La nonviolenza e' in cammino. 799



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 799 del 4 gennaio 2005

Sommario di questo numero:
1. Alex Zanotelli: Aboliamo il debito
2. Ileana Montini: Aggressivita' e potere
3. Jean-Marie Muller: Le possibilita' di una cultura della nonviolenza
4. Marina Praturlon: Un incontro con Fatema Mernissi a Roma
5. Benito D'Ippolito: Quattro vecchi volantini dei tempi della prima guerra
del Golfo
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. APPELLI. ALEX ZANOTELLI: ABOLIAMO IL DEBITO
[Riprendiamo questo intervento dal quotidiano "Il manifesto" del 31 dicembre
2004. Alessandro Zanotelli, missionario comboniano, ha diretto per anni la
rivista "Nigrizia" conducendo inchieste sugli aiuti e sulla vendita delle
armi del governo italiano ai paesi del Sud del mondo, scontrandosi con il
potere politico, economico e militare italiano: rimosso dall'incarico e'
tornato in Africa a condividere per molti anni vita e speranze dei poveri,
solo recentemente e' tornato in Italia; e' direttore responsabile della
rivista "Mosaico di pace" promossa da Pax Christi; e' tra i promotori della
"rete di Lilliput" ed e' una delle voci piu' prestigiose della nonviolenza
nel nostro paese. Tra le opere di Alessandro Zanotelli: La morte promessa.
Armi, droga e fame nel terzo mondo, Publiprint, Trento 1987; Il coraggio
dell'utopia, Publiprint, Trento 1988; I poveri non ci lasceranno dormire,
Monti, Saronno 1996; Leggere l'impero. Il potere tra l'Apocalisse e l'Esodo,
La meridiana, Molfetta 1996; Sulle strade di Pasqua, Emi, Bologna 1998; Inno
alla vita, Emi, Bologna 1998; Ti no ses mia nat par noi, Cum, Verona 1998;
La solidarieta' di Dio, Emi, Bologna 2000; R...esistenza e dialogo, Emi,
Bologna 2001; (con Pietro Ingrao), Non ci sto!, Piero Manni, Lecce 2003; (co
n Mario Lancisi), Fa' strada ai poveri senza farti strada. Don Milani, il
Vangelo e la poverta' nel mondo d'oggi, Emi, Bologna 2003; Nel cuore del
sistema: quale missione? Emi, Bologna 2003; Korogocho, Feltrinelli, Milano
2003. Opere su Alessandro Zanotelli: Mario Lancisi, Alex Zanotelli. Sfida
alla globalizzazione, Piemme, Casale Monferrato (Al) 2003]

Il maremoto nel Sud-est asiatico e' qualcosa di talmente immane che ci
colpisce dritti al cuore. Ma non vorrei che questo dolore sparisse di colpo
il giorno in cui riprenderemo i voli per andare a fare le nostre vacanze in
quei paesi martoriati. Vorrei che questa tragedia costituisse invece
un'occasione per riflettere sui poveri del Sud-est asiatico, che sono quelli
che hanno pagato maggiormente il prezzo del disastro. In questo senso,
ritengo necessario rilanciare la discussione sul debito: penso che sia
imperativo cancellare immediatamente e senza condizioni il debito a tutte le
nazioni coinvolte in questo cataclisma. Al di la' dell'emergenza immediata,
che pure deve essere affrontata con urgenza, penso poi che tale campagna per
la remissione del debito debba essere inserita in un'azione a piu' vasto
raggio, che riguardi tutti i paesi poveri. Al G8 dell'anno prossimo, che si
terra' a Edimburgo, dovra' essere esaminata l'idea lanciata dal ministro
delle finanze britannico Gordon Brown, che ha proposto l'abolizione del
debito ai 42 paesi piu' impoveriti della Terra.
Per quanto parziale - dal momento che non riguarda paesi non poverissimi ma
comunque strozzati dal debito, come ad esempio il Brasile e l'Argentina -
questa proposta e' estremamente interessante e deve rappresentare un punto
di partenza per un'azione di pressione internazionale della societa' civile
sui governi europei. Campagne in questo senso sono gia' partite in
Inghilterra; non in Italia.
Mi meraviglia il silenzio italiano, soprattutto dopo che nel 2000 il nostro
paese ha approvato la miglior legge internazionale sulla remissione del
debito. La legge 209, votata da tutti i partiti di destra e di sinistra,
prevedeva la cancellazione del debito come minimo per ottomila miliardi di
vecchie lire. Purtroppo, questo testo e' rimasto lettera morta: nel giro di
tre anni abbiamo cancellato il debito totalmente a solo due nazioni. Credo
che bisogna cogliere la tragica occasione di questo maremoto per rilanciare
la discussione sulla legge 209 e sulla necessita' di una campagna
internazionale affinche' lo spirito di tale testo divenga la politica comune
di tutta l'Unione europea.
*
L'importante e' cercare di ottenere la remissione del debito senza
condizioni: una tale decisione politica non deve infatti costituire un
cavallo di Troia per richiedere in contropartita ai paesi interessati la
liberalizzazione dei loro mercati e l'implementazione di quel pacchetto di
misure liberiste note come "consenso di Washington". A chi dice che i conti
non torneranno, rispondo che basterebbe che il Fondo monetario
internazionale (Fmi) venda una minima parte delle sue riserve in oro per
spianare tutti i debiti della terra.
Una proposta di questo tipo non lo si puo' lanciare semplicemente con un
editoriale su un giornale. Mi piacerebbe invece che tutte le organizzazioni
che si sono messe insieme per lanciare la remissione del debito nel 2000 e
hanno ottenuto la legge 209 si ritrovino al piu' presto da qualche parte a
Roma, per cercare di far ripartire alla grande questo movimento. In un
momento cosi' tragico e cosi' grave penso che questa sia l'unica cosa
decente e veramente seria che possiamo fare.
Il problema e' profondamente politico e dobbiamo tentare di risolverlo in
maniera politica attraverso misure economiche e finanziarie che davvero
facciano respirare le popolazioni piu' povere del pianeta e restituiscano un
po' di giustizia a un mondo profondamente disuguale.

2. RIFLESSIONE. ILEANA MONTINI: AGGRESSIVITA' E POTERE
[Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini at tin.it) per questo
intervento. Ileana Montini, prestigiosa intellettuale femminista, gia'
insegnante, e' psicologa e psicoterapeuta. Nata nel 1940 a Pola da genitori
romagnoli, studi a Ravenna e all'Universita' di Urbino, presso la prima
scuola di giornalismo in Italia e poi sociologia; giornalista per
"L'Avvenire d'Italia" diretto da Raniero La Valle; di forte impegno
politico, morale, intellettuale; ha collaborato a, e fatto parte di, varie
redazioni di periodici: della rivista di ricerca e studio del Movimento
Femminile DC, insieme a Tina Anselmi, a Lidia Menapace, a Rosa Russo
Jervolino, a Paola Gaiotti; di "Per la lotta" del Circolo "Jacques Maritain"
di Rimini; della "Nuova Ecologia"; della redazione della rivista "Jesus
Charitas" della "famiglia dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle"
insieme a fratel Carlo Carretto; del quotidiano "Il manifesto"; ha
collaborato anche, tra l'altro, con la rivista "Testimonianze" diretta da
padre Ernesto Balducci, a riviste femministe come "Reti", "Lapis", e alla
rivista di pedagogia "Ecole"; attualmente collabora al "Paese delle donne".
Ha partecipato al dissenso cattolico nelle Comunita' di Base; e preso parte
ad alcune delle piu' nitide esperienze di impegno non solo genericamente
politico ma gramscianamente intellettuale e morale della sinistra critica in
Italia. Il suo primo libro e' stato La bambola rotta. Famiglia, chiesa,
scuola nella formazione delle identita' maschile e femminile (Bertani,
Verona 1975), cui ha fatto seguito Parlare con Dacia Maraini (Bertani,
Verona). Nel 1978 e' uscito, presso Ottaviano, Comunione e liberazione nella
cultura della disperazione. Nel 1992, edito dal Cite lombardo, e' uscito un
libro che racconta un'esperienza per la prevenzione dei drop-out di cui ha
redatto il progetto e  curato la supervisione delle operatrici: titolo: "...
ho qualche cosa anch'io di bello: affezionatrice di ogni cosa". Recentemente
ha scritto la prefazione del libro di Nicoletta Crocella, Attraverso il
silenzio (Stelle cadenti, Bassano (Vt) 2002) che racconta l'esperienza del
Laboratorio psicopedagogico delle differenze di Brescia, luogo di formazione
psicopedagogica delle insegnanti e delle donne che operano nelle relazioni
d'aiuto, laboratorio nato a Brescia da un progetto di Ileana Montini e con
alcune donne alla fine degli anni ottanta, preceduto dalla fondazione,
insieme ad altre donne, della "Universita' delle donne Simone de Beauvoir".
Su Ileana Montini, la sua opera, la sua pratica, la sua riflessione, hanno
scritto pagine intense e illuminanti, anche di calda amicizia, Lidia
Menapace e Rossana Rossanda]

"Tranne chi pensa che la differenza uomo/donna sia fondata biologicamente o
addirittura ontologicamente, non dovrebbe essere possibile continuare con la
storia che "le donne sono piu' buone" e avvalersi dell'angelismo femminile
per ricreare i presupposti della segregazione. Non siamo piu' buone, siamo
'diverse'. Le forme della differenza le abbiamo studiate a sufficienza, ma
e' mancata l'analisi della 'differenza maschile': finche' anche i maschi non
si analizzano e non giudicano il loro percorso storico, il patriarcato (o -
non e' migliore - il fratriarcato) tenta sempre l'omologazione, lasciando
alle donne la possibilita' di adeguarsi al modello unico che ha creato per
se'. Ci si puo' cascare: ci sono donne oggi che diventano competitive e
producono il mobbing (che altre subiscono) o che aspirano al potere 'come un
uomo',
come Margareth Thatcher o Condoleeza Rice, cioe' senza ripensare alle
ragioni del potere e ai diritti femminili".
Cosi' ha scritto Giancarla Codrignani il 2 gennaio.
E anche Lidia Menapace in un suo intervento ha dato una definizione della
violenza delle donne: "emancipazione imitativa".
Vorrei spendere anch'io qualche parola su questo spinoso argomento.
Riassumiamo gli esempi. Come ha ricordato Lidia Menapace nei campi di
sterminio tedeschi della seconda guerra mondiale ci sono state non poche
donne aguzzine e anche in modo efferato. Ultimamente hanno fatto il giro del
mondo le foto della soldata americana mentre tortura i prigionieri iracheni.
In Italia abbiamo avuto un recente esempio di mobbing  di una sottoufficiale
donna contro dei soldati. Ma si potrebbero ricordare le vere sevizie alle
quali sottoponevano bambine e bambini le suore degli orfanotrofi o nei
collegi contro le povere ragazze scacciate di casa perche' avevano "peccato"
restando incinta, come ci narra il bellissimo film intitolato Magdalene.
*
In tutti questi casi risalta pero' un particolare contesto: c'e' una
situazione di gruppo coeso, con regole rigide e persone che comandono.
Molti anni fa negli Stati Uniti venne finanziata una strana ricerca
psicologica empirica. Si trattava di arruolare temporaneamente dei volontari
(tutti maschi) per vivere la situazione carceraria. Gli uni vennero nominati
secondini, gli altri prigionieri. I "prigionieri" vennero "arrestati" nelle
loro case con l'accusa di una insieme di reati.
Vennero rinchiusi nelle celle e l'esperimento ebbe inizio.
Quello che accadde in seguito fa venire la pelle d'oca. Pian piano ciascuno
entro' nel ruolo. I volontari che avevano accettato di fare i prigionieri
accettarono le sevizie sempre piu' dure che venivano loro inflitte dai
"secondini". Lo stesso esperimento, con qualche attenuazione, venne
riprodotto dopo  molti anni in Inghilterra. Anche in questo caso tutti si
comportarono secondo le aspettative del ruolo di vittima e di carnefice. I
"secondini" avevano il potere e lo esercitarono, mentre i "prigionieri"
accettarono di subirlo. Nell'esperimento inglese, poiche' erano state date
regole un po' diverse, per cosi' dire "allentate", ci fu anche una
ribellione momentanea.
Dunque, se ne puo' dedurre che il contesto, sostanziato di regole imposte da
chi sta piu' in alto e  detiene  il potere, condiziona i comportamenti
trasformando semplici creature umane tranquille e innocue, in barbari
aguzzini, mentre altre le adatta a fare le vittime.
*
Del resto i giornali ci hanno descritto cosa era nella vita borghese la
soldata che nel carcere iracheno si e' dimostrata uguale ai suoi colleghi:
una brava americana tranquilla. Appunto. Non dimentichiamo d'altronde che
numerosi ex nazisti che avevano operato nei campi di sterminio, dopo la
guerra erano tornati alla vita civile, e quando li trovavano i vicini di
casa si meravigliavano perche' li avevano vissuti come brave persone.
Lo si puo' notare, questo fenomeno, anche in una classe scolastica. Se un
insegnante addita un bambino come portatore di uno qualche stigma di
differenza o inferiorita', gli alunni si comporteranno con lui secondo le
sue  aspettative e facilmente lo emargineranno.
Certamente, per quanto riguarda i casi riportati e  piu' recenti, per le
donne si puo' aggiungere anche l'"emancipazione imitativa".
Aggressivita' e potere  sono una miscela esplosiva e riguardano anche le
donne.
Ma e' anche vero, come scrivono Lidia e Giancarla, che le donne, escluse dal
potere con la p maiuscola, hanno anche sviluppato altre traiettorie umane,
altre sensibilita' e codici di comunicazione. In verita' poco presi in
considerazione  e poco studiati.

3. RIFLESSIONE. JEAN-MARIE MULLER: LE POSSIBILITA' DI UNA CULTURA DELLA
NONVIOLENZA
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per averci
messo a disposizione le seguenti pagine estratte (con alcuni tagli) dal cap.
15 e dalla conclusione dalla sua traduzione del libro di Jean-Marie Muller,
Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Edizioni Plus - Pisa
University Press, Pisa 2004 (edizione originale: Le principe de
non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995); Il
volume (pp. 336, euro 15) reca anche una utilissima appendice di Enrico
Peyretti e una densa prefazione di Roberto Mancini. Per richieste alla casa
editrice: tel. 0502212056, fax: 0502212945, e-mail:
info-plus at edizioniplus.it, sito: www.edizioniplus.it. Jean-Marie Muller,
filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i
più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre
che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut
de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In
gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere
studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle
armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement
pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader
dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario,
perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova
largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un
popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller:
Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della
nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento
Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta,
Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha,
Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999;
Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004]

La violenza legittimata dalla nonviolenza
La violenza e' considerata dall'uomo ragionevole che vuole agire con
efficacia nella storia, come il solo mezzo per realizzare la nonviolenza,
che e' il fine della storia. Se si ammette che il fine giustifica i mezzi,
la nonviolenza giustifica la violenza. Da quel momento, la violenza seconda,
la contro-violenza, con la quale l'uomo ragionevole combatte la violenza
primaria degli uomini irragionevoli, diventa essa stessa ragionevole. Anzi,
l'uomo violento ha diritto di valersi di una morale superiore a quella
dell'uomo nonviolento, perche', in definitiva, soltanto la violenza e'
morale, dato che essa sola puo' realizzare la nonviolenza nella storia. La
violenza viene cosi' legittimata dalla nonviolenza, e tutta la critica che
il nonviolento e' pronto a rivolgere al violento viene ridotta a nulla,
perche' il violento puo' fondatamente avvalersi dell'argomento stesso della
nonviolenza per giustificare la propria azione nella storia. Dal momento che
la nonviolenza e' l'argomento inconfutabile della violenza, questa diventa
totalmente indiscutibile. E infatti non e' piu' discussa.
Si assiste allora all'inversione degli oneri. E' il nonviolento che si trova
colto in fallo dal violento, il quale lo accusa di farsi complice della
violenza, di fare il suo gioco lasciandole libero corso, di abbandonare la
storia in suo potere, poiche', di per se', la nonviolenza non offre alcun
mezzo tecnico per combattere l'azione irragionevole di quelli che
distruggono la pace della comunita'. Ancora, si accusa il nonviolento di
cullarsi nell'ipocrisia, facendogli notare che e' liberissimo di parlare di
nonviolenza solo in quanto puo' godere di una sicurezza personale e
collettiva di cui e' debitore a quanti non hanno esitato, assumendo su di
se' i piu' grandi rischi, a ricorrere alla violenza. (...)
Il nonviolento conseguente ha coscienza del fatto che e' la violenza
irragionevole che avvia l'ingranaggio della violenza, e il suo rifiuto della
violenza e' anzitutto rifiuto della violenza primaria che genera
l'ingiustizia. Egli e' altrettanto consapevole che il suo rifiuto non puo'
ridursi a una condanna morale, e che egli deve esprimerlo in una azione
nella storia.
*
La nonviolenza come obbligo verso gli altri
Certo, l'esigenza di nonviolenza richiede all'individuo che si sforzi di
astenersi - tenersi lontano - da ogni impiego della violenza, ma, nello
stesso tempo, e ancora piu' fortemente, vuole da lui che lotti contro la
violenza che impregna i rapporti umani entro la comunita' storica a cui egli
appartiene. Insomma, l'adempimento della prima richiesta appare, agli occhi
di chi sceglie la nonviolenza, come la condizione necessaria, benche' non
sufficiente, all'adempimento della seconda. Il destino individuale dell'uomo
non ha senso che legato al destino della sua comunita' e, al di la' di
questa, ma attraverso questa, legato all'umanita' tutta intera. L'uomo che
ha scelto la nonviolenza ha coscienza di non poter cercare il proprio
appagamento in solitudine. Egli deve realizzare la nonviolenza in seno alla
sua comunita', la' dove gli altri non sono nonviolenti, o almeno non lo sono
tutti. In quanto esigenza morale, la nonviolenza e', nello stesso tempo e
inseparabilmente,  obbligo verso se stessi e obbligo verso gli altri, in
modo tale che e' inutile pretendere di stabilire una predominanza di un
obbligo sull'altro. Nella vita, l'obbligo verso se stessi non si esprime che
nell'obbligo verso gli altri e si realizza nella relazione con gli altri.
La nonviolenza non puo' fondare una morale della pura intenzione, che
porterebbe l'individuo a disinteressarsi delle conseguenze delle sue
decisioni e dei suoi atti. E' proprio perche' si interessa delle conseguenze
della violenza che l'uomo nonviolento la rifiuta. Come chiunque altro - e
forse di piu' - il nonviolento e' cosciente del fatto che un'azione non e'
morale soltanto per le sue intenzioni, ma anche, e in modo definitivo, per
le sue conseguenze. L'uomo nonviolento non potrebbe ritirarsi dal mondo per
salvarsi meglio dall'impurita' della violenza. Se abbandonasse il mondo, lo
abbandonerebbe in realta' nelle mani di quelli che non hanno alcuno scrupolo
ad agire con violenza; si farebbe in effetti complice dell'impero della
violenza. E' nel mondo cosi' com'e', cioe' violento, che egli deve sforzarsi
di vivere secondo l'esigenza di nonviolenza. Cio' che importa, riguardo alla
morale che fonda l'esigenza di nonviolenza, non e' la purezza individuale
del solitario che rifiuta di compromettersi con la realta' e rinuncia ad
assumere le sue responsabilita' nella storia; cio' che importa e' il
progresso effettivo della nonviolenza nelle relazioni tra le persone entro
la societa'.
Certo, se il nonviolento rinuncia alla violenza, e' per evitare di farsi
prendere in un ingranaggio che distruggerebbe la sua umanita'. Egli esige,
senza doversene scusare, che si riconosca la legittimita' di questa
preoccupazione, la quale, secondo lui, e' costitutiva dell'esigenza
filosofica che da' senso e trascendenza alla sua vita. Ma se il nonviolento
rinuncia alla violenza, lo fa anche, e inseparabilmente, con la
preoccupazione di proteggere l'umanita' degli altri affinche' almeno non
abbiano a soffrire per opera sua. (...)
Il rifiuto della violenza non e' un fine in se', non costituisce lo scopo
che il nonviolento cerca di raggiungere. Il rifiuto della violenza non e'
altro che la dimensione negativa della nonviolenza. La sua dimensione
positiva e' fare progredire la nonviolenza, cioe' la giustizia, nelle
relazioni umane. E' questo progresso  lo scopo che il nonviolento cerca di
raggiungere.
*
Rifiutare anzitutto la vilta'
Per decidere il proprio atteggiamento di fronte all'ingiustizia, l'uomo non
si trova posto davanti all'alternativa violenza-nonviolenza; dal primo
momento, e' un'altra la scelta che in realta' gli si offre: quella del
rifiuto dell'azione. La scelta tra violenza e nonviolenza non esiste se non
per colui che ha gia' scelto di agire contro l'ingiustizia. Il dibattito su
violenza e nonviolenza, dunque, non puo' essere impostato correttamente se
non e' rapportato a un terzo polo: quello dell'inazione, cioe' della fuga,
della passivita', della rassegnazione, che si radica nella paura e si
esprime nella vilta'. Ogni discussione su questo argomento e' falsata fin
quando e' organizzata in rapporto a due poli soltanto (violenza-nonviolenza)
e non a tre (vilta'-violenza-nonviolenza).
Bisogna riconoscere che chi ha scelto la violenza per combattere
l'ingiustizia ha gia' dato prova di coraggio superando la sua paura e
rifiutando di essere vile. Se la nonviolenza non e' anzitutto opposta alla
vilta', incontrera' sempre incomprensione quando la si opporra' alla
violenza. La questione "violenza-nonviolenza" non e' posta correttamente se
non quando viene presentata la scelta tra due forme di resistenza contro
l'ingiustizia e tra due forme di rischio davanti alla violenza avversaria.
In entrambi i casi, l'atteggiamento puo' essere coraggioso e intrepido,
l'intenzione buona e pura, la volonta' ferma e determinata. Questo non deve
essere messo in discussione. La discussione deve essere su due forme di
mezzi, di tecniche, di metodi d'azione, che devono essere giudicati non
soltanto in funzione della loro moralita', ma anche in funzione della loro
efficacia per raggiungere il fine ricercato. (...)
*
La violenza e' sempre irragionevole
Certo, non si puo' dare lo stesso giudizio morale sulla violenza dell'uomo
irragionevole e la contro-violenza dell'uomo ragionevole, eppure questa
resta una violenza e, come tale, non e' ragionevole. (...)
L'uomo ragionevole non puo' ignorare che, con l'essere violento, rinuncia,
anche solo momentaneamente, ad avere un atteggiamento ragionevole. Non puo'
non aver coscienza che si contraddice quando legittima il mezzo della
violenza col fine della nonviolenza. Deve conservare la coscienza di questa
contraddizione che tutte le ideologie dominanti si sforzano di occultare.
Soprattutto, non deve darsi pace fin quando non arrivi a superare questa
contraddizione.
Per quanto possa essere effettivamente necessaria, la violenza e' una
necessità tragica. Ogni violenza e' un fallimento drammatico per la
comunita' degli uomini ragionevoli e nessuno di loro potrebbe lavarsi le
mani e pretendersi innocente. Giustificare la violenza sotto la copertura
della necessita', e' rendere la violenza effettivamente necessaria. E' gia'
giustificare la violenza futura e chiudere l'avvenire nella necessita' della
violenza. E' rifiutare in anticipo ogni inventivita', ogni creativita' che
permetta di liberare l'avvenire dal passato. Il fatto che l'uomo ragionevole
sia condotto, sotto la costrizione della necessita', a ricorrere lui stesso
alla violenza per evitare una violenza peggiore, questo non puo' che
determinarlo a fare in modo che, per l'avvenire, in una situazione simile e
in circostanze paragonabili, non si trovi piu' prigioniero della stessa
necessita'.
*
Il mezzo della violenza contraddice il fine della nonviolenza
(...) La storia prova che, il piu' delle volte, il mezzo della violenza si
sostituisce al fine della nonviolenza. Il mezzo cancella il fine. Dire che
la nonviolenza e' il fine della storia, ma che questa necessita e giustifica
i mezzi della violenza, significa rinviare la nonviolenza alla fine della
storia, ma di una storia senza fine. Significa mettere la nonviolenza fuori
dalla storia e consacrare la violenza nella storia. Quindi privare la storia
di un fine, cioe' di un senso.
*
La violenza e' un meccanismo cieco
(...) L'uomo politico pretende di decidere ragionevolmente di ricorrere alla
violenza per difendere l'ordine o ristabilire la pace e giustifica la sua
decisione invocando i piu' alti valori morali dell'umanita'. Ma, anzitutto,
per mettere in atto la violenza bisogna chiamare degli uomini ad essere
violenti. L'appello alla violenza puo' pretendere di fondarsi sulla ragione
ma, per essere inteso, fa appello piu' alla passione che alla ragione. In
realta', e' la passione, molto piu' della ragione, che arma il braccio di
chi esegue la violenza. La violenza, dunque, ha bisogno di una propaganda
che si rivolge piu' alla passione che alla ragione. Cio' che importa,
nell'esecuzione della violenza, non e' piu' la morale degli uomini, ma
soltanto il loro morale. Poiche' non sono ragionevoli, bisogna che gli
uomini violenti siano convinti di avere ragione per ottenere, costi quel che
costi, che gli altri si arrendano alla loro ragione. E per meglio sostenere
il morale di quelli che mettono in atto la violenza ci si da' da fare a
convincerli che svolgono il compito piu' giusto e piu' nobile che ci sia.
L'ideologia ha la funzione di rendere innocente la violenza cancellando in
essa ogni contraddizione tra i suoi mezzi e il fine che la giustifica. Ma la
violenza non e' mai in-nocente, perche' contiene una parte irriducibile di
nocumento (le due parole hanno la stessa radice: nocere, nuocere). Onorare
la violenza non e' soltanto disonorare se stessi, ma e' soprattutto
disonorare le vittime della violenza. Considerata in se stessa, la violenza
e' sempre disonorante. Dire che e' necessaria non contraddice questa
affermazione, ma, al contrario, la rinforza. Infatti non e' mai onorevole
per l'uomo trovarsi prigioniero della necessita', soprattutto quando questa
lo costringe a far uso di violenza verso altri uomini. L'onore dell'uomo
resta la nonviolenza, anche quando la necessita' lo costringe a ricorrere
alla violenza. E' di decisiva importanza che nel momento stesso in cui,
sotto la pressione delle circostanze, l'uomo crede di non poter fare altro
che impiegare la violenza, egli si ricordi che non c'e' onore per lui che
nella nonviolenza. Le ragioni per cui l'uomo ricorre alla violenza possono
essere onorevoli, ma non per questo cio' rende onorevole la violenza.
*
La violenza strumentalizza l'uomo
In fondo alla catena degli ordini e delle obbedienze, dei sicari eseguono il
lavoro sporco della violenza, che non e' per niente ragionevole ed e' la
negazione stessa dei valori in nome dei quali si suppone che essi agiscano.
A questa estremita' della catena, l'esecutore non e' piu' che uno strumento
al servizio della violenza, un congegno meccanico, un puro strumento
tecnico. A questo punto, tutto concorre a far si' che l'uomo si trovi
privato della sua umanita'. E' una delle caratteristiche della violenza
strumentalizzare l'uomo che la esercita. E questa strumentalizzazione e' una
disumanizzazione. Nel suo libro La liberte' pour quoi faire?, Georges
Bernanos descrive cosi' i rapporti che "l'uomo con la mitraglia" intrattiene
con la sua arma: "La mitraglia spara ad un cenno del padrone dell'uomo con
la mitraglia, e ad un cenno di questo padrone l'uomo con la mitraglia spara
su qualunque cosa. (...) Nell'uomo con la mitraglia di cui parlo non e' la
mitraglia l'accessorio, ma l'uomo. L'uomo di cui parlo e' a servizio della
mitraglia e non la mitraglia a servizio dell'uomo, non e' "l'uomo con la
mitraglia", ma "la mitraglia con l'uomo".
Tutto comincia dunque con l'esaltazione della nobilta' di una causa e tutto
finisce con l'accettazione delle violenze piu' ignobili. Si vanta la
grandezza del sacrificio di quelli che accettano di morire per la causa, ma
in realta' quegli stessi ricevono l'incarico di uccidere per la causa. Tutta
la "logica" della violenza consiste precisamente nell'uccidere per non
morire. E poiche' gli uomini vogliono furiosamente vivere, furiosamente
uccidono. Mentre il poeta esalta la gloria di quelli che muoiono "nelle
battaglie campali (...) con tutto l'apparato dei grandi funerali" (Charles
Peguy, Eve), mentre il filosofo disserta sulla necessita' per l'uomo
ragionevole di ricorrere alla violenza per preparare una terra di
nonviolenza, mentre l'uomo politico magnifica il dovere patriottico dei
cittadini di difendere l'onore degli uomini liberi, mentre il generale
celebra il coraggio del soldato che sfida tutti i pericoli e corre i piu'
grandi rischi per la salvezza della nazione, mentre il gran sacerdote invoca
la benedizione del dio degli eserciti su quanti sono pronti a sacrificare la
loro vita per compiere il loro dovere, colui che la miseria della vita ha
costretto a fare delle armi il suo mestiere, o che la forza della propaganda
ha costretto ad arruolarsi, l'uomo di truppa, di prima fila - proprio l'uomo
con la mitraglia, perche', in quasi tutte le guerre, malgrado l'automazione
e la sofisticazione dei sistemi d'arma, e' lui che ha l'ultima parola -
addestrato per la battaglia, trascinato a non far caso ai sentimenti,
agguerrito per dimenticare la paura, indurito per interiorizzare la
crudelta' della guerra, e' lui che si trova direttamente a confronto con la
violenza che lo strumentalizza e lo disumanizza. No, non e' vero che l'uomo
di truppa, di prima fila, si comporta da uomo ragionevole! Nell'ubriacatura
della violenza, egli non ha che disprezzo per tutti quei valori esaltati
dall'uomo "ragionevole" per giustificare la guerra. Cosi', l'uomo di truppa,
di prima fila, e' la materia prima dei versi del poeta, dei trattati del
filosofo, dei discorsi del politico, dei proclami del generale, delle
preghiere del gran sacerdote e, piu' tardi, dei racconti dello storico, ma
e' prima di tutto la vittima di tutti costoro.
Si obiettera' che l'uomo "ragionevole" che ha deciso di usare la violenza
non ha voluto il lavoro sporco del soldato. Certo, ma ha voluto il processo
che lo ha provocato per concatenazione meccanica. Quel lavoro non e' che la
conseguenza inevitabile, praticamente inevitabile, della sua decisione, ed
egli non puo' rifiutare di assumerne la responsabilita'. Probabilmente
sarebbe ingiusto fare un processo alle intenzioni dell'uomo ragionevole che
ha deciso l'impiego della violenza per difendere un causa giusta. La sua
intenzione e' forse pura, ma egli non si e' interessato con sufficiente
attenzione alle conseguenze della sua decisione, delle quali pretende di non
essere responsabile. In realta', la violenza e' fondata su una morale
dell'intenzione che esclude il piu' delle volte una morale della
responsabilita'. Di nuovo, l'onere e' invertito. Quale che possa essere
l'intenzione - che in effetti puo' essere pura - di colui che ha deciso di
ricorrervi, la violenza non e' mai un grande fatto, ma e' sempre un lavoro
sporco.
La storia dimostra che, quasi sempre, si passa dalla legittimazione della
violenza, considerata come una necessita' tecnica, alla sua giustificazione,
onorata come una virtu' morale. Si costruisce allora una ideologia, che
occulta e alla fine sopprime ogni contraddizione tra il fine e il mezzo
dell'azione violenta. Se la nonviolenza e' effettivamente il fine della
storia, allora l'uomo ragionevole e' sfidato a inventare dei mezzi
nonviolenti per agire nella storia.
Il fatto che, nel passato, il piu' delle volte, l'uomo ragionevole abbia
combattuto le violenze dell'oppressione e dell'aggressione mediante l'azione
violenta, dimostra la necessita' dell'azione, ma non prova la fatalita'
della violenza. Certo, nella misura in cui il mezzo tecnico della violenza
e' stato l'unico utilizzato per tentare di vincere le violenze irrazionali,
esso era l'unico a poter dare la prova di una certa efficacia. E noi
dobbiamo riconoscere che, talvolta, il suo effetto benefico nella storia e'
stato piu' forte del suo aspetto malefico. Era meglio, allora, agire con
questo mezzo che non agire per nulla. E' vero che il nonviolento e' anche
lui erede delle lotte violente condotte nel passato, e che anche lui
beneficia delle loro conquiste. Egli custodisce la memoria di queste lotte,
ma cio' non lo obbliga affatto a pensare che la violenza resti oggi una
necessita'. Al contrario, se e' davvero il fine della nonviolenza che ha
giustificato in passato il mezzo della violenza, allora non soltanto egli ha
il diritto, ma oggi ha il dovere di interrogarsi per sapere se non esistono
altri mezzi che non siano in contraddizione con il fine ricercato. La
questione che si pone oggi all'uomo ragionevole e' di sapere se non e'
possibile inventare un'altra storia sperimentando un'altra tecnica d'azione,
diversa dalla violenza.
E' vero che non basta che la nonviolenza risponda all'esigenza morale che
obbliga il filosofo, e' necessario anche che essa soddisfi la necessita'
tecnica che s'impone al politico. Ma e' anche un'esigenza morale, per l'uno
e per l'altro, domandarsi se l'opzione per la nonviolenza non permetta di
scoprire una tecnica che permetta di agire in modo ragionevole e
responsabile nella storia. Per sfuggire al circolo vizioso in cui la
riflessione filosofica e il pensiero politico si sono trovati chiusi per
secoli, conviene nello stesso tempo rifiutare la fondatezza morale della
violenza e fare un inventario delle possibilita' tecniche della nonviolenza.
(...)
Ora, bisogna ben riconoscerlo, quelli che affermano la necessita' della
violenza, generalmente non hanno mai provato la nonviolenza. Una cosa e'
dire: bisogna ricorrere alla violenza il meno possibile; altra cosa e' dire:
bisogna ricorrere alla nonviolenza il piu' possibile. Se l'uomo non si
prepara a mettere in atto i mezzi dell'azione nonviolenta ogni volta che e'
possibile, allora la violenza sara' ogni volta necessaria. Non si puo' fare
davvero risparmio di violenza se non facendo risolutamente la scelta della
nonviolenza. Il risparmio di violenza non e' possibile che nella dinamica
della nonviolenza.
*
La necessita' di costringere
(...) Bisogna dunque studiare la "fattibilita'" della nonviolenza come
metodo, come tecnica d'azione. Per questo, bisogna domandarsi se la
nonviolenza puo' fondare un atteggiamento pratico, una regola di condotta,
un comportamento che siano coerenti e vitali, cioe' che offrano,
all'individuo come alla comunita', una reale promessa di durata. Certo, la
nonviolenza assoluta restera' sempre, per l'individuo come per la comunita',
un ideale fuori di portata, ma la questione e' di sapere se la nonviolenza
puo' diventare un ideale pratico, cioe' se e' possibile definire una pratica
effettiva ispirata a questo ideale. In altre parole, una pratica della
nonviolenza offre sufficienti probabilita' di riuscita cosi' da poter essere
scelta dall'uomo ragionevole che non ha soltanto voglia di morire bene, ma
che ha proprio voglia di vivere? Piu' precisamente, bisogna domandarsi con
quali probabilita' la pratica della nonviolenza e' capace di riuscire a
contenere e riassorbire la violenza nei rapporti umani. Certo, esistono
delle probabilita' di fallimento, che possono comportare la morte
dell'individuo e anche quella della comunita'. Ma lo stesso vale per la
violenza, perche' vale puramente e semplicemente per la vita. Vivere, e' ad
ogni istante rischiare di morire. E le probabilita' di fallimento della
violenza sono, tutto sommato, abbastanza considerevoli. Ma l'ideologia della
violenza, che domina le nostre mentalita', postula nello stesso tempo lo
scacco della nonviolenza e il successo della violenza. E' questo doppio
postulato che ci sembra ragionevole mettere in discussione.
La grande debolezza della nonviolenza e' che la violenza e' perfettamente
organizzata e che la nonviolenza e' perfettamente disorganizzata. Le
potenzialita' della nonviolenza non potranno essere attuate nella storia che
nella misura in cui le societa' saranno determinate a metterle all'opera a
livello istituzionale. Per questo, e' necessario che una maggioranza di
cittadini sia convinta che la nonviolenza e' non soltanto augurabile, ma
altrettanto possibile.
*
Le "chances" dell'azione nonviolenta
(...) Certo, nell'immediato, le forze della nonviolenza non sono in grado di
opporsi efficacemente alle forze della violenza che si scatenano ai quattro
angoli del mondo. Quando, in un determinato territorio, sono riuniti tutti i
fattori di esplosione della violenza, essa esplode effettivamente e
l'irreparabile sopravviene senza che nessuno possa pretendere di evitarlo.
Perche' e' gia' troppo tardi. L'azione deve essere intrapresa ben prima che
si produca l'esplosione. Certamente, non c'e' alcuna fatalita' in questo
scatenamento della violenza contro l'uomo, perche' non e' assolutamente
fatale che i fattori che provocano la violenza siano riuniti, ma, dal
momento che lo sono per responsabilita' degli uomini, diventa inevitabile
che la violenza si scateni. Probabilmente, ne' i mezzi della violenza ne'
quelli della nonviolenza potranno spegnere l'incendio delle paure, delle
passioni e degli odi. Sara' necessario che questi si consumino e  si
spengano da soli. Il sistema della violenza che ha dominato le societa' per
secoli non ha finito di gettare il suo veleno mortale nel nostro presente,
ma anche, probabilmente, nel nostro avvenire. Sforzandoci di smantellare
quel sistema, dovremo prendere atto della parte di violenza irreparabile che
esso continua a generare.
*
La nonviolenza e' più realista della violenza
Noi non abbiamo mai certezze quando si tratta di valutare le conseguenze
delle nostre azioni; in larga misura sono imprevedibili e ci sfuggono.
Questo e' vero tanto per l'azione violenta quanto per l'azione nonviolenta e
ci deve portare a dar prova della piu' grande prudenza nelle nostre
decisioni. Questa prudenza ci obbliga a calcolare cio' che le conseguenze
delle nostre azioni possono implicare di irreparabile e irrimediabile. Qui
si vede che la prudenza ci consiglia di evitare l'azione violenta e di
preferire l'azione nonviolenta. Poiche', secondo ogni probabilita', quella
contiene in se' piu' conseguenze irreversibili di questa. Riguardo alla
prudenza, che fonda la saggezza pratica dell'uomo ragionevole, la violenza
appare come una im-prudenza, cioe' una mancanza di previsione delle
conseguenze che essa comporta, nostro malgrado. D'altronde, non bisogna
giudicare soltanto le conseguenze immediate della violenza. Bisogna tentare
di prevedere e valutare anche le sue conseguenze lontane, quelle che puo'
produrre in altri luoghi e tempi. L'efficacia della violenza non deve essere
giudicata nell'istante, ma nella durata. La contro-violenza puo' avere degli
effetti immediati che lasciano pensare che abbia diminuito la quantita' di
violenza nella storia. Ma, col tempo, si rischia di scoprire che ha delle
conseguenze indirette negative, degli effetti secondari perversi e che in
definitiva ha aumentato la quantita' di violenza nel mondo. A questo
riguardo, la nonviolenza offre piu' garanzie per preservare l'avvenire.
Cio' che distingue chi ha scelto la nonviolenza da chi si adatta alla
violenza, non e' un piu' grande idealismo riguardo alla nonviolenza, ma un
piu' grande realismo riguardo alla violenza. Poiche' la violenza, in
definitiva, e' una utopia. Nel suo significato etimologico, la u-topia e'
cio' che non esiste in alcun luogo. Ora, precisamente, se la violenza esiste
dappertutto, in nessun luogo essa raggiunge il fine che pretende di
giustificarla. Mai, da nessuna parte, la violenza realizza la giustizia tra
gli uomini; mai, in alcun luogo, la violenza apporta una soluzione umana
agli inevitabili conflitti umani che costituiscono la trama della storia.
*
Conclusione
(...) Prima di essere un'azione, la violenza e' un atteggiamento: un
atteggiamento verso gli altri uomini, che produce un atteggiamento nei
riguardi della morte e dell'omicidio. (Osserviamo che la vilta' e' anch'essa
un atteggiamento). Allo stesso modo, la nonviolenza e' anzitutto ed
essenzialmente un atteggiamento: un atteggiamento diverso (dalla vilta' e)
dalla violenza, un diverso atteggiamento verso gli altri uomini, che produce
un diverso atteggiamento nei riguardi della morte e dell'omicidio. La
nonviolenza e' l'atteggiamento etico e spirituale dell'uomo in piedi che
riconosce la violenza come la negazione dell'umanita' e che decide di
rifiutare di sottomettersi al suo dominio. Un simile atteggiamento e'
fondato sulla convinzione esistenziale che la nonviolenza e' una resistenza
alla violenza piu' forte della contro-violenza. Cio' a cui mira, in
sostanza, l'azione nonviolenta, e' creare le condizioni che permettano
all'avversario che ha scelto la violenza di cambiare atteggiamento. Questo
obiettivo e' una scommessa che implica un rischio di morte. E' precisamente
in questo rischio che si trova la speranza della vita.
Se la nonviolenza fosse soltanto un metodo di azione che cercasse di
ottenere con altri mezzi cio' a cui mira la violenza, bisognerebbe allora
giudicarla soltanto dai suoi risultati, che sarebbero gli unici a
giustificarla. E converrebbe cambiare metodo quando fosse giudicata
inefficace. Ma se la nonviolenza e' un atteggiamento, l'atteggiamento
dell'uomo ragionevole che cerca di dare senso e trascendenza alla sua
esistenza, allora essa e' giustificata da se stessa. E l'uomo ragionevole
non ha una ragione per cambiare di atteggiamento.
Tuttavia, pur essendo la nonviolenza un atteggiamento che risulta da una
scelta personale, essa alimenta un progetto di civilizzazione, che ha la
vocazione di inscriversi nella storia. La costruzione di questa civilta'
della nonviolenza rappresenta oggi una superiore posta in gioco per
l'avvenire dell'umanita' come per l'avvenire di ognuna delle nostre
societa'. Essa richiede il meglio delle energie di tutti gli uomini di buona
volonta'. Ciascuno, nella misura delle proprie possibilita', puo' agire per
aprire delle brecce nel sistema della violenza che domina le nostre
societa', delle brecce che siano altrettanti varchi verso un avvenire in cui
l'uomo riconoscera' l'altro uomo come proprio simile. E' vero che non
sarebbe ragionevole affermare che questa civilta' della nonviolenza
trionfera' - purtroppo non e' vero che "la verita' finisce sempre per
trionfare" - ma e' certamente ragionevole voler agire perche' essa possa
poco a poco prevalere sugli arcaismi di cui siamo ancora prigionieri.
Abbiamo la profonda convinzione che, all'alba del XXI secolo, e' in questa
volonta' che risiede la speranza degli uomini.

4. INCONTRI. MARINA PRATURLON: UN INCONTRO CON FATEMA MERNISSI A ROMA
[Dal sito de "Il foglio del paese delle donne" (http://womenews.net.nuke)
riprendiamo ampi stralci del resoconto di un recente incontro con Fatema
Mernissi all'Universita' di Roma. Marina Praturlon collabora alla rivista
"Dissensi.net". Fatema (ma il nome puo' essere traslitterato anche in
Fatima) Mernissi, e' nata a Fez, in Marocco, nel 1940, acutissima
intellettuale, docente di sociologia, studiosa del Corano, narratrice; tra i
suoi libri disponibili in italiano: Le donne del Profeta, Ecig, 1992; Le
sultane dimenticate, Marietti, 1992; Chahrazad non e' marocchina, Sonda,
1993; La terrazza proibita, Giunti, 1996; L'harem e l'Occidente, Giunti,
2000; Islam e democrazia, Giunti, 2002; Karawan. Dal deserto al web, Giunti,
2004]

Nonostante le pessime condizioni del tempo, erano in molti, giovani e meno
giovani, ad accogliere martedi' 9 novembre l'appello ad incontrare Fatema
Mernissi, sociologa e scrittrice marocchina nota in Italia soprattutto per
il grande successo ottenuto dal suo romanzo La terrazza proibita.
Ospite della facolta' di Scienze della formazione (Universita' Roma 3), alla
presenza di sociologi, filosofi e di un attento pubblico, la Mernissi ha
colto questa occasione per parlare soprattutto del dialogo fra l'Islam e
l'Occidente cristiano, facendo presente che e' improprio confondere termini
geografici (come Occidente) con termini religiosi-culturali come Islam, e
che dunque all'Occidente non si contrapppone l'Islam, ma semmai i paesi
islamici nelle loro diversita' culturali, anche molto evidenti (si pensi
alla differenza fra il Marocco e lo Yemen o l'Indonesia).
In effetti, oltre che come scrittrice, la Mernissi e' apprezzata in Europa
soprattutto per aver intessuto, in questi anni dominati dalla paura, una
rete di scambi interculturali con l'Islam democratico e per essersi fatta
portavoce di una societa' civile islamica vivace ed attiva, desiderosa di
dialogare con l'Occidente sui temi scottanti della giustizia globale e della
convivenza pacifica fra diversi.
Anche in questa occasione, come nel suo recente libro Karawan: dal deserto
al web, uno dei temi ricorrenti e' stato quello della comunicazione perche'
secondo la Mernissi questa societa' civile islamica a grande maggioranza
giovanile, che conosce la lingua e la cultura europea, che utilizza con
disinvoltura tv satellitari e internet, non vive nella chiusura e nella
paura come noi spesso la immaginiamo, ma al contrario e' aperta e desiderosa
di rompere questo muro di silenzio che ci divide, con gli strumenti pacifici
della parola, del viaggio e della conoscenza reciproca.
In Marocco e' possibile trovare donne e ragazzi che navigano negli
internet-cafe' fino alle undici di sera a dispetto delle statistiche che
danno i paesi islamici a bassa alfabetizzazione informatica (perche' vengono
contati i computer comprati individualmente e non quelli condivisi nei
luoghi pubblici), e questa rete di comunicazione con il mondo e' un'altra
faccia dell'Islam, ben diversa da quella retrograda e violenta che riempie i
nostri schermi televisivi.
Quello che Fatema Mernissi ci ha regalato e' la buona notizia che questo
mondo pacifico e aperto nei Paesi islamici esiste, e' in crescita, lavora
per combattere gli integralismi religiosi, culturali e politici nel mondo, e
che l'Islam come religione non ha in se stesso il germe della violenza e
dell'intolleranza.
Piuttosto il problema dei paesi islamici oggi e' il gap generazionale fra i
cittadini e la dirigenza politica, i primi giovanissimi e la seconda anziana
e largamente minoritaria e non rappresentativa.
Quello che sta accadendo nei paesi islamici e' un movimento di emancipazione
che si basa sull'insofferenza dei ragazzi che appartengono al mondo
globalizzato del web e usano la tecnologia per uscire dall'isolamento
culturale in cui vivono da quando e' scoppiato il conflitto con l'Iraq.
Questa generazione, come ha fatto acutamente notare la storica Bonacchi
della Fondazione Basso, conosce la cultura occidentale assai piu' di quanto
noi conosciamo l'Islam, perche' rispetto al periodo coloniale in cui
l'Occidente aveva una discreta conoscenza della cultura che andava a
dominare, oggi la situazione si e' rovesciata: noi non conosciamo le culture
"altre", compreso l'Islam, ma i cittadini islamici conoscono benissimo la
nostra cultura, la nostra scienza, le nostre lingue, la nostra tecnologia.
Ci siamo resi conto di questo solo quando il terrorismo islamico ci ha
sorpreso con il suo uso disinvolto ed esperto di ogni aspetto del nostro
sapere. Su questo punto Fatema Mernissi ci ha comunicato tutto il suo
stupefacente ottimismo, che ci ha tenuto a distinguere dalla stupidita',
riguardo alla possibilita' che si crei una grande rete di contatti pacifici
e fecondi che restituisca all'Islam la sua antica vocazione di dialogo e di
tolleranza, quell'universalismo che ha permesso, nei secoli del suo
splendore, una cosi' grande diffusione nel mondo e il fiorire di una cultura
raffinata che si nutriva delle diversita'.
Questo orgoglio islamico, per noi ascoltatori piuttosto sorprendente, ha
provocato alcune osservazioni e domande fra il pubblico e fra i docenti
presenti, soprattutto riguardo alla possibilita' di interpretare i testi
sacri islamici nella direzione del dialogo e della tolleranza.
A questo proposito la Mernissi ha ricordato un dato essenziale che
caratterizza l'Islam religioso: la mancanza di un'autorita' centrale
indiscussa e depositaria dell'esegesi del Corano...
Il mondo islamico e' molto di piu' di quello che in Occidente si crede, e'
una vasta societa' civile che ha bisogno del dialogo con le altre societa'
civili per rompere questo isolamento, che in realta' e' reciproco; anche
noi, infatti, abbiamo bisogno di rompere il nostro isolamento dal mondo
islamico, perche' questo isolamento favorisce il pregiudizio e
l'integralismo sia da una parte che dall'altra, a danno della societa'
civile e della pace.

5. MATERIALI. BENITO D'IPPOLITO: QUATTRO VECCHI VOLANTINI DEI TEMPI DELLA
PRIMA GUERRA DEL GOLFO
[In questo mese pubblicheremo un nuovo quaderno della serie dei "Materiali
per la riflessione" utilizzati nel corso di educazione alla pace presso il
liceo scientifico di Orte (Vt). Da esso abbiamo estratto questi vecchi versi
del nostro amico Benito D'Ippolito, diffusi anche come parti di volantini al
tempo della prima guerra del Golfo, e gia' riproposti anni fa su questo
notiziario. Chi desiderasse ricevere per e-mail l'intero quaderno (o anche i
precedenti) puo' farne richiesta alla nostra redazione (e-mail:
nbawac at tin.it)]

Quando verranno le aquile a dirti che e' il momento
tu digli di no, che hai ancora da fare
che c'e' il caffe' sul gas, il rubinetto da aggiustare
che hai promesso a Maria che domani la portavi al cinema.

Quando verranno le aquile, tu digli di no.

*

Qualcuno ancora grida "viva le catene"? qualcuno
ancora s'agita a mazzate nel rigagnolo, Crono
ancora disquatra, divora, vomita esserini?
l'uomo s'arrovescia dunque in scimmia, in drago, in sasso?

"Agli uomini che conservano una certa lucidita'
e un certo senso dell'onesta', noi diciamo:
e' falso che si possa difendere la liberta' qui
imponendo la servitu' altrove".

Diciamo, anche: che e' falso
si possa difendere la liberta' altrove
imponendo qui la servitu'.

*

Sotto le bombe intelligenti, stupidi
uomini tirano
le cuoia, vacui
guardano il cielo gli occhi dei superstiti.

*

Il dito coltello del padrone
trancia il cuore in petto ai contadini
col solo crescere dell'unghia. C'e' modo
di uccidere senza un sussulto.

"Come potrebbe esservi un uomo ricco
se non vi fossero migliaia di poveri?".

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 799 del 4 gennaio 2005

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