il rilievo
quale infrastruttura ideale per i flussi di mercato. E' il caso, ad esempio,
di un studioso come Lewis Mumford, attento agli aspetti sistemici del mondo
urbano e tutt'altro che indifferente agli aspetti ambientali della realtà
sociale. Nella sua monumentale La città nella storia - meritoriamente
riproposta ora da Castelvecchi - egli considera il fiume esclusivamente come
« il primo veicolo efficace per il trasporto di massa ». E aggiunge: « Non è
un caso che le prime città siano sorte nelle valli fluviali, e che la loro
ascesa sia contemporanea ai progressi della navigazione, dal fascio
galleggiante di giunchi o di tronchi alla barca mossa dai remi e dalle
vele » Mumford non è solo in questo richiamo del fiume che dimentica la
risorsa acqua:<< Londra dipende dal suo fiume », afferma perentoriamente
Braudel, ma si riferisce ai traffici che esso rende possibili, all'intensa
vita economica che si svolge lungo il Tamigi e soprattutto nell'area della
sua foce.
 Naturalmente, non si tratta di negare il ruolo di mezzo di trasporto dei
corsi d'acqua, peraltro dotati di una loro energia motrice e dunque, per più
versi, prezioso per i bisogni delle popolazioni urbane in età
preindustriale. Ma il trasporto e il commercio rappresentano già una forma
economicamente evoluta della stanzialità urbana, funzionalmente separata
dalla vita agricola. E tuttavia a lungo insufficiente a rendere le città
autonome dalle loro fonti di approvvigionamento, costituite dai territori
agricoli dei loro dintorni.
D'altra parte, prima di commerciare e di spostarsi, i primi cittadini ( ma
anche i secondi e i terzi) dovevano vivere e dunque avevano assoluto bisogno
di bere. Eppure non c'è traccia, anche in grandi storici che si sono
occupati di città, di accenno a tale elementare bisogno della vita, risorsa
imprescindibile dell' umana esistenza. Quasi che il commerciare fosse la
prima condizione della vita urbana e non un suo complemento, spesso uno
stadio successivo di evoluzione. L'acqua, che da risorsa vitale diventa
veicolo di mercato viene cancellata dalla rappresentazione anche come bene
comune. Cosicché la vita, nella ovvietà dei suoi bisogni elementari e delle
sue manifestazioni, diventa degna di nota quando acquista un rilievo
economico. I nostri autori vedono la città popolata di attori economici, al
massimo di soggetti sociali, mai di esseri naturali. Ancora Fernand Braudel,
nel vasto affresco del suo Mediterraneo, che ha insegnato a tutti noi come
la storia si svolga negli spazi fisici delle montagne e delle pianure, non
ha occhi che per le condizioni commerciali dell'esistenza urbana. « Non c'è
città senza mercato e senza strade: esse si nutrono di movimento. »
Forse Braudel è l'autore più esemplare di questa sussunzione dei bisogni
primari e dunque della natura entro le categorie dell'agire economico.
Perché è lo storico più attento ai quadri territoriali in cui si svolge la
storia umana, ma conserva sempre uno sguardo filtrato, che incorpora la
natura e la rende visibile solo come fenomeno economico. Il bere e il
mangiare, elementi fondativi della vita biologica, resi possibili dalla
presenza dell'acqua e del cibo, cioé da fonti, sorgenti, fiumi, pozzi e da
superfici più o meno vaste di terra fertile, sono nella sua ricostruzione e
rappresentazione storica inglobati in rapporti spaziali di commercio o
semplicemente incorporati dentro i meccanismi dell'attività produttiva. E'
sempre l'attività economica dei cittadini o dei contadini a rendere
possibile la vita della città. Ma non accade mai che le risorse naturali
presenti nel territorio costituiscano la condizione perchè quella stessa
attività possa svolgersi con successo. Nel primo volume del suo Civiltà
materiale, economia e capitalismo, già citato, Braudel dedica un capitolo
apposito alla città. In pochi tratti abbiamo un affresco della vita
economica di una miriade di centri piccoli e grandi dell'età preindustriale.
Ma in esso non c'è mai posto per l'acqua e per le forme di
approvvigionamento idrico della popolazione. E tuttavia egli sfiora qualche
nodo rilevante :« Fino a tempi molto recenti ogni città doveva avere il suo
cibo alle sue stesse porte, a portata di mano(...) La campagna, infatti,
deve sostenere la città, se questa non vuole temere ad ogni istante una
carestia: il grande commercio può alimentarla solo eccezionalmente e
parzialmente. Ed è possibile solo per alcune città privilegiate: Firenze,
Bruges, Venezia, Napoli, Roma, Pechino, Istambul, Dehli, La Mecca...»
Indubbia verità, ma Braudel - sulla scorta anche dello storico tedesco delle
crisi agrarie, Wilhelm Abel - ricorda la dipendenza della città dalla
produzione contadina, non la necessità imprescindibile di avere a poca
distanza le terre fertili su cui i contadini potessero svolgere la propria
attività produttiva. Oltretutto, sappiamo con certezza che almeno una delle
città che egli menziona, Napoli, grande porto collegato col mercato del
Regno di cui era capitale e con gli altri centri marittimi del Mediterraneo,
era quotidianamente alimentata dagli orti che aveva intorno. E una più ampia
ricerca mostrerebbe realtà non dissimili anche per le altre città citate
dallo storico francese. La cintura di terre fertili intorno alla città,
destinata agli orti - per non dire dei suoli coltivati dentro gli stessi
nuclei abitati - è stata in realtà condizione di una parte rilevante
dell'approvvigionamento cittadino sino all'età contemporanea. E, aspetto
ancor più significativo per le nostre riflessioni, le città hanno avuto per
millenni un rapporto di scambio organico con le campagne circostanti,
alimentando con i loro rifiuti e deiezioni la fertilità delle terre
intensamente sfruttate. Anche questa una condizione imprescindibile e per
così dire sistemica, della produttività delle terre. E' stato esattamente
tale rapporto simbiotico città/campagna che ha reso possibile quello che un
agronomo tedesco dei primi del '900 definiva il Kreiselauf der Nahrstoffe,
il « circolo delle sostanze nutritive ».Senza di questo i suoli si sarebbero
isteriliti, le città non avrebbero avuto cibo disponibile, se non tramite
flussi d'importazione che solo pochissime di esse - come ricordava Braudel -
si potevano permettere. E con tempestività di approvvigionamento, com'è
facile immaginare, drammaticamente aleatorie. In realtà, quel che oggi
costituisce un problema più o meno grave delle società avanzate, la gestione
dei rifiuti organici - i rifiuti prevalenti in tutte le epoche
preindustriali - faceva tutt'uno con la pratica di fertilizzazione dei suoli
agricoli periurbani. Un legame sistemico su cui sappiamo qualcosa almeno a
partire da Omero, il quale nell'Odissea ricorda che Ulisse, tornato a Itaca,
trovò il su vecchio cane, il fedele Argo, disteso su un mucchio di letame
« di muli e buoi » appena fuori dalle mura, « perché poi lo portassero /i
servi a concimare il grande terreno di Odisseo »

Non sottolineo tali aspetti per la pretesa saccente di rimproverare a
Braudel di non essere stato uno storico dell'ambiente. Ogni epoca ripesca
dal proprio passato il presente di cui avverte più acutamente il bisogno.
Tanto più che Braudel anticipa talora, a modo suo, cioé entro il bozzolo
delle dinamiche economiche, "scoperte" che si renderanno evidenti alla
ricerca storica solo qualche decennio più tardi. E' questo il caso, ad
esempio, dell'approvvigionamento delle fonti di energia calorica. Scrive lo
storico francese:«la legna da bruciare, materiale ingombrante, deve essere a
portata di mano:oltre i trenta chilometri di distanza è rovinoso farla
viaggiare, a meno che il trasporto non avvenga per via d'acqua».
 Più precisamente, da quando si è cominciato a fare storia dell'energia,
abbiamo appreso che le città preindustriali in genere non potevano
letteralmente vivere se non avevano a disposizione, a distanza ravvicinata,
le risorse legnose di un bosco. « Una città di 10.00 abitanti - ricorda
Paolo Malanima - doveva disporre per i soli usi domestici di una riserva
forestale di 50-80 chilometri quadrati». I cittadini, infatti , avevano
bisogno di scaldarsi in inverno, di cucinare i loro cibi quotidiani, di
alimentare le poche attività artigianali (lavorazione del ferro,
fabbricazione di mattoni, ecc) e, senza un apporto costante di legname a
portata di mano, ciò non era possibile. Sappiamo oggi con sicurezza che a
tale condizione sfuggiva più o meno completamente Londra. Già in età
medievale, infatti, la capitale del Regno inglese, che aveva esaurito e
distrutto i boschi un tempo disponibili intorno ad essa, si scaldava
prevalentemente con il carbon fossile: il popolare sea coal, il "carbone
marittimo", detto così perché arrivava via mare da Newcastle.

Ciò che tuttavia colpisce nelle posizioni appena esaminate, è il meccanismo
di rimozione ideologica così superbamente attivo e così nitidamente
rilevabile in queste pur grandi menti. Si tratta di un fenomeno che Marx ci
ha insegnato a disvelare. La scienza si veste dei panni della propria epoca
e tende a eternizzare ciò che è solo una fase storica determinata. Il
millenario assoggettamento della natura all'economia e alla tecnica - e, nel
nostro caso, il suo pieno inglobamento nei modi di produzione
capitalistici - ha finito col cancellarla allo sguardo dell'analisi sociale.
Né gli storici, né i sociologi riescono più a scorgerla. Essa è interamente
dentro la società, "sotto" le sue poderose strutture, e perciò obliata. La
natura, che pur sempre agisce in noi e fuori di noi, diventa così
invisibile.

Riscoprire il sistema

Anche da questi brevi cenni appare evidente come lo sviluppo delle relazioni
commerciali che, nel corso di diversi secoli, ha finito col rendere le città
relativamente indipendenti dalle risorse collocate nel loro territorio, ha
occultato i vincoli sistemici su cui esse sono sorte e a lungo vissute.
Esattamente l'estensione delle reti del mercato - l'elemento di connotazione
urbana più enfatizzato dagli studiosi - ha cancellato le reti che le
legavano alle risorse naturali. Ma in realtà esse hanno solo trasferito e
diluito gli ecosistemi che ne rendevano possibile l'esistenza su un
territorio sempre più vasto. La Londra dell'età moderna, che da tempo si
riforniva di grano, cibo e legname prodotti anche fuori dai suoi confini e
dalla stessa 'Europa, aveva in realtà moltiplicato intorno a sé i territori
da cui trarre le risorse naturali consumate dai suoi cittadini. « Ciò che
Londra divora - ha ricordato Braudel ne I giochi dello scambio - non è solo
l'interno dell 'Inghilterra, ma, per così dire, anche l'esterno, i due terzi
almeno o i tre quarti e forse i quattro quinti del suo commercio estero. ».
Nell''800 il suo ecosistema aveva assunto dimensioni mondiali, dal momento
che, ad esempio, le élite londinesi consumavano correntemente te, cacao,
zuccherro di canna e caffé provenienti dalle colonie. Esso ormai costituiva
il centro di una immensa periferia che era il suo impero transoceanico, si
reggeva e si occultava grazie alle reti di dominio e di sfruttamento dei
territori delle colonie. Potremmo dunque concludere che l'esistenza di una
città delle dimensioni e dei consumi di Londra - a metà Ottocento una delle
più grandi città del pianeta - era resa possibile dall'inglobamento, nelle
sue economie imperiali, di una parte estesa della casa comune della terra.

Ma oggi, nella fase storica in cui il mercato mondiale penetra negli
anfratti più reconditi della vita locale, è ancora visibile un ecosistema
come intelaiatura fondamentale della vita urbana? Mentre le città ricevono
tutto ciò che è loro necessario da territori lontani e anche lontanissimi,
possiamo guardare ad esse come a nuclei di realtà materiale condizionati, se
non dominati, da vincoli naturali costanti e necessari? Si tratta, in
verità, di domande retoriche. L'ecologia urbana della seconda metà del '900
ha messo da tempo in evidenza i caratteri ecosistemici dell'ambiente urbano
con approcci e contributi molteplici, su cui ovviamente non è qui possibile
soffermarsi. Ma le trasformazioni subite dalle città negli ultimi decenni e
il progredire della ricerca continuano ad arricchire la nostra visione
ecologica del mondo urbano.
In realtà, oggi si impone al nostro sguardo una rete ambientale che avvolge
il mondo (non diversa da quella, in continua espansione, delle
comunicazioni) ma tenuta insieme da regole e vincoli ecosistemici. La
osserviamo distintamente man mano che ci liberiamo della scorza
dell'economicismo di cui è incrostato il pensiero sociale contemporaneo.
Allorché scorgiamo l'universalità di beni comuni di cui si compone la città,
là dove prima l'osservatore non scorgeva che un paesaggio di res nullius, o
solo un sistema di domini privati. E a tal fine appare indispensabile
liberare la figura dell'uomo cittadino dalla sua sovrastruttura ideologica
di essere sociale, mero prodotto della storia, fabbro di se stesso tramite
il dominio tecnico sulla natura. Occorre disseppelire, sotto la scorza
secolare dell'homo faber, del costruttore dell'oikos in cui vive, l'essere
naturale che egli è, a dispetto di ogni successo e assoggettamento del mondo
vivente. Guardare all'uomo come essere naturale, ecco ciò che dà al concetto
di ecosistema urbano un significato rinnovato e più profondo, portando alla
luce i beni comuni che lo compongono.
E' tale operazione di disvelamento che ci consente di guardare agli uomini
quali soggetti viventi, membri della "comunità biotica" che popola la
foresta urbana. Ci fa scorgere come essi siano al centro di un ordito nel
quale il loro protagonismo di costruttori di un mondo artificiale è
vincolato e condizionato da una natura onnipresente e insuperabile, benché
antropicamente assoggettata. La città è un ecosistema innanzitutto perché
gli uomini non hanno mai cessato di essere natura.
E' infatti il paradosso del successo totalitario dell'uomo tecnico a
disvelare i legami non resecabili con la realtà biologica. Oggi la città
vive totalmente fuori dai propri confini per aspetti fondamentali della vita
sociale. E' sufficiente por mente all'energia elettrica, al gas, al
petrolio, alle telecomunicazioni che varcano gli oceani, all'informazione
via Internet, per essere tentati di pensare a una città senza più
territorio. E invece il territorio, o per meglio dire l'habitat urbano,
appare oggi, dopo tanto accumulo di dominio, in tutta la sua fragilità
naturale. Lo possiamo osservare tramite varie prove. Pensiamo al rapporto
tra città e dinamiche del clima. Sono ormai parecchi anni che gli episodi
climatici estremi ( alluvioni, tornado, ecc) in varie città del mondo, dagli
USA all'Europa, mostrano come le città non sfuggano al sistema climatico
generale e al suo crescente disordine. Ma occorre individuare un aspetto che
rende specifico e sistemico il rapporto tra calamità e danno agli uomini
all'interno delle città. In Italia questo nesso è ormai evidentissimo, ma è
comune, in varia misura, a seconda della morfologia generale dei territori,
in ogni paese. E' ormai di dominio popolare che la crescente copertura del
suolo con le strutture dell'edificato impedisce in maniera crescente
l'assorbimento dell'acqua piovana. In caso di pioggia intensa - fenomeno che
appare ormai sempre più regolare a tutte le latitudini le strade diventano
fiumi, rovinosi corsi d'acqua e gli abitati vengono allagati come comuni
golene di espansione. Spesso nascosta o cacciata dalla città, l'acqua si
riprende il suo posto allorché gli eventi climatici glielo impongono. Ma è
esattamente nei momenti drammatici delle calamità, che essa ci fa
comprendere una realtà solitamente celata: il territorio urbano non si
esaurisce nello spazio edificato, né tanto meno nel suo centro storico. Essa
è parte di un'area più vasta, fatta di campagne, boschi, terreni
abbandonati, strade, corsi d'acqua di cui ha finito col diventare l'impluvio
sempre più vasto e cementificato. Le città, d'inverno, diventano sempre più
spesso giganteschi impluvi, simili cioé a quello spazio a cielo aperto
all'interno delle case con cui gli antichi Romani raccoglievano le acque
piovane. Lo spazio periferico che un tempo era componente sistemica della
città, perché la riforniva di cibo - era la terra degli orti, che accoglieva
il concime dei rifiuti organici - ora mostra in negativo la sua connessione
insormontabile col nucleo urbano a causa del turbato equilibrio
idrogeologico. Rispetto a quest'area, a questa periferia progressivamente
mangiata dall'urbanesimo, la città appare sempre più come un fattore di
squilibrio sistemico. Essa ha sottratto troppi spazi al naturale processo di
assorbimento e scorrimento delle acque e perciò il suo territorio edificato
finisce per diventare sempre più spesso, il loro improvvisato e disordinato
letto.
D'altra parte, tali fenomeni mettono in evidenza, in maniera più vivida e
allarmante rispetto al passato, alcuni problemi sociali di grande rilevanza,
che svelano un legame prima invisibile tra gli uomini e l'habitat urbano. Ma
al tempo stesso fanno emergere alla consapevolezza generale l'esistenza di
alcuni beni comuni per effetto della loro violazione, della loro messa in
pericolo. E' evidente che l'edificazione diffusa, l'occupazione degli spazi
incolti e coltivati, la restrizione dei territori agricoli periurbani, hanno
riflessi crescenti su un diritto fondamentale dei cittadini: quello della
sicurezza, dell'incolumità della persona. Sicché una occupazione del bene
comune suolo per mano dei singoli privati, che edificano per loro specifico
interesse, si configura sempre più nitidamente come interesse privato in
conflitto con il bene comune della sicurezza di tutti. In caso di piogge
intense le città diventano pericolose per tutti i suoi abitanti. Il danno
particolare che l'uso privato del suolo genera nei confronti
dell'universalità dei cittadini disvela così uno specifico carattere
ecosistemico dell'azione umana in città. Non si possono mutare gli equilibri
naturali di un habitat, pur artificiale, senza effetti e rotture in qualche
punto del sistema. E soprattutto senza conseguenze sul Dedalo ingegnoso che
quel sistema ha costruito. Non si può pensare al territorio come a un mero e
neutro supporto sopra il quale "poggiare" qualunque edificio: esso non è
nudo suolo, appartenente a vari proprietari che pretendono di ricavarvi una
rendita, ma è il frammento di una rete ecosistemica entro la quale siamo
tutti impigliati.
Il rapporto sistemico della città con il suo territorio più o meno prossimo
emerge oggi anche dalla rottura di un equilibrio millenario con la campagna,
cui abbiamo già fatto cenno. Il mutamento drammatico, in qualità e quantità,
della massa dei rifiuti urbani ha creato fenomeni ignoti a tutte le società
del passato. Se un tempo la gran parte delle deiezioni cittadine veniva
utilmente consumata dalle agricolture circostanti in forma di fertilizzanti,
esse formano oggi un'appendice urbana che occupa e inquina territori più o
meno prossimi, con danni alle acque, all'aria, alla salute degli animali e
dei cittadini nelle varie casistiche osservabili in giro per il mondo.
Nell'epoca dell'obsolescenza programmata delle merci, le città, luoghi che
divorano immense quantità di risorse collocate negli habitat più vari della
Terra, che alterano gli equilibri ambientali locali e globali, sono anche
produttori giganteschi di "escrescenze" inquinanti, che divorano altri
habitat, rompono altre reti ed equilibri. Si tratta di un metabolismo sempre
più gigantesco e squilibrato sul lato delle deiezioni. E' vero che la
progressiva sostituzione delle discariche con gli inceneritori ( o con il
trasferimento nei paesi poveri o tecnologicamente meglio attrezzati) ha
diminuito l'impatto territoriale delle escrescenze urbane in varie realtà
nazionali. Spesso, però, ha solo cambiato la natura dell'inquinamento: l'ha
reso prevalentemente areo, difficilmente misurabile nei suoi effetti
sull'aria e sulla salute umana.

Il cielo è di tutti

Non meno noto è diventato il legame sistemico tra il cielo della città, vale
a dire la qualità dell'aria che in essa si respira, e la sua manipolazione,
insieme privata e collettiva, a scopi produttivi e di varia altra natura. Il
sorgere di un rischio per la salute umana, esploso in maniera allarmante
negli ultimi decenni, ha fatto emergere quale bene comune una risorsa vitale
irrinunciabile, fino a pochi decenni fa da tutti ignorata in quanto
illimitata e relativamente integra. L'aria è oggi, sempre di più, un common.
Noi tutti respiriamo l'aria che ci circonda senza pensare ai nostri polmoni,
ma anche senza badare al fatto che essa è natura, che da essa dipende la
nostra vita, e certamente senza chiederci a chi appartiene. Ma l'apparire
della scarsità di questa risorsa, la sua violazione e alterazione ( che
corrisponde a una appropriazione privata dei singoli) fa emergere l'elemento
naturale che rende possibile l'esistenza di tutti e al tempo il suo
carattere di bene collettivo e indivisibile.
 Da qualche tempo la ricerca scientifica ci ha fatto apprendere che l'aria
della città, la quale nel Medioevo rendeva liberi i servi della gleba in
fuga dalle campagne, oggi costituisce uno speciale impasto "fotochimico",
fonte di minaccia e di danno per la salute dei cittadini. In questo
specifico caso appare assai difficile separare l'interesse privato di chi
immette smog nello spazio urbano, usando un proprio mezzo di trasporto, da
chi respira l'aria inquinata mentre cammina per la città. In un gran numero
di casi quel pedone costretto a respirare il cocktail fotochimico di
anidride carbonica , di solfato di zolfo , di particolato e vari altri
inquinanti, il giorno dopo, a bordo della sua auto, sarà tra la schiera
degli inquinatori. Il bene comune dell' aria salubre e il diritto universale
alla salute vengono violati sistematicamente anche da chi quel danno
subisce, a sua volta, in quanto abitante di una città, utente dello spazio
pubblico. Appare qui evidente che la rappresentanza e la difesa del bene
comune salute è affidata a una autorità terza in grado di comporre il
diritto e il bisogno della mobilità dei cittadini con quello di respirare
un'aria non inquinata. Un soggetto pubblico che tra l'altro ha il compito di
tutelare le "minoranze", vale a dire gli anziani, i bambini e tutti coloro
che non sono diretti inquinatori in quanto utenti automobilistici. Tutela
che, com'è noto, negli ultimi anni è stata pressoché abbandonata nelle
grandi città italiane.
E tuttavia appare anche in questo caso ben visibile la configurazione del
mondo urbano quale ecosistema: l'uso privato e collettivo dell'habitat ha
conseguenze sugli attori naturali che lo manipolano e lo abitano, non
diversamente da quanto accade in natura, allorché un qualche agente rompe un
equilibrio consolidato. Se un ambiente acquatico si prosciuga a causa di un
intervento dell'uomo o per una prolungata siccità, la vita degli uccelli,
dei pesci e dei mammiferi che l'abitavano ne viene sconvolta.
E tuttavia, senza che nessuno lo notasse, senza sofisticate elaborazioni
teoriche, sotto il cielo delle città un bene comune fondamentale è stato
storicamente ripartito e regolato con criteri egalitari fra i suoi
innumerevoli fruitori. Com'è noto, lo spazio adibito alla libera
circolazione di uomini e veicoli non conosce significativi impedimenti e
domini privati e particolari. Al contrario lo spostamento su strada è reso
possibile da regole universali che danno pari diritto di movimento a tutti
gli utenti. Quello spazio pubblico è stato infatti ripartito in un
reticolato di possibilità e divieti in cui ciascuno esercita il proprio
diritto a spostarsi rispettando quello degli altri. Il semaforo rosso che
impedisce al singolo utente di transitare all'incrocio è un obbligo che lo
costringe a non considerare lo spazio urbano come un dominio particolare che
può utilizzare a proprio arbitrio. Qualunque sia la potenza e il lusso del
veicolo che guida, qualunque sia il ruolo sociale, la ricchezza, la potenza
gerarchica del guidatore, quel rosso è un impedimento da rispettare. E'
condizione della sua sicurezza e di quella degli altri. Si è tutti alla pari
nello spazio aperto delle strade cittadine. Una grammatica universale si
impone su tutti. Ed è grazie a tale egalitarismo che viene protetto il bene
comune dell'incolumità fisica dei cittadini. Solo i pari diritti di
spostamento di cui godono tutti consentono l'uso ottimale del bene comune
del territorio urbano. Forse e' qui il modello di uso egalitario della
città, del suolo, dell'aria, delle risorse a cui occorrerà uniformarsi in
futuro.

Il tetto che scotta

Lo scenario climatico che le conoscenze scientifiche del nostro tempo hanno
squadernato davanti a noi ci mostrano oggi un altro aspetto di legame
sistemico tra la città, i suoi attori naturali, e il più vasto spazio
planetario. Le città ci fanno sperimentare la nuova mondialità del locale.
Mai come oggi esse erano apparse così nitidamente quali punti interconnessi
di una rete a scala globale. Com'è largamente noto, è lo smog cittadino,
sono gli scarichi urbani e i fumi industriali per produzioni destinate alle
città a determinare una percentuale rilevante di immissione di gas serra
nell'atmosfera. Tutte le città del mondo, centri energivori di varie
dimensioni e potenza, consumano in maniera crescente petrolio e carbone,
alterando il clima atmosferico, surriscaldando il nostro comune tetto di
abitanti della Terra. Il riscaldamento globale, potremmo dire, è figlio del
metabolismo urbano. Anche se l'agricoltura industriale gioca una sua parte
non irrilevante.« Un ettaro di area metropolitana - ha ricordato Virginio
Bettini - consuma 1000 volte più energia di un'area equivalente ad economia
rurale ». E queste città che sono produttrici di calore, tendono a
riscaldare anche il loro delimitato habitat. Le attività produttive e
soprattutto i riscaldamenti domestici e i trasporti, la polvere e gli
scarichi innalzano anche di un grado la temperatura media, con picchi anche
più alti a seconda dei luoghi. Lo stesso ricorso al raffreddamento
artificiale degli interni, nei mesi dell'estate, produce calore all'
esterno. L'uso privato del freddo altera il clima comune cittadino
all'esterno. Il benessere dei singoli contribuisce al disagio collettivo.
Val la pena inoltre osservare che il riscaldamento urbano tende a rafforzare
i suoi effetti per via della stessa manipolazione territoriale che espone le
città agli allagamenti periodici. La scomparsa degli orti periurbani, il
taglio di alberi, la cementificazione diffusa, la cancellazione progressiva
del verde, tutta la multiforme e molecolare attività di consumo dei suoli
incolti, non solo contribuisce alla produzione di carbonio e alla
cancellazione di fonti produttrici di ossigeno, incrementando così il
riscaldamento globale. Essa ha anche un effetto locale e ravvicinato.
Accresce il riscaldamento del clima in città. Estati roventi attendono gli
abitanti dei centri urbani in ogni angolo del mondo. E il clima, sotto la
minaccia della sua grave alterazione, immaginato per tutta la precedente
storia umana come non condizionabile dalla nostra azione, è un bene comune
sempre più prezioso per le nostre sorti. E anch'esso mostra come l'azione di
alterazione degli habitat da parte dei singoli, fino ad oggi iscritta
dall'ideologia dominante nel regno intangibile della libertà, opera nei
fatti in danno crescente del bene comune del clima, contribuisce a rendere
rovente il tetto della casa comune.
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