La Stampa - Oaxaca, 5 mesi di rivolta (fwd)




    Reportage pubblicato dal quotidiano La Stampa di
Torino  del 23 novembre 2006
Reportage - Oaxaca, 5 mesi di rivolta - Messico in  fiamme
- Alla scoperta del nuovo Chiapas
Gennaro Carotenuto - OAXACA  (MESSICO)
Lunedì cinquantotto feriti, alcuni gravi, in scontri con la
Polizia  Federale Preventiva (PFP). Martedì trenta uomini
armati hanno fatto irruzione  nell'atrio della chiesa di
Santo Domingo de Guzmán. Hanno incendiato e distrutto
l'accampamento principale della APPO, l'Assemblea Popolare
dei Popoli di Oaxaca,  che da maggio esige le dimissioni del
governatore dello Stato, Ulisses Ruiz,  leader del Partito
Rivoluzionario Istituzionale, il PRI, che ha governato il
Messico per settant'anni. Nell'accampamento dormivano solo
quindici persone e  non ci sono stati feriti ma, secondo
César Mateos, uno dei portavoce della APPO,  gli assalitori
erano elementi in abiti civili della polizia locale, che fa
capo  a Ruiz e che è considerata da molteplici osservatori
indipendenti come  responsabile di almeno quattordici dei
diciassette morti ad Oaxaca dall'inizio  del conflitto,
cinque mesi fa. Ne è convinta Sara Méndez Morales,
responsabile  della Rete oaxaqueña per i diritti umani: «Dei
17 morti registrati finora, 16  sono membri o vicini o
familiari di membri della APPO; 14 sono stati uccisi da
sicari, sgozzati, o morti a causa di pallottole sparate da
civili riconducibili  al governatore Ruiz verso abitazioni
civili, installazioni o barricate. Due sono  morti negli
scontri di fine ottobre a causa di colpi sparati dalla PFP e
un  morto risultava essere membro del PRI». Solo per
l'assassinio del cameramen di  Indymedia e cittadino
statunitense Brad Will sono attualmente detenute due
persone, un assessore comunale del PRI ed un poliziotto. Per
i 16 morti  messicani, invece, non ci sono responsabili.
Il movimento di Oaxaca nasce lo scorso maggio come
conflitto sindacale. Oaxaca è il penultimo stato al sud del
Messico, prima del  Chiapas e del confine con il Guatemala e
il Belize. È lo stato di Puerto  Escondido, ma è anche lo
stato a maggiore popolazione ed organizzazione  indigena,
più dello stesso Chiapas, culla del movimento zapatista.
Settantamila  maestri - sindacalizzati e rispettati nel
tessuto sociale - scendono in sciopero  contro l'infimo
trattamento economico. L'unica risposta delle istituzioni è
la  repressione. Ma il movimento non si arrende, si rafforza
e si struttura. «Non  poteva succedere in un altro posto che
non fosse Oaxaca - ci dice Miguel  Álvarez, mediatore nel
conflitto come esponente della ONG cattolica Serapaz -  dove
i movimenti indigeni e la stessa società civile hanno
esperienza di potere  e possono contare su migliaia di
quadri».
Così da un conflitto sindacale, soprattutto dopo il 2
luglio, con l'elezione contestata di Felipe Calderón del
Partito di Azione  Nazionale, a Presidente della Repubblica,
il movimento dei maestri si trasforma  in un laboratorio
politico che mette in discussione le istituzioni stesse.
Centinaia di organizzazioni politiche e sindacali si
ritrovano sotto le bandiere  dell'Assemblea Popolare dei
Popoli di Oaxaca. Tatiana Pérez, una studentessa che  la
scorsa settimana ha preso parte al Congresso costituente
della APPO, ne  racconta i colori: «Ogni popolo indigeno,
ogni organizzazione ha portato i  propri vessilli, bandiere,
striscioni. Centinaia di entità hanno espresso 1.632
delegati, dei quali oltre mille hanno parlato». Per il
momento sono d'accordo su  quello che non vogliono più. «Il
governo centrale -prosegue Álvarez- ha commesso  un grave
errore a non trattare quando ancora era possibile. Adesso si
ritrova  con un movimento monolitico nella diversità, che
configura una vera e propria  unità nazionale messicana
contro il neoliberismo».
Contro un movimento così ampio la Polizia federale, inviata
da Vicente Fox  alla fine di ottobre con oltre 4.000
effettivi, che facevano presagire un  assedio medievale
simile a quello registrato in maggio ad Atenco, un sobborgo
della capitale, ha agito con prudenza. Solo per poche ore ha
violato la sede  dell'Università e fatto tacere la voce di
«Radio Universidad». Questa ha  coordinato per giorni le
centinaia di barricate montate dalla popolazione nella
città che, applicando spesso modelli di resistenza passiva,
ha impedito il  passaggio alle forze dell'ordine.
Alcuni gruppi giovanili hanno sfidato con violenza la PFP
ma la maggioranza,  anziani, indigeni, casalinghe, ha fatto
propri senza indietreggiare strumenti di  lotta pacifica. Ha
difeso radio, accampamenti, Università, barricate. Il bagno
di sangue temuto, per ora, non c'è stato. Ruiz ha rifiutato
un appello del  Parlamento - votato da una maggioranza
trasversale del PAN e del partito di  centrosinistra del PRD
- che gli chiedeva di dimettersi: «Solo dio può concedere  o
togliere mandati politici».
Abbiamo domandato a Samuel Ruiz, già vescovo del Chiapas
che portò alla  tregua tra zapatisti ed esercito nel 1994
dopo appena 11 giorni di guerra, a  Carmen Lira, direttrice
del quotidiano La Jornada, e al sociologo Gilberto López  y
Rivas, se e perché Ruiz sarebbe peggiore di altri
governatori. La risposta è  stata unanime: «Ruiz ha
dichiarato fin dal primo giorno che l'unico strumento  che
era disposto ad usare era la repressione. Ed è un modello
che può fare  scuola».
Qualcuno ha paragonato la APPO allo zapatismo del Chiapas.
Secondo Adelfo  Regino, uno dei leader del movimento
indigeno, che oggi integra la APPO:  «Chiapas e Oaxaca hanno
problematiche strutturali simili, ma l'Esercito  zapatista è
stato costruito per un decennio prima di uscire allo
scoperto,  mentre la APPO è stata generata dal conflitto in
corso». Più di ciò, quello che  appare distanziare il
movimento di Oaxaca da quello zapatista è un fattore
temporale. Lo zapatismo nasce nel 1994, nel momento di
apogeo del neoliberismo.  Oaxaca è figlia di un momento di
auge in tutta l'America Latina - ben più che in  Europa - di
movimenti, partiti e governi aspramente critici del modello
neoliberale.
È significativo che tanto il subcomandante Marcos che López
Obrador,  rispettivamente leader della sinistra radicale e
moderata in Messico, abbiano  faticato in questi mesi a
dialogare con la APPO. Il laboratorio di Oaxaca, non  si
sente rappresentato né dall'uno né dall'altro né, forse, da
nessuno.
http://www.gennarocarotenuto.it

Reportage - Oaxaca, 5 mesi di rivolta - Messico in fiamme - Alla scoperta del nuovo Chiapas
Gennaro Carotenuto - OAXACA (MESSICO)

Lunedì cinquantotto feriti, alcuni gravi, in scontri con la Polizia Federale Preventiva (PFP). Martedì trenta uomini armati hanno fatto irruzione nell'atrio della chiesa di Santo Domingo de Guzmán. Hanno incendiato e distrutto l'accampamento principale della APPO, l'Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca, che da maggio esige le dimissioni del governatore dello Stato, Ulisses Ruiz, leader del Partito Rivoluzionario Istituzionale, il PRI, che ha governato il Messico per settant'anni. Nell'accampamento dormivano solo quindici persone e non ci sono stati feriti ma, secondo César Mateos, uno dei portavoce della APPO, gli assalitori erano elementi in abiti civili della polizia locale, che fa capo a Ruiz e che è considerata da molteplici osservatori indipendenti come responsabile di almeno quattordici dei diciassette morti ad Oaxaca dall'inizio del conflitto, cinque mesi fa. Ne è convinta Sara Méndez Morales, responsabile della Rete oaxaqueña per i diritti umani: «Dei 17 morti registrati finora, 16 sono membri o vicini o familiari di membri della APPO; 14 sono stati uccisi da sicari, sgozzati, o morti a causa di pallottole sparate da civili riconducibili al governatore Ruiz verso abitazioni civili, installazioni o barricate. Due sono morti negli scontri di fine ottobre a causa di colpi sparati dalla PFP e un morto risultava essere membro del PRI». Solo per l'assassinio del cameramen di Indymedia e cittadino statunitense Brad Will sono attualmente detenute due persone, un assessore comunale del PRI ed un poliziotto. Per i 16 morti messicani, invece, non ci sono responsabili.

Il movimento di Oaxaca nasce lo scorso maggio come conflitto sindacale. Oaxaca è il penultimo stato al sud del Messico, prima del Chiapas e del confine con il Guatemala e il Belize. È lo stato di Puerto Escondido, ma è anche lo stato a maggiore popolazione ed organizzazione indigena, più dello stesso Chiapas, culla del movimento zapatista. Settantamila maestri - sindacalizzati e rispettati nel tessuto sociale - scendono in sciopero contro l'infimo trattamento economico. L'unica risposta delle istituzioni è la repressione. Ma il movimento non si arrende, si rafforza e si struttura. «Non poteva succedere in un altro posto che non fosse Oaxaca - ci dice Miguel Álvarez, mediatore nel conflitto come esponente della ONG cattolica Serapaz - dove i movimenti indigeni e la stessa società civile hanno esperienza di potere e possono contare su migliaia di quadri».

Così da un conflitto sindacale, soprattutto dopo il 2 luglio, con l'elezione contestata di Felipe Calderón del Partito di Azione Nazionale, a Presidente della Repubblica, il movimento dei maestri si trasforma in un laboratorio politico che mette in discussione le istituzioni stesse. Centinaia di organizzazioni politiche e sindacali si ritrovano sotto le bandiere dell'Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca. Tatiana Pérez, una studentessa che la scorsa settimana ha preso parte al Congresso costituente della APPO, ne racconta i colori: «Ogni popolo indigeno, ogni organizzazione ha portato i propri vessilli, bandiere, striscioni. Centinaia di entità hanno espresso 1.632 delegati, dei quali oltre mille hanno parlato». Per il momento sono d'accordo su quello che non vogliono più. «Il governo centrale -prosegue Álvarez- ha commesso un grave errore a non trattare quando ancora era possibile. Adesso si ritrova con un movimento monolitico nella diversità, che configura una vera e propria unità nazionale messicana contro il neoliberismo».

Contro un movimento così ampio la Polizia federale, inviata da Vicente Fox alla fine di ottobre con oltre 4.000 effettivi, che facevano presagire un assedio medievale simile a quello registrato in maggio ad Atenco, un sobborgo della capitale, ha agito con prudenza. Solo per poche ore ha violato la sede dell'Università e fatto tacere la voce di «Radio Universidad». Questa ha coordinato per giorni le centinaia di barricate montate dalla popolazione nella città che, applicando spesso modelli di resistenza passiva, ha impedito il passaggio alle forze dell'ordine.

Alcuni gruppi giovanili hanno sfidato con violenza la PFP ma la maggioranza, anziani, indigeni, casalinghe, ha fatto propri senza indietreggiare strumenti di lotta pacifica. Ha difeso radio, accampamenti, Università, barricate. Il bagno di sangue temuto, per ora, non c'è stato. Ruiz ha rifiutato un appello del Parlamento - votato da una maggioranza trasversale del PAN e del partito di centrosinistra del PRD - che gli chiedeva di dimettersi: «Solo dio può concedere o togliere mandati politici».

Abbiamo domandato a Samuel Ruiz, già vescovo del Chiapas che portò alla tregua tra zapatisti ed esercito nel 1994 dopo appena 11 giorni di guerra, a Carmen Lira, direttrice del quotidiano La Jornada, e al sociologo Gilberto López y Rivas, se e perché Ruiz sarebbe peggiore di altri governatori. La risposta è stata unanime: «Ruiz ha dichiarato fin dal primo giorno che l'unico strumento che era disposto ad usare era la repressione. Ed è un modello che può fare scuola».

Qualcuno ha paragonato la APPO allo zapatismo del Chiapas. Secondo Adelfo Regino, uno dei leader del movimento indigeno, che oggi integra la APPO: «Chiapas e Oaxaca hanno problematiche strutturali simili, ma l'Esercito zapatista è stato costruito per un decennio prima di uscire allo scoperto, mentre la APPO è stata generata dal conflitto in corso». Più di ciò, quello che appare distanziare il movimento di Oaxaca da quello zapatista è un fattore temporale. Lo zapatismo nasce nel 1994, nel momento di apogeo del neoliberismo. Oaxaca è figlia di un momento di auge in tutta l'America Latina - ben più che in Europa - di movimenti, partiti e governi aspramente critici del modello neoliberale.

È significativo che tanto il subcomandante Marcos che López Obrador, rispettivamente leader della sinistra radicale e moderata in Messico, abbiano faticato in questi mesi a dialogare con la APPO. Il laboratorio di Oaxaca, non si sente rappresentato né dall'uno né dall'altro né, forse, da nessuno.

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