La domenica della nonviolenza. 12



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 12 del 13 marzo 2005

In questo numero:
1. Stefania Giorgi: Nascere all'inferno
2. Simonetta Fiori intervista Anna Bravo
3. Simonetta Fiori intervista Dacia Maraini
4. Simonetta Fiori intervista Luciana Castellina
5. Sandro Mezzadra presenta "Critica della ragione postcoloniale" di Gayatri
Chakravorty Spivak

1. RIFLESSIONE. STEFANIA GIORGI: NASCERE ALL'INFERNO
[Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 marzo 2003. Stefania Giorgi e'
giornalista e saggista, da anni animatrice delle pagine cuturali del
quotidiano "Il manifesto", ha scritto molti articoli, densi e illuminanti,
su temi civili e morali, e in particolare di bioetica, di difesa
intransigente della dignita' umana, quindi dal punto di vista del pensiero
delle donne]

Due corni, estremi e consaguinei, venire al mondo e morire nel presente
della procreazione bio-tech e della guerra infinita possono aiutare a
riguardare l'annunciata fine del patriarcato, o meglio la sua cruenta
agonia, e a svelare la posta in gioco nei rapporti tra uomini e donne. A
Occidente e a Oriente. Conflitto gemello, non dichiarato ma agito, che si
accompagna al momento di massima espansione dell'esercizio, orrendo e
crudele, del primo comandamento dell'ordine patriarcale: uccidi.
Mentre abbiamo gli occhi e il cuore pieni di un dolore e di un trauma di
difficile lenimento. Per le prigioniere di questa guerra, ostaggi annullate
nella loro biografia e restituite in video in forma di nuda vita, grumo di
fragilita' e di paura. Per il prezzo intollerabile pagato per una
liberazione tanto combattuta, una vita umana per un'altra vita umana, morte
assurda nella piu' assurda delle guerre.
Crisi della civilta' patriarcale, resistenza maschile ad assumerla e
tentazione femminile, sempre presente, di sentirvisi inglobate, in un ultimo
fatale abbraccio di amore complementare. In un tramonto plumbeo,
contrassegnato, come era fin troppo facile profetizzare, dai terribili colpi
di coda del grande drago che fin qui ha ordinato il mondo.
Da osservare e analizzare a partire esattamente dalla trasformazione
radicale dei due scenari - guerra e nascita - e dalla partita che si sta
giocando sulla liberta' femminile, tra soggettivita' e pretese di controllo.
Conflitto non dichiarato che taglia l'una e l'altra parte del mondo
intersecando latitudini e longitudini, democrazie e teocrazie mostrandone
crepe e paradossi, faglie ipogee e contraddizioni. Non equivalenti ma spesso
speculari. Come la contesa maschile (taleban-sovietici-angloamericani) sul
burqa da mettere o togliere ha ben dimostrato.
Conflitto, in materia di rapporti tra uomini e donne, che si puo' decifrare
scartando le trappole paritarie dell'Occidente sovrapposte e applicate al
paradigma dell'oppressione nel resto del mondo.
*
Chi abita cosa
Molte donne abitano oggi la guerra. Molte silhouette femminili si affollano
intorno a questa parola un tempo declinata solo al maschile. In prima linea
e non piu' nelle retrovie dell'home front, alcune per scelta, altre, le
piu', senza possibilita' di scelta alcuna. Armate e in divisa, aguzzine ad
Abu Ghraib pronte a gareggiare in sadismo con i maschi americani,
immortalate con il prigioniero-cane, maschio islamico al guinzaglio;
kamikaze imbottite di tritolo pronte al sacrificio di se' e degli altri in
nome di Allah; potenti e solerti segretarie dello stato-impero dell'Enduring
Freedom e della democrazia a suon di bombe; vittime nella macelleria e cielo
aperto di Baghdad; volontarie che, in nome della pace, cercano di tessere
la' dove tutto sembra strappato per sempre; inviate nel luogo del conflitto
e che del conflitto raccontano le atrocita' e l'insensatezza. Come le due
Simone. Come Giuliana. Come Florence ancora sequestrata.
Donne di pace, senza armi se non la loro libera intelligenza applicata in
"area di crisi", e donne di guerra, in divisa color kaki, arruolate nelle
legioni delle pari opportuniti' del fuoco della prima linea.
Una presenza che archivia definitivamente ogni tentativo consolatorio di
ricorso all'estraneita' delle donne alla guerra, ogni rifugio possibile,
anche se piccolo e claustrofobico, di un "mondo a parte" dove il clangore
degli uomini in armi possa arrivare attutito, un fastidioso rumore di
sottofondo.
Cambio di scenario. Molti uomini abitano oggi la scena procreativa. Medici,
legislatori, bioeticisti, sacerdoti celibi e votati alla castita' che
pontificano in materia di morale sessuale, uomini sterili incapaci di
nominare la propria impossibilita' a generare. Vi abitano tutti con
l'imperio arrogante di una presunta parita' e perfetta simmetria tra uomini
e donne, padri e madri, che nega il primato femminile nella procreazione.
Con il tentativo conseguente - reale e simbolico insieme - di mettere sotto
sequestro il corpo femminile, la sua sessualita' da controllare, la sua
potenza generativa da imbrigliare.
Dall'hijab imposto dagli ulema all'impianto forzato in utero di un feto
malformato per legge dello stato. Non nella Germania di Hitler ne'
nell'Afghanistan dei taleban, ma nell'Italia del mercato politico e degli
scambi (per carita' sempre trasversali) sulla pelle delle donne.
*
Guerra e nascita
C'e' un nesso evidente tra l'ordine della nascita, di cui il corpo femminile
testimonia, messo fuori scena, e l'ordine mortifero della guerra su cui la
politica torna a fondare - in primis nella piu' grande democrazia
dell'Occidente - il suo stato e il suo statuto. Guerra, prima umanitaria e
ora preventiva che si arroga il compito di esportare la democrazia nel
mondo, in primo luogo proprio in nome delle donne umiliate e velate
dell'Islam. Militarismo e ideologia patriarcale tornano a marciare in
sincrono. Il passo parallelo e' il controllo della riproduzione. In aperta
rotta di collisione con la liberta' femminile.
Un tentativo, dunque, di rimettere il corpo femminile a regime. Regime
militare, biotecnologico, giuridico, religioso. Che sventolino il Corano
come in Algeria o che brandiscano le tavole di Mose' come a Washington e a
Roma, i misogini del patriarcato che si puntella con le armi, cercano
conforto nei patriarchi dei monoteismi, nei profeti-guerrieri di un dio
padre vendicativo e distruttore per profumare di divino il loro livore
contro le donne, la loro paura delle donne. Cosi', nella loro costellazione
simbolica, di cui il primato del potere e della forza sul nemico e'
principio fondativo, come nei loro atti politici, non possono che far
scempio del concetto di vita e dipingere la donna come la nemica della vita.
Scempio della responsabilita' e della competenza femminile in materia di
vita collaudata nei secoli.
*
Corpo-cosa
Tra corpi-cose fatti a pezzi dalla guerra e frammentati dalla tecnologia e
richiami assillanti alla sacralita' della vita, l'abuso osceno del concetto
di vita - sfoderato contro le donne - vede all'opera solerti officianti. A
Occidente soprattutto la schiera di esperti di una bioetica declinata al
maschile, disciplinante e normativa e ben lontana da quel "luogo di
incessante elaborazione e confronto senza immediate finalita' normative"
auspicato da Stefano Rodota' (Questioni di bioetica). Piu' lontana e chiusa
al reale persino della fiction televisiva (vedi "ER" o "Friends") che sa
dare voce e trama ai dilemmi e alle opportunita' dei nostri giorni, famiglie
allargate, figli condivisi, single madri e padri, omosessuali che adottano
bambini, eutanasia, inseminazione artificiale...
Non vi e' risposta possibile alla violenza di questo conflitto se non
attingendo al guadagno che l'elaborazione del femminismo su sessualita' e
aborto ha offerto a tutte e tutti, contro la scissione fra corpo e politica,
fra legge ed esperienza. Con la capacita', a partire da se' e interrogando
il proprio desiderio, di porsi quelle domande che ritornano oggi intatte e
cruciali: in primo luogo sulla biologia e il potere medico che riformulano e
riconfigurano lingua ed esperienza del nascere e del procreare. Domande
sulla denaturalizzazione e la smaterializzazione del corpo e sullo svincolo
della procreazione dal corpo e dalla sessualita'. Un processo lento e
progressivo che, dagli anni Sessanta in poi con la pillola anticoncezionale,
prima ha separato la sessualita' dalla procreazione e oggi la procreazione
dalla sessualita'.
Le domande cruciali sulle biotecnologie sbandierano un "tutto e' possibile"
che esaspera l'antica invidia maschile della potenzialita' generativa
femminile e ingigantisce l'incubo della sua autosufficienza. Risvegliando
l'arcaico sentimento proprietario dell'uomo sulla propria donna e sulla
propria prole. Certezza genetica, paternita' di sangue, orrore per il
fantasma dell'"altro" che torna oggi in forma di rigetto isterico
dell'inseminazione eterologa. Ma, di contro, anche la posizione femminile
nella procreazione hi-tech risulta, se non incomprensibile, muta, se muto
continua a essere il desiderio che muove la scelta della via crucis
ormonale.
*
La madre come nemica
Torna l'antico conflitto tra donne e uomini sul generare. Con gli uomini (e
le donne arruolate nel loro ordine simbolico) pronti ad armarsi del feto,
farlo diventare bambino e impugnarlo per combattere, alla pari, con
l'autodeterminazione femminile. Feto contro madre, cancellando una verita'
inoppugnabile: il feto e' la madre, e puo' diventare da progetto di vita a
bambino solo con il suo consenso. Senza il si' di una donna non c'e' vita
possibile. Cosi' e' stato, mistero della fede, anche per Cristo concepito e
partorito dalla Madonna. Vita possibile che non si puo' ridurre a
biologismo, a puro materiale organico che si incontra e si mescola, ma che
dalla biologia trasmigra nella biografia. Venire al mondo acquista cosi' il
senso pieno dell'essere accolti nella comunita' degli umani, nutriti al
mondo. Per mediazione insostituibile materna. Di lingua, di affetto, di
relazione, di carezze e di cibo.
Fa paura - e getta ombre inquietanti sul referendum che ci attende in
materia di procreazione assistita - che si risponda a una tale violenza
sulle donne per legge di stato trincerandosi dietro la laicita'. Laici
versus integralisti, progresso scientifico versus oscurantismo, e non
impugnando con forza l'unico principio etico possibile: la scelta nelle mani
di una donna.
*
Origine e fine
Nella partita che si sta giocando sul corpo delle donne, nel mondo
dell'impotenza maschile che si copre di armi o di protesi tecnoscientifiche,
nel mondo del desiderio zoppicante tra uomini e donne, dell'insicurezza e
della fragilita' su scala globale, delle "vite precarie" della guerra
permanente come unica soluzione dei conflitti, tornano vestite a nuovo
fantasie e paure tenacemente radicate nella storia dei rapporti tra i sessi.
La violenza latente, che si avverte sempre possibile da parte di un uomo sul
proprio corpo di donna. Lo sgomento maschile di fronte alla sessualita'
femminile (ma anche alla propria). Area selvaggia e pulsionale che domanda
limiti e controllo. Non cosi' per l'antico sogno maschile, che ora la
bioscienza rende un possibile traguardo, della completa riproduzione
artificiale. Traguardo terribile che lascia sgomenti (meglio sarebbe dire
sgomente) ma che non ha provocato le stesse vibranti dichiarazioni di paura
e di preoccupazione che si sono levate a proposito di possibile clonazione
umana.
Dal Corpo della donna come luogo pubblico descritto da Barbara Duden al
grembo di transito all'Eclissi della madre (titolo del libro scritto da
Maria Luisa Boccia e Grazia Zuffa, un testo che resta imprescindibile per
chiunque pretenda di parlare in materia). "Scomparsa la madre, risolto quel
malaugurato passaggio nel corpo femminile, viene reciso il tramite, non solo
fisico, tra la singolarita' che nasce e quella che genera: viene cioe'
recisa l'origine umana, non meramente biologica che fin qui nascere da donna
assicura. Per pensare questo salto nel vuoto, ci sentiamo, sia pur poco,
attrezzati? A questa domanda la scienza, che pure lo apre, non ha alcuna
risposta da fornirci", scrive Boccia tornando a distanza di anni su quel
nodo cruciale (Un'appropriazione indebita).
Quello che fin qui nascere da donna ha assicurato.
Questo si' scontro di civilta': fra l'ordine della nascita, la lingua dello
scambio e del desiderio che genera altra vita dalla propria vita, e l'ordine
della guerra.
*
Nota: procreazione assistita, saggi in libreria
Fra i testi da segnalare, nella ormai ricchissima bibliografia
sull'argomento segnaliamo alcuni testi che danno conto della lunga
elaborazione, in primo luogo, femminil-femminista in materia di procreazione
assistita: Barbara Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico.
Sull'abuso del concetto di vita, Bollati Boringhieri, 1994; Maria Luisa
Boccia e Grazia Zuffa, L'eclissi della madre. Fecondazione artificiale,
tecniche, fantasie e norme, Pratiche, 1998; Carlo Flamigni, Il libro della
procreazione, Mondadori 1998, Avere un bambino, Mondadori, 2001 e La
procreazione assistita, il Mulino, 2002; Gruppo di lavoro sui problemi etici
posti dalla scienza, Bioetica, aborto, eutanasia, Claudiana 1998 e, sempre
dello stesso editore, Procreazione medicalmente assistita, 1999; Maurizio
Mori, La fecondazione artificiale, Laterza, 1995; Tamar Pitch, Un diritto
per due. La costruzione giuridica di genere, sesso e sessualita', il
Saggiatore, 1998; Franca Pizzini, Maternita' in laboratorio, Rosenberg &
Sellier, 1992; (a cura di), Madre Provetta. Costi, benefici e limiti della
procreazione artificiale, Franco Angeli, 1994; Stefano Rodota' (a cura di),
Questioni di bioetica, Laterza 1993; Amedeo Santosuosso, Silvia Garagna,
Carlo Alberto Redi, Maurizio Zuccotti, Le tecniche della biologia e gli
arnesi del diritto, Ibis, 2003; Silvia Vegetti Finzi, Il bambino della
notte, Mondadori 1990; Chiara Lalli, Liberta' procreativa, Liguori, 2004;
Aa. Vv., Un'approriazione indebita. L'uso del corpo della donna nella nuova
legge sulla procreazione assistita, Baldini Castoldi Dalai editore, 2004;
Chiara Valentini, La fecondazione proibita, Feltrinelli, 2004: Mary
Warnock - la madre della legge inglese sulla fecondazione artificiale -,
Fare bambini. Esiste un diritto ad avere figli?, Einaudi, 2004.

2. RIFLESSIONE. SIMONETTA FIORI INTERVISTA ANNA BRAVO
[Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo questa intervista di
Simonetta Fiori a Anna Bravo apparsa sul quotidiano "La Repubblica" del 2
febbraio 2005.
Simonetta Fiori e' giornalista e saggista, scrive per le pagine culturali
del quotidiano "La Repubblica".
Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha
insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e
genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non
omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni
nazionali e internazioneli. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha
diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione
nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle
storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza
in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni
culturali. Opere di Anna Bravo:  (con Daniele Jalla), La vita offesa,
Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza,
Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di
memoria della deportazione dall'Italia,  Milano 1994; (con Anna Maria
Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza,
Roma-Bari 1995; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri,
1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e
donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; Storia sociale delle donne
nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il Fotoromanzo, Il
Mulino, Bologna 2003]

Fin dal titolo, la materia s'annuncia bruciante: "Noi e la violenza.
Trent'anni per pensarci". Il saggio, scritto dalla storica torinese Anna
Bravo, colpisce per il tentativo impervio di ripensare un'esperienza
largamente condivisa tra gli anni Sessanta e Settanta: il movimento
femminista con le battaglie per la legalizzazione dell'aborto, ed anche una
pratica politica totalizzante, non immune dal virus della violenza.
Terreno minato, attraversato dalla studiosa senza pentimenti o abiure
postume. Perche' Anna Bravo - storica molto apprezzata per i suoi studi
sulla Resistenza, a lungo professoressa di Storia sociale alla facolta' di
Magistero a Torino - non rinnega niente del suo passato, allora militante in
Lotta Continua. Ne' oggi appartiene alla nutrita schiera di ex sessantottini
traslocati con zelo nella nuova destra.
Solo che da tempo avvertiva il bisogno di rompere il velo di reticenze
gettato su quella stagione, "una resistenza quasi fisica a rovistare negli
angoli oscuri del passato". "Per ragioni di studio", racconta, "mi sono
imbattuta piu' volte nelle narrazioni scritte ed orali di donne della
Resistenza, avvertendo come un limite le omissioni sulla pratica della
violenza partigiana. Me ne lamentavo, insoddisfatta. Fin quando ho capito
che facevo lo stesso con la mia storia". Incoraggiata dalla redazione di
"Genesis", la rivista della Societa' delle storiche, ha deciso di fare i
conti con i suoi "peccati d'omissione" in un saggio che incrocia il rigore
del metodo storiografico con l'emotivita' d'una studiosa che parla di se' e
del suo vissuto (l'intervento figura nel nuovo numero di "Genesis" dedicato
agli anni Settanta, in libreria da venerdi' nelle edizioni Viella). Un
tentativo di storicizzazione reso piu' complicato dall'inevitabile
autobiografismo. Ed esposto al rischio di strumentalizzazione, in una fase
in cui da piu' parti si rimette in discussione la legge sull' aborto. "Giu'
le mani dalla legge", chiarisce opportunamente lei. "Non e' certo questo
l'obiettivo del mio intervento. In Italia gli attacchi contro l'aborto hanno
toni non meno odiosi di trent'anni fa. Ma la paura di essere fraintesa non
mi deve trattenere dal dire a voce alta molte cose che in questi anni ho
elaborato in silenzio. E con me molte altre donne".
Di quali reticenze si sono rese colpevoli le femministe? Secondo Anna Bravo,
tra le ragioni che hanno prodotto un vuoto storiografico sui femminismi
negli anni Settanta e' il rapporto irrisolto con la violenza, "quella di cui
portiamo una responsabilita' per averla agita, tollerata, misconosciuta,
giustificata". Non solo negli scontri di piazza o nei picchettaggi, ma anche
"nell'immaturita'" - cosi' la definisce - con cui allora le donne si
misuravano con la questione dell'aborto. "Tendevamo a sorvolare sul fatto
che le vittime erano due, la donna ed anche il feto. E che non sempre la
donna era una vittima: poteva sceglierlo per rifiuto della maternita',
perche' non si sentiva pronta, per ostilita' alla propria madre, perche'
c'erano altre priorita'. Eravamo giovani, nel pieno della lotta per la
depenalizzazione esplosa in tutto il mondo occidentale. Vivevamo di corsa,
totalmente assorbite dalla politica. 'Per i figli c'e' tempo', si pensava.
Lo trovavamo naturale".
Non bisogna pero' dimenticare la terribile piaga dell'aborto clandestino che
con quelle lotte si voleva sanare. "Sicuramente. Le donne allora morivano
nella solitudine, nella sofferenza, nell'infelicita'. E potevano essere
anche denunciate". Dunque sacrosanta la battaglia, ma "ci sono molte cose di
cui allora si parlava poco o quasi niente. Che il feto fosse materia
vivente, non implicava considerarlo una vita. Tuttavia non abbiamo mai
discusso sul passaggio dall'una all'altra condizione. Ne' nei nostri
documenti c'e' mai traccia della sofferenza del feto prodotta
dall'interruzione della gravidanza. Gli fara' male? E quando? Dopo la
ventiquattresima settimana? C'e' modo di porvi rimedio? Ecco: non eravamo
sfiorate da timori o inquietudini". E' vero, aggiunge, l'ottusita' era anche
necessaria per difendersi dalle immagini da Grand Guignol degli
antiabortisti.
"Sono lontanissima dal pensare che avremmo dovuto sbattere la sofferenza del
feto sulla nostra stessa faccia, torturatrici oltre che assassine. Riconosco
che il discorso allora sarebbe stato sconvolgente, impensabile. Resta il
fatto che la domanda non ce la siamo mai fatta. E riflettendo sul non detto
di allora, forse possiamo parlarne oggi".
Gia' Anna Rossi-Doria, una decina d'anni fa, rilevava che la
politicizzazione della campagna sull'aborto aveva avuto l'effetto di ridurlo
a una sorta di "diritto civile, a un obiettivo di progresso contro la
reazione che lo combatteva", annullando o rimuovendo le grandi questioni che
stavano sullo sfondo. Un principio di riflessione (di cui da' conto il libro
di Guido Crainz Il paese mancato) che ora Anna Bravo conduce ancora piu'
avanti. Secondo la studiosa torinese, in questa liquidazione dei grandi temi
agiva anche l'incapacita' di misurarsi con la morte. "La scheggia di
generazione che eravamo - parlo soprattutto di donne e uomini della sinistra
extraparlamentare - la considerava un evento iscritto nella lotta politica.
I morti si piangevano, ma piangerli significava vendicarli. Scandire 'Per i
compagni morti non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto'
significava alleggerire la sofferenza grazie a una potente simbologia".
Poi sono arrivati "i terribili funerali" sul finire degli anni Settanta,
"con canzoni, poesie, fiori, letture, in qualche caso con la riscoperta del
banchetto al rientro dal cimitero". La morte in ogni caso negata, rimossa,
rifiutata. Questa "immaturita'", queste rimozioni si iscrivevano - secondo
Anna Bravo - in un clima profondamente violento. La violenza intesa come
cifra naturale della lotta politica. E non solo perche' immessi in una
tradizione rivoluzionaria, marxista e comunista, o perche' suggestionati
dall'anziano partigiano che dichiarava di aver consegnato dopo la
Liberazione soltanto i ferrivecchi. "I maestri ce li siamo scelti noi. E ci
piacevano violenti. Ci riconoscevamo profondamente nell'ideologia della
violenza rifondatrice: un mito che passava attraverso le figure del
combattente in Spagna, del comunardo, del ribelle risorgimentale, del
cittadino in armi della rivoluzione francese, del resistente italiano, del
guerrigliero in America Latina".
Basta con la tesi di uno stato di grazia originario, bruscamente interrotto
dalla strage di Piazza Fontana. Per molti interpreti di quella stagione, la
tragedia milanese rappresento' la perdita dell'innocenza, il disvelamento
d'uno Stato feroce e connivente con l'estrema destra. Ma per la Bravo questa
tesi e' una verita' parziale. Nel solco gia' tracciato da Adriano Sofri,
ritiene che anche prima del 12 dicembre 1969 "ci riempivamo la bocca di
discorsi bellicosi". E che al dolore prodotto da una cattiva politica
fondata sul linciaggio morale le donne non si sono mai opposte. "Prendendo
posizione apertamente, avremmo contribuito a spegnere l'enfasi guerriera di
alcuni. Ma non abbiamo avuto abbastanza coraggio e lucidita'. Non bastava
dire, come in molte abbiamo fatto: quella cosa la' io non la faccio.
Permettevamo che altri le facessero. Purtroppo non e' opera nostra il piu'
bel detournement che io ricordi, quando in calce alla scritta murale 'Coi
fascisti non si parla, si spara', qualcuno ha aggiunto: 'Firmato: Buffalo
Bill'".
Riflessione dolorosa e di straordinaria attualita', in un momento in cui si
riparla di tragiche vicende di trent'anni fa, come l'omicidio dei due
fratelli di Primavalle, figli di un segretario di sezione dell'Msi. Anche
sul terrorismo di sinistra Anna Bravo ha parole molto dure. "Nelle
testimonianze dei protagonisti e' debolissima la consapevolezza del dolore
irreparabile procurato all'epoca. Su questo prevale l'enfasi sulla
dimensione soggettiva, sulla nuova persona che ormai si e', sul contesto di
allora e sugli errori dell'analisi politica. Le vittime stanno fuori o sullo
sfondo". Se le domandi perche' oggi abbia sentito il bisogno di scrivere
cose lungamente meditate, ti risponde: "Sono tanti i ragazzi di oggi che
vogliono sapere del Sessantotto. Era bellissimo, mi viene da dire. Ma non
era tutto oro. Era anche dolore e violenza. Ed e' bene oggi fare i conti
anche con i lati piu' oscuri".

3. RIFLESSIONE. SIMONETTA FIORI INTERVISTA DACIA MARAINI
[Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo questa intervista di
Simonetta Fiori a Dacia Maraini apparsa sul quotidiano "La Repubblica" del 4
febbraio 2005. Dacia Maraini, nata a Firenze nel 1936, scrittrice,
intellettuale femminista, e' una delle figure piu' prestigiose della cultura
democratica italiana. Tra le opere di Dacia Maraini: L'eta' del malessere
(1963); Crudelta' all'aria aperta (1966); Memorie di una ladra (1973); Donne
mie (1974); Fare teatro (1974); Donne in guerra (1975); (con Piera Degli
Esposti), Storia di Piera (1980); Isolina (1985); La lunga vita di Marianna
Ucria (1990); Bagheria (1993)]

"Ben venga la riflessione di Anna Bravo", esordisce Dacia Maraini, la
scrittrice che forse per prima (una decina di anni fa) ha sollevato il velo
di reticenze sull'aborto. In Un clandestino a bordo, ripercorrendo una
dolorosa vicenda privata, lo definiva "il luogo maledetto dell'impotenza
storica delle donne": una posizione nitida e coraggiosa, in sintonia con
l'evolversi del pensiero femminile, che nulla concedeva al fronte degli
antiabortisti. Cosi' come oggi altrettanto limpidamente la storica Anna
Bravo riflette sulle battaglie femministe degli anni Settanta (nell'ultimo
numero di "Genesis", Viella) senza nulla concedere ai detrattori della legge
che legalizza l'aborto. "Di interventi come questi", aggiunge la Maraini,
"ce ne vorrebbero di piu'. Quel che e' mancato al femminismo e' proprio la
sua storicizzazione. Non siamo state finora capaci di raccontare anche a noi
stesse cosa e' stato il movimento. Vogliamo cominciare?".
*
- Simonetta Fiori: Anna Bravo, nel suo saggio sulla violenza negli anni
Settanta, parte proprio da qui: dal vuoto storiografico sul femminismo. E lo
attribuisce al rapporto irrisolto con la violenza.
- Dacia Maraini: Su questo non sono d'accordo. C'era anche violenza, nel
movimento: ma si trattava di alcune frange piu' estremiste, che io allora
non approvavo. In linea di massima era un movimento pacifista, dove la
violenza - se c'era - era soprattutto verbale.
- Simonetta Fiori: Ma la violenza evocata dalla Bravo - piu' che praticata
direttamente - era quella "tollerata" dalle donne con silenzio complice.
- Dacia Maraini: Si', forse c'e' stato qualche silenzio di troppo. Puo'
darsi che siamo state consenzienti e taciturne rispetto alla violenza dei
compagni maschi, ma questo e' accaduto soprattutto nella sinistra
extraparlamentare, dove si ricomponeva una piramide perfettamente simile a
quella della societa' borghese che volevamo rovesciare. Non si combatte la
violenza con la violenza: potevamo dirlo allora con piu' forza. Ma -
ripeto - in generale il movimento femminista non e' stato violento.
- Simonetta Fiori: Un punto delicato investe l'aborto: nel ripercorrere le
battaglie di trent'anni prima, la studiosa torinese registra una sorta di
"immaturita'" con cui allora le donne si misuravano con questa scelta,
lasciando sullo sfondo temi fondamentali come la vita e la morte.
- Dacia Maraini: Sono perfettamente d'accordo su un punto: l'aborto non e'
una bandiera, ne' un diritto, ne' una conquista. L'ho scritto una decina
d'anni fa: e' una sconfitta storica, bruciante e terribile, che si esprime
in un gesto brutale contro se stesse e il figlio che e' stato concepito. E'
un progetto di vita che s'interrompe. Ma non parlerei di "immaturita'" delle
donne: piuttosto di diffusa aggressivita', un atteggiamento allora
necessario.
- Simonetta Fiori: Perche'?
- Dacia Maraini: Bisognava rompere una sudditanza civile e politica che
durava da secoli. Non e' facile uscire dalla soggezione: ci vogliono impeto
e passione, pulsioni che possono apparire violente ma non lo sono. Stiamo
attenti a non criminalizzare un movimento che e' stato fondamentale.
- Simonetta Fiori: Ma nessuno vuole criminalizzare il femminismo,
tutt'altro. Nel saggio di Anna Bravo non c'e' ombra di pentimento ne' di
"revisionismo". C'e' un tentativo di storicizzazione, che pone domande che
nessuno finora ha posto con altrettanto coraggio.
- Dacia Maraini: Questo si', la storicizzazione e' mancata completamente.
Non ne sappiamo piu' niente. Le ragazze di oggi non hanno la minima idea di
cosa fosse l'autocoscienza. Non siamo state capaci di raccontare anche a noi
stesse la nostra storia.
- Simonetta Fiori: La ragione?
- Dacia Maraini: Le donne sono le principali nemiche di se stesse. Riescono
a seppellire anche le proprie origini. E' la vecchia questione della
mancanza di autostima che colpisce il genere femminile: preferiamo fare male
a noi stesse piu' che agli altri. Bene ha fatto Anna Bravo a rompere questo
silenzio.

4. RIFLESSIONE. SIMONETTA FIORI INTERVISTA LUCIANA CASTELLINA
[Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo questa intervista di
Simonetta Fiori a Luciana Castellina apparsa sul quotidiano "La Repubblica"
del 5 febbraio 2005. Luciana Castellina, militante politica, promotrice
dell'esperienza del "Manifesto", piu' volte parlamentare italiana ed
europea, e' tra le figure piu' significative dell'impegno pacifista in
Europa. La gran parte degli scritti di Luciana Castellina, testi di
intervento politico e di giornalismo militante, e' dispersa in giornali e
riviste, atti di convegni, dibattiti parlamentari; in volume segnaliamo
particolarmente: Che c'e' in Amerika?, Bertani, Verona; e il recente (a cura
di), Il cammino dei movimenti, Intra Moenia, Napoli]

"L'unica cosa di cui mi pento e' di non aver votato allora a favore della
legge per la legalizzazione dell'aborto. Era la migliore in Europa, ma ci
appariva piena di paletti e lacciuoli. Per il resto, non ho cambiato una
virgola di quel che pensavo in quegli anni". Luciana Castellina si muove
agile ed elegante nella luminosa casa ai Parioli. Ovunque pile di libri,
anche le prime edizioni francesi di Marinetti e una curiosa collezione di
Pitigrilli, ereditate dall'amatissima mamma Lisetta, morta poco tempo fa
("Aveva centouno anni. Viveva con me, nell'altra ala della casa. C'erano
piu' di trecento persone al funerale", s'emoziona come di un dolore ancora
forte). Pesca tra le carte un vecchio fascicolo ingiallito, gli atti della
Camera dei Deputati con la seduta del 15 dicembre del 1976, presidente della
Camera Ingrao: un capitolo del lungo iter parlamentare della legge, partito
nel 1973 e concluso cinque anni piu' tardi. "Li' dentro c'e' tutto. Anche la
mia polemica con Natalia Ginzburg proprio sul tema dell'aborto".
*
- Simonetta Fiori: Perche' polemizzaste?
- Luciana Castellina: Quando esplosero le prime manifestazioni femministe
per l'aborto, prevalsero sorpresa, indignazione, anche scandalo. Perche'
mai, domando' la Ginzburg, questa "gagliarda spavalderia", questa "libera ed
allegra festa", questo "scampanio festoso" per una questione cosi'
drammatica? Non capiva quale carica di liberazione rappresentasse per le
donne.
- Simonetta Fiori: In quell'intervento alla Camera, lei rivendico' con
convinzione le "ragioni della festa".
- Luciana Castellina: Finalmente potevamo gridare per la strada un problema
per secoli rimasto sepolto nella coscienza, custodito segretamente, oggetto
di vergogna, tabu' e colpa.
- Simonetta Fiori: Non eravate piu' sole.
- Luciana Castellina: Si', lo "scampanio" deprecato allora da una scrittrice
sensibile e non certo conservatrice come Natalia Ginzburg era mosso proprio
da questo: dal non trovarci piu' sole davanti a questo dramma.
- Simonetta Fiori: Non pensa - come fa Anna Bravo in un saggio pubblicato
sull'ultimo numero di "Genesis" (Viella) - che ci fu anche una certa
immaturita' nel misurarsi con il tema dell'aborto?
- Luciana Castellina: No, non sono affatto d'accordo. Per molte di noi -
parlo della nuova sinistra - fu una grande battaglia sociale, tesa anche a
sanare quella terribile piaga che era l'aborto clandestino. Diverso era il
punto di vista dei radicali, che trattava l'aborto negli angusti termini di
un diritto civile.
- Simonetta Fiori: Alcune questioni etiche essenziali rimasero pero' sullo
sfondo.
- Luciana Castellina: Ma quelle sono riflessioni di carattere religioso,
discussioni interne alla Chiesa cattolica. Lascio ad altri decidere quando
nell'embrione viene soffiata l'anima. Erano altre le nostre priorita'.
- Simonetta Fiori: Quali?
- Luciana Castellina: Forse bisogna ricordare cos'era la sessualita' negli
anni Cinquanta. Non esisteva la contraccezione e moltissime donne si
trovarono a subire gravidanze non desiderate. Quella si' che era una
violenza: imporre alle donne di essere madri dopo un atto sessuale. Io
allora ero segretaria della sezione universitaria del Pci, e sentii il
dovere di aiutare molte compagne che volevano abortire: uno strazio
indicibile. Questa era la nostra condizione.
- Simonetta Fiori: Un po' come nel film Il segreto di Vera Drake.
- Luciana Castellina: Si', il clima cupo e claustrofobico era proprio quello
evocato da Mike Leigh. Puo' far riflettere il paradosso che allora il
problema era interrompere gravidanze indesiderate, mentre oggi le donne piu'
giovani si confrontano col problema opposto: non arrivano piu' i figli
desiderati e ci si affanna con le tecniche di fecondazione artificiale.
- Simonetta Fiori: Poi sono arrivati gli anni Sessanta.
- Luciana Castellina: Ma nel Pci non si muoveva granche'. Sul tema della
sessualita' era di un conservatorismo spaventoso. Ricordo ancora un convegno
promosso dall'Istituto Gramsci nel 1964 sulla famiglia nella tradizione
marxista. Relazione introduttiva di Nilde Jotti: "Nel rapporto sessuale -
mmh, pardon, scusate la parola - nel rapporto sessuale etc etc." Ecco,
sessuale era una parolaccia. E parlo di una protagonista nelle battaglie per
l'emancipazione delle donne.
- Simonetta Fiori: Stavate insieme nella commissione femminile.
- Luciana Castellina: Si', sempre in quegli anni insieme a Diana Amato
preparammo un testo sul divorzio all'interno della riforma del codice di
famiglia. Spavalde e fiere, presentammo la nostra proposta alla direzione
del Pci, che si frantumo' in due schieramenti: favorevoli Longo e Macaluso,
violentemente contro Amendola e Pajetta.
- Simonetta Fiori: Sappiamo come ando' a finire.
- Luciana Castellina: A testa bassa, fummo costrette a ripresentare la
riforma del codice di famiglia: questa volta senza l'articolo sul divorzio.
- Simonetta Fiori: La ragione della contrarieta'?
- Luciana Castellina: Era un tema troppo borghese, si pensava che alla
classe operaia non interessasse. E poi l'eterno moralismo.
- Simonetta Fiori: Per l'aborto non ando' molto meglio. Guido Crainz, nel
libro Il Paese mancato, pubblica per la prima volta i verbali delle
direzioni del Pci sul tema dell'aborto. Le prime reazioni di Adriana Seroni
furono di profonda irritazione. Nel febbraio del 1973, la proposta di legge
presentata dall'onorevole Fortuna fu respinta con convinzione.
- Luciana Castellina: Anche li' il ritardo fu pauroso. Io allora, gia' da
tempo nel gruppo del "Manifesto", seguivo quegli eventi da fuori. Mi si
ripresentavano i riti letargici con cui era stato accolto il divorzio. Con
la differenza, pero', che la questione dell'aborto era ancora piu' popolare
rispetto a quello del divorzio: gran parte delle donne, direttamente o
indirettamente, s'era imbattuta nel problema.
- Simonetta Fiori: E infatti, gia' all'inizio del 1975, sia la Seroni che la
Jotti fecero presente in direzione che "nelle sezioni la spinta delle donne
e' di proporzioni inimmaginabili" e che "non c'e' riunione in cui il
problema non ci venga sbattuto in faccia". E tuttavia, nel febbraio del
1976, il principio di autodeterminazione della donna venne nuovamente
respinto.
- Luciana Castellina: Si', era in gioco il rapporto con il mondo cattolico e
con la Dc. E poi agiva anche una sorta di perbenismo, che segnava da sempre
il partito.
- Simonetta Fiori: Alla fine le donne convinsero il vertice. Sempre nel
gennaio del 1976 Bufalini protesto' perche' su "Rinascita" erano uscite
quattro lettere contrarie alla posizione del Pci e una sola favorevole.
Reichlin gli rispose: "La lettera a favore l'abbiamo racimolata a fatica".
- Luciana Castellina: Furono le donne a vincere quella battaglia. E
francamente, per tornare alla provocazione di Anna Bravo, trovo sbagliato
legare quelle conquiste alla violenza. Il gruppo in cui poi lei militava,
Lotta Continua, era tutt'altro che femminista: sbagliato dunque
identificarvi tutto il movimento delle donne. Secondo il suo ragionamento,
la mancata storicizzazione dei femminismi negli anni Settanta sarebbe da
attribuire al rapporto irrisolto con la violenza. Ma quale violenza?
- Simonetta Fiori: La violenza esercitata in piazza, sostiene la Bravo, ma
anche nella rimozione dei grandi temi intorno all'aborto.
- Luciana Castellina: Quando si parla di nuova sinistra, si tende a fare un
po' di confusione. Dal 1971 al 1977 ci fu un grande dibattito sulla
questione della violenza e del terrorismo. I grandi partiti, a cominciare
dal Pci, non se ne interessarono. Non capirono e non aiutarono. Un pezzo
della nuova sinistra scelse l'istituzione democratica, gli altri la P38. Non
eravamo tutti eguali.
- Simonetta Fiori: Che cosa intende?
- Luciana Castellina: Noi non avevamo il servizio d'ordine.
- Simonetta Fiori: Quel che rileva Anna Bravo e' che le donne allora
preferirono tacere complici, piuttosto che alzare la voce contro gli atti di
violenza dei loro compagni maschi.
- Luciana Castellina: Ma l'idea che le donne siano naturalmente miti e gli
uomini violenti francamente non mi persuade. La violenza non e' mai stata
una differenza di genere. Nel terrorismo hanno militato molte protagoniste
femminili. E questo della donna angelicata mi sembra la riproposizione d'un
vecchio cliche'.

5. LIBRI. SANDRO MEZZADRA PRESENTA "CRITICA DELLA RAGIONE POSTCOLONIALE" DI
GAYATRI CHAKRAVORTY SPIVAK
[Dal quotidiano "Il manifesto" del primo febbraio 2005.
Sandro Mezzadra insegna storia del pensiero politico contemporaneo e Studi
coloniali e postcoloniali al'Universita' di Bologna, e' membro della
redazione di "Filosofia politica" e di "Scienza & Politica"; i suoi
principali argomenti di ricerca sono la storia delle scienze dello Stato e
del diritto in Germania tra Otto e Novecento, la storia del marxismo, la
teoria critica della politica: globalizzazione, cittadinanza, movimenti
migratori, studi postcoloniali. Pubblicazioni principali: von Treitschke, La
liberta', Torino 1997 (cura e introduzione); La costituzione del sociale. Il
pensiero politico e giuridico di Hugo Preuss, Bologna 1999; Diritto di fuga.
Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Verona 2001; Marx, Antologia di
scritti politici, Roma 2002 (cura e introduzione, con Maurizio Ricciardi);
Marshall, Cittadinanza e classe sociale, Roma-Bari 2002 (cura e
introduzione)..
Su Gayatri Chakravorty Spivak riproduciamo la seguente scheda apparsa sul
medesimo quotidiano: "Gayatri Chakravorty Spivak e' nata il 24 febbraio 1942
a Calcutta dove si e' laureata. Nel 1960 e' andata a studiare negli Stati
Uniti, alla Cornell University, dove ha preso un master nel 1962 e il PhD
nel 1967. Ha insegnato inglese e letteratura comparata in numerose
universita', tra cui Stanford, Santa Cruz e la Goethe-Universitat a
Francoforte. E' Avalon Foundation Professor nelle Humanities alla Columbia
University di New York dove insegna dal 1991. Non ha mai voluto prendere la
cittadinanza statunitense. Nel 1976 ha tradotto De la Grammatologie di
Jacques Derrida firmando una prefazione che l'ha resa famosa. Ha scritto
piu' di cento saggi, sparsi in volumi collettanei: alcuni di essi sono
raccolti nei suoi pochi libri. In Italia, i suoi primi testi a essere
tradotti sono stati due saggi: "Decostruire la storiografia", contenuto in
Subaltern Studies, Modernita' e (post)colonialismo, pubblicato da Ombre
corte nel 2002; e "La politica delle interpretazioni" nel volume collettaneo
Spettri del potere, edito da Meltemi nel 2002. Sempre Meltemi ha curato la
traduzione di Morte di una disciplina (2003) e ora del volume A Critique of
Postcolonial Reason (Harvard University Press, 1999), nelle librerie
italiane con il titolo Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia
del presente in dissolvenza.Tra i suoi testi pubblicati in inglese
ricordiamo: In Other Worlds: Essays in Cultural Politics, Methuen, New York
1987; The Post-Colonial Critic: Interviews, Strategies, Dialogues, ed. Sarah
Harasyn, Routledge, New York 1990; Outside in the Teaching Machine,
Routledge, New York, 1993"]

Siamo intorno al 1820, nella regione di Sirmur, basso Himalaya. Sono anni
decisivi per il consolidamento della presenza imperiale britannica in India:
negli ultimi decenni del XVIII secolo una serie di interventi legislativi
aveva modificato in profondita' la struttura e le funzioni della East India
Company, delineando un sistema di governo che sarebbe durato fino al grande
"Ammutinamento", la rivolta anti-britannica del 1857. Subito dopo, muovendo
dall'esigenza di razionalizzare il sistema del prelievo fiscale, e in
particolare l'imposta fondiaria, la Compagnia aveva finito per realizzare un
intervento di ampia portata sulla definizione stessa delle figure sociali
nelle campagne del Bengala, introducendovi un diritto proprietario modellato
su quello inglese. Nel 1813, la dichiarazione di sovranita' della Corona
britannica sul territorio acquisito nel subcontinente, rappresento' anche
formalmente un momento di stabilizzazione del dominio coloniale, mentre nel
1818 l'annessione dei territori dei marathi assicuro' continuita'
territoriale a quello stesso dominio. Un anno prima, anche sotto il profilo
culturale, l'uscita della monumentale History of British India di James
Mill, il filosofo "radicale" che si era ben guardato dal mettere piede in
Asia, aveva dato espressione a un significativo mutamento nell'atteggiamento
britannico nei confronti dell'India: alla fascinazione per gli aspetti
esotici dell'"Oriente" subentrava ora una schietta rivendicazione di
superiorita' culturale dell'"Occidente", mentre il tema della "conquista" si
ritirava sullo sfondo lasciando spazio ai problemi del governo, della
"riforma" e della modernizzazione dei territori e delle popolazioni del
subcontinente.
E' in questo contesto che ha luogo un episodio certo "minore" nella storia
del colonialismo britannico in India. Torniamo a Sirmur, dunque: il Raja
locale, Karam Prakash, viene deposto dai britannici in ragione della sua
"barbarie" e "dissolutezza". Vi sono buone ragioni per pensare che la
principale prova a suo carico fosse il fatto che aveva la sifilide. La
reggenza viene assegnata a un figlio minorenne del Raja, di cui viene
riconosciuta come tutrice la regina (la Rani). Un bambino come reggente,
posto sotto la tutela di una donna: una situazione ottimale per preparare la
soluzione, a cui puntavano gli inglesi, di uno smembramento di Sirmur.
A questo punto, pero', avviene qualcosa di strano. Un funzionario
britannico, il Capitano Birch, scrive al Residente a Dehli che la Rani,
rimarcando che "la propria vita e quella del Raja sono una cosa sola", gli
ha comunicato la propria decisione di farsi ardere sulla pira funebre del
marito alla morte di lui. Il Capitano chiede di essere autorizzato a
intervenire nel modo piu' deciso per scongiurare il suicidio della Rani di
Sirmur, coniugando opportunita' politica e sincera riprovazione morale per
un'usanza come il sacrificio rituale delle vedove: per quel sati su cui gia'
nel decennio precedente erano divampate furiose polemiche, che avevano
coinvolto amministratori coloniali e sezioni delle elite autoctone, e che
sarebbe stato dichiarato illegale dal governatore generale Lord Bentinck nel
1829, con il plauso di intellettuali indiani "illuminati" come Ram Mohan
Roy. Gli archivi non riportano la conclusione della vicenda, ma pare che la
Rani di Sirmur sia morta di morte naturale.
*
Ora, vittime certamente di un pregiudizio "orientalista", possiamo
immaginare che la Rani di Sirmur fosse una donna schiva e riservata, di
poche parole. Chissa' come avrebbe reagito di fronte al vero e proprio
profluvio di parole che l'ha investita negli ultimi vent'anni, dopo che nel
1985 Gayatri Chakravorty Spivak, una raffinata intellettuale indiana
trasferitasi negli Usa, dove si era conquistata una discreta notorieta'
cimentandosi nell'ardua impresa di tradurre in inglese la Grammatologia di
Derrida, pubblico' sulla sua storia un saggio sulla rivista "History and
Theory". Forse avrebbe tratto conforto dalla scoperta che tre anni dopo
Spivak, in un altro articolo ormai celeberrimo, avrebbe portato a una
provvisoria conclusione le riflessioni avviate proprio con la sua vicenda
dando risposta negativa alla domanda se i subalterni (termine di cui la Rani
non avrebbe certamente inteso il significato e che comunque difficilmente
avrebbe pensato la riguardasse) "possono parlare".
I due saggi di Spivak sono poi stati rielaborati nel capitolo centrale
(quello dedicato alla Storia) di un'opera dall'ambizioso titolo kantiano,
uscita nel 1999 negli Stati Uniti e che ora la casa editrice Meltemi propone
nella traduzione italiana di Angela D'Ottavio e per la cura di Patrizia
Calafato: Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia del presente
in dissolvenza (pp. 477, euro 28).
Intendiamoci: conoscendo per esperienza diretta la difficolta' e la scarsa
considerazione (almeno in Italia) del lavoro dei traduttori di opere
saggistiche, ho sempre ritenuto un punto d'onore ricordarne i nomi. Ma in
questo caso non se ne puo' davvero fare a meno. Per quanto infatti Angela
D'Ottavio, dando prova di notevole understatement, apra la sua nota alla
traduzione informando i lettori che quella di "difficolta'" e' a suo
giudizio "una nozione estremamente ideologica" e che quindi non ha senso
"parlare della scrittura di Spivak come di una scrittura 'difficile'",
davvero non invidio la fatica che deve essere costata la traduzione di
questo libro. Di un libro in cui, per limitarci a qualche esempio, lo Stato
coloniale viene definito con nonchalance "invaginato" e viene indicata come
possibilita' di pratica politica per l'intellettuale "quella di mettere
l'economico 'sotto barratura', e leggere il fattore economico come
irriducibile perche' reinscrive il testo sociale, mentre viene cancellato,
per quanto in maniera imperfetta, nel momento stesso in cui afferma di
essere la causa finale o il significato trascendentale". Lo confesso: la
tentazione di cercare rifugio nella "filosofia prima", abbandonando ogni
pretesa di pratica politica, e' davvero forte dopo avere letto queste righe.
E tuttavia Angela D'Ottavio ha fatto un lavoro realmente egregio, e cosi'
ora i lettori italiani hanno a disposizione la summa teorica di un'autrice
che e' comunque una delle protagoniste dei dibattiti femministi e
postcoloniali a livello globale. Pur non pensando che la nozione di
difficolta' sia solo ideologica (e pur nutrendo una certa insofferenza per
uno stile come quello di Spivak, che trovo spesso estenuante nel continuo
alternarsi di sospensioni e rilanci retorici), evitero' di indulgere sul
tema. Lo fece ad esempio il celebrato critico marxista Terry Eagleton, che
all'uscita dell'edizione originale del volume scrisse una lunga recensione
sulla "London Review of Books", lamentandosi della sua incapacita' di
comprenderlo. E meritandosi cosi' l'ironia di Patrick Wolfe, che in un
intervento recentemente inserito in un bel volume uscito per la casa
editrice Quodlibet (Periferie della storia, a cura di Albertazzi, B. Maj e
R. Vecchi) ha scritto che cio' non costituisce propriamente un merito, ma
semmai una buona ragione "per rifiutare l'incarico di scriverne una
recensione".
Cerchero' dunque di prendere sul serio il lavoro di Spivak, concentrandomi
proprio sulla sezione intitolata alla Storia e riferendomi solo di sfuggita
alle altre sezioni del volume, dedicate alla Filosofia, alla Letteratura e
alla Cultura.
*
E sara' bene dire subito che il saggio di Spivak del 1988, Can the Subaltern
Speak?, ha in buona misura meritato la grande attenzione che gli e' stata
rivolta negli anni successivi, perche' poneva domande davvero cruciali, per
le pratiche storiografiche non meno che per l'accennata questione
dell'impegno politico degli "intellettuali".
Spivak si rivolgeva specificamente, infatti, all'opera di rinnovamento della
storiografia dell'India coloniale portata avanti dal collettivo dei
"Subaltern Studies", a cui si sentiva particolarmente vicina, ma interrogava
piu' in profondita', muovendo da un celebre dibattito tra Foucault e
Deleuze, l'intero campo della teoria radicale europea che proprio negli anni
Ottanta aveva trovato ampia diffusione nelle accademie statunitensi. Agli
storici dei "Subaltern Studies", e prima di tutto a Ranajit Guha che ne era
stato il pioniere, Spivak rimproverava (lo si puo' vedere nel suo intervento
incluso nella silloge Subaltern Studies, uscita in italiano nel 2002 per la
casa editrice Ombre corte) un'ingenua fiducia nella possibilita' di
recuperare la "voce" dei "subalterni" dall'interno degli archivi coloniali,
facendo giocare le provocazioni della decostruzione contro quello che le
appariva un residuo di "umanesimo". Ma piu' in generale, il suo obiettivo
era la rappresentazione degli esclusi, degli sfruttati, dei dominati a
misura delle esigenze degli intellettuali radicali, anche quando (o meglio:
proprio quando) la teoria pretendeva di nutrire una critica, tanto
definitiva quanto superficiale agli occhi di Spivak, di ogni dispositivo
rappresentativo.
Ecco dunque la rilevanza del dibattito ottocentesco sul sati e della vicenda
della Rani di Sirmur. Ricostruendo i dispositivi del discorso coloniale
britannico, del dibattito intellettuale indiano e del discorso braminico sul
sati (ma trascurando, come le e' stato obiettato dal citato Patrick Wolfe,
l'apporto dell'eredita' musulmana indiana) Spivak porta alla luce
insospettate complicita' testuali, e mostra brillantemente come l'intera
discussione sull'argomento si sia fondata su (e abbia prodotto) una doppia
esclusione della donna: mentre nella "tradizione" il sati era funzionale
alla costruzione di un'immagine della "brava donna" dal segno profondamente
patriarcale, i britannici costruirono la donna soltanto come oggetto del
massacro di cui il suo corpo era la scena. Tra l'uno e l'altro polo, scrive
Spivak, "e' lo spazio della libera volonta', della agency del soggetto
sessuato come femminile a essere efficacemente cancellato".
Sviluppando il suo ragionamento sulla "violenza epistemica" del
colonialismo, Spivak giunge a coniare una formula che si e' guadagnata una
meritata fortuna: stigmatizzando culturalmente prima, abolendo per legge
poi, il sati, quel che accade e' che "uomini bianchi stanno salvando donne s
cure da uomini scuri". Questa formula serve a Spivak per sviluppare una
critica impietosa - e decisamente tempestiva, se si pensa che e' stata
originariamente sviluppata a meta' degli anni Ottanta - dei programmi di
intervento su "genere e sviluppo" delle Nazioni Unite e in generale
dell'umanitarismo e della cooperazione politically correct. Le immagini
delle donne di Kabul "liberate" dal burqa dai marines americani dopo l'11
settembre, per venire a fatti a noi piu' vicini, non mostra forse in tutte
le sue insidie la perdurante attualita' del discorso di Spivak?
D'altro canto, la logica esemplificata da quella formula non si limita per
Spivak a infestare testi e realta' coloniali e neocoloniali, fagocitando
metaforicamente e letteralmente la figura dell'"informante nativo" di cui
quei testi e quelle realta' hanno pur bisogno per riprodursi, ma
subdolamente fa capolino anche all'interno della critica postcoloniale,
dell'entusiasmo "terzomondista" di cui e' preda una parte rilevante
dell'accademia statunitense, nonche' di molte critiche che si pretendono
radicali dello stato di cose presente.
Potremmo dire, per citare un autore a cui Spivak insiste a dichiararsi molto
legata e attorno al quale nel libro si possono trovare spunti interpretativi
tutt'altro che trascurabili, che il suo discorso e' un'interminabile glossa
all'affermazione di Marx secondo cui la liberazione della classe operaia non
puo' essere opera che degli stessi operai. Di questa affermazione Spivak ci
mostra tutta la difficolta', il suo indicare un compito infinito assai piu'
che un evento futuro da attendere fiduciosamente.
Critica della ragione postcoloniale, perentorio nella sua scelta di campo
per l'arcipelago delle resistenze a una globalizzazione capitalistica che
pone la donna subalterna come "principale supporto della produzione", mi
pare in fondo condurre verso una conclusione di questo genere. Gli stessi
studi postcoloniali tuttavia (che la casa editrice Meltemi sta
meritoriamente e intelligentemente introducendo nel dibattito italiano)
dovranno battere vie anche sensibilmente diverse da quella di Spivak per
contribuire a sviluppare questa conclusione. Dovranno continuare, pur
consapevoli delle insidie che si celano in questo tentativo, a cercare nel
passato e nel presente la presa di parola dei subalterni (nonche', e a
maggior ragione, delle subalterne). A meno di non volere concedere al
discorso coloniale, come ha scritto Lata Mani in uno dei piu' lucidi
contributi al dibattito suscitato da Can the Subaltern Speak?, "cio' che in
realta' non ha mai ottenuto: la cancellazione delle donne".

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 12 del 13 marzo 2005