La nonviolenza e' in cammino. 884



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 884 del 30 marzo 2005

Sommario di questo numero:
1. Luigi Ferrajoli: La Costituzione stravolta
2. Rosalie Gerut, Wilma Busse, Martina Emme, Tim Blunk: L'esperienza di "One
by One" (parte prima)
3. Luisa Muraro presenta "Piccole donne" di Louisa May Alcott
4. La "Carta" del Movimento Nonviolento
5. Per saperne di piu'

1. APPELLI. LUIGI FERRAJOLI: LA COSTITUZIONE STRAVOLTA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 febbraio 2005 riprendiamo questo
intervento di uno dei piu' illustri giuristi italiani. Come e' noto,
successivamente il Senato ha approvato lo stravolgimento della Costituzione
qui denunciato; restano ora, prima del compiersi del golpe, per poter
fermare il golpe, i passaggi del voto dei due rami del Parlamento in seconda
lettura, e successivamente il referendum: ma certo necessario e urgente un
autorevole intervento del Presidente della Repubblica in difesa della
Costituzione - di cui e' supremo garante -, della legalita', della
democrazia, della liberta' nel nostro paese, della dignita' del nostro
popolo e della vigenza del nostro ordinamento giuridico, ebbene, s'impone;
un intervento come chiede ed argomenta Ferrajoli in punto di diritto e di
fatto in questo denso articolo, un intervento che fermi i golpisti. Luigi
Ferrajoli, illustre giurista, nato a Firenze nel 1940, gia' magistrato tra
il 1967 e il 1975, dal 1970 docente universitario. Opere di Luigi Ferrajoli:
della sua vasta produzione scientifica segnaliamo particolarmente la
monumentale monografia Diritto e ragione, Laterza, Roma-Bari 1989; il saggio
La sovranita' nel mondo moderno, Laterza, Roma-Bari 1997; e La cultura
giuridica nell'Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999]

E' cominciata silenziosamente in senato la discussione sul progetto
governativo di revisione costituzionale gia' approvato dalla camera in una
prima lettura nello scorso ottobre [ricordiamo ancora che questo articolo e'
del 24 febbraio scorso, nel frattempo il senato ha sciaguratamente approvato
in prima lettura la legge anticostituzionale -ndr-]. Si tratta chiaramente,
per le sue dimensioni e per lo stravolgimento progettato, di una nuova
costituzione, promossa da una coalizione di forze - Alleanza nazionale,
Forza Italia e Lega nord - nessuna delle quali ha partecipato alla
formazione della Costituzione attuale.
Il senso politico dell'operazione e' chiaro. Cio' che si vuole realizzare e'
una completa rottura della continuita' costituzionale al fine di rifondare
la Repubblica sulle forze che alla Costituzione del '48 e alla sua origine
antifascista furono estranee od ostili. Proprio perche' non si riconosce
nella Costituzione vigente, questa nuova destra, oggi maggioritaria in
parlamento ma non nel paese, pretende di archiviarla, di varare una sua
costituzione a sua immagine e somiglianza, di rompere il vecchio patto di
convivenza che non a caso Berlusconi ha squalificato come "sovietico".
Di qui una prima domanda: e' legittima, sul piano delle forme e del metodo,
una simile riforma, non consistente in una semplice "revisione"
costituzionale ma nella confezione di una costituzione del tutto diversa,
che cambia al tempo stesso la forma di stato, da nazionale a federale, e la
forma di governo da parlamentare a para-presidenziale e tendenzialmente
monocratica? La risposta e' chiaramente negativa.
La nostra Costituzione, come del resto la quasi totalita' delle costituzioni
democratiche, non ammette il varo di una nuova costituzione, neppure a opera
di un'ipotetica assemblea costituente eletta con il metodo proporzionale che
pur decidesse a larghissima maggioranza. Il solo potere ammesso dal suo
articolo 138 e' un potere di revisione, che non e' un potere costituente ma
un potere costituito, il cui esercizio puo' consistere solo in specifici
emendamenti; laddove, se diretto a dar vita a una nuova costituzione, esso
si converte in un potere costituente e sovrano, anticostituzionale ed
eversivo, in contrasto, oltre che con l'articolo 138, con il primo articolo
della Costituzione secondo cui "la sovranita' appartiene al popolo" che da
nessuno puo' esserne espropriato.
Cio' cui invece stiamo assistendo e' l'approvazione a colpi di maggioranza
di un testo che altera l'intero assetto istituzionale, modificando
competenze e regole di formazione e funzionamento di tutti gli organi
costituzionali: del parlamento e del governo, del presidente della
Repubblica e del presidente del consiglio, dello stato e delle regioni. Il
precedente della sconsiderata riforma del titolo V varata dall'Ulivo e'
invocato a sproposito: benche' gravemente colpevole, quella riforma fu pur
sempre una revisione settoriale della Costituzione che per di piu'
riprodusse, nella sostanza, una modifica che era stata approvata qualche
anno prima dai due schieramenti nella bicamerale. L'attuale disegno riscrive
invece ben 43 articoli della seconda parte, con gli inevitabili riflessi
sulla prima. E' la vecchia idea che Gianfranco Miglio espresse brutalmente
dieci anni fa, dopo la prima vittoria elettorale delle destre: la
costituzione non e' un accordo tra tutti sulle regole del gioco ma e' un
"patto che i vincitori impongono ai vinti".
*
Ma questa nuova costituzione e' illegittima non solo sul piano del metodo,
ma anche su quello dei contenuti, che come stabili' una storica sentenza
della Corte costituzionale del 1988 non possono derogare ai "principi
supremi" della Costituzione.
Non mi soffermo sulla cosiddetta "devolution", che assegnando in maniera
esclusiva alle regioni scuola, sanita' e funzioni di polizia, rompe l'unita'
della Repubblica che si basa sull'uguaglianza dei cittadini nei diritti
fondamentali, quali sono in particolare i diritti sociali alla salute e
all'istruzione.
Neppure mi soffermo sull'incredibile complicazione, quasi un sabotaggio
della funzione legislativa, divisa tra ben quattro tipi di fonti - leggi
della camera, leggi del senato, leggi bicamerali, leggi del senato con
"modifiche essenziali" su iniziativa del governo e, in piu', commissioni e
comitati paritetici per decidere chi deve legiferare e mediare i conflitti -
con l'inevitabile caos istituzionale, le incertezze e gli infiniti
contenziosi che proverranno da una ripartizione inevitabilmente astratta e
generica delle quattro competenze.
L'aspetto piu' grave di questa riforma, senza confronti ne' precedenti in
nessun sistema democratico, consiste nella demolizione del principio della
rappresentanza politica, che e' indubbiamente un "principio supremo"
sottratto al potere di revisione. Viene anzitutto capovolto il rapporto di
fiducia tra parlamento e governo: non sara' piu' il primo ministro,
legittimato direttamente dal voto popolare, che dovra' avere la fiducia del
parlamento, ma sara' il parlamento che dovra' avere la fiducia del primo
ministro, il quale potra' scioglierlo in forza di un potere affidato non
piu' al presidente della Repubblica ma alla sua "esclusiva responsabilita'".
E' prevista soltanto la mozione di sfiducia, votata dalla camera per appello
nominale, approvata dalla maggioranza assoluta dei suoi componenti e seguita
dal suo scioglimento, salvo che sia accompagnata dalla "designazione di un
nuovo primo ministro da parte dei deputati appartenenti alla maggioranza
espressa dalle elezioni, in numero non inferiore alla maggioranza dei
componenti della camera". Non solo: "il primo ministro si dimette altresi'
qualora la mozione di sfiducia sia stata respinta con il voto determinante
dei deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni".
Io credo che queste norme cosiddette "anti-ribaltone" siano il vero cuore
della riforma: il segno inequivoco della svolta che si intende realizzare.
Grazie ad esse saranno impossibili le crisi di governo parlamentari.
Maggioranza e minoranza vengono blindate, sicche' solo i parlamentari della
maggioranza avranno un potere di iniziativa politica e di
responsabilizzazione dell'esecutivo, mentre i parlamentari della minoranza
non conteranno nulla. E' la fine della rappresentanza "senza vincolo di
mandato", sancito quale principio basilare della democrazia politica
dall'art.67, essendo ciascun parlamentare vincolato alla coalizione di
appartenenza.
Non si tratta di una semplice "riforma". Con questa rigida separazione tra
maggioranza e minoranza il parlamento viene di fatto emarginato. Gia' con il
sistema maggioritario e' stata abolita l'uguaglianza nel voto dei cittadini.
Il nuovo sistema abolisce ora anche l'uguaglianza del voto dei parlamentari
ed estromette di fatto l'opposizione da ogni funzione di controllo e di
mediazione politica. Non solo. Esso vanifica anche la rappresentativita' e
la responsabilita' politica dei parlamentari della maggioranza, i quali
risulteranno vincolati da un rapporto di mandato imperativo, non gia' dal
basso ma dall'alto, nei confronti del primo ministro. Queste norme sono
infatti dirette non solo a neutralizzare l'opposizione ma soprattutto a
disciplinare, a ricattare e di fatto a neutralizzare ogni potere di
controllo della stessa maggioranza parlamentare. Ne risultera' una totale
irresponsabilita' del primo ministro di fronte al parlamento in favore di un
suo rapporto organico, diretto, con l'elettorato.
*
Si sta insomma progettando la soppressione della democrazia parlamentare e
forse della democrazia tout court. Giacche' un organo monocratico non
accompagnato da un parlamento indipendente non puo' per sua natura, come
insegnava Hans Kelsen settant'anni fa, rappresentare tutto il popolo, che
non e' un'entita' omogenea ma una pluralita' di soggetti e di interessi
attraversata da conflitti politici e di classe. La democrazia, aggiungeva
Kelsen, "e' un regime senza capi". E l'idea di un rapporto organico tra un
capo e il popolo intero e' un'idea organicistica e populista che contraddice
la nozione stessa della democrazia, non diciamo costituzionale ma
semplicemente "rappresentativa".
Per questo sarebbe essenziale - prima che lo scempio si compia, prima della
seconda lettura del progetto da parte del parlamento - un messaggio motivato
del presidente della Repubblica che quanto meno ricordi alle camere i limiti
del potere di revisione, il fatto che la Costituzione e' un patrimonio di
tutti e l'inviolabilita' dei principi supremi tra i quali rientrano
indubbiamente la rappresentanza politica senza vincolo di mandato e il ruolo
di iniziativa, di controllo e mediazione di un libero parlamento. Se c'e' un
caso in cui l'esercizio del ruolo di garante della Costituzione del
presidente della Repubblica e' doveroso, esso e' proprio questo; tanto piu'
che per le leggi di revisione costituzionale ben difficilmente il presidente
potrebbe ricorrere al potere di rinvio previsto dall'art. 74 prima della
promulgazione, la quale fa seguito al referendum confermativo.
Ma ancor piu' essenziale e' l'informazione dell'opinione pubblica e la sua
mobilitazione intorno al pericolo incombente. Temo che alla base
dell'inerzia dell'opposizione ci sia una scarsa consapevolezza intorno alla
gravita' della posta in gioco e, insieme, il solito timore di "demonizzare"
un avversario che si rivela ogni volta peggiore e, oltre tutto, accusa
quotidianamente la sinistra di preparare al paese terrore, miseria e morte.
E' invece necessario drammatizzare la questione costituzionale proponendola,
semplicemente, come emergenza democratica: come la scelta, cui saremo
chiamati con il referendum costituzionale tra l'istituzione di un regime e
la sopravvivenza della democrazia. Solo cosi', del resto, il referendum
potra' essere vinto: solo se diventera' una grande battaglia di principio,
non inquinata da proposte di compromesso, consapevole della posta in gioco e
dei guasti gia' prodotti dall'avventura berlusconiana, capace di rifondare,
nel senso comune, il valore della Costituzione repubblicana quale fondamento
della nostra democrazia.

2. ESPERIENZE. ROSALIE GERUT, WILMA BUSSE, MARTINA EMME, TIM BLUNK:
L'ESPERIENZA DI "ONE BY ONE" (PARTE PRIMA)
[Ringraziamo di cuore Carla Cohn (per contatti: carlacohn at tele2.it) per
averci inviato l'introduzione del catalogo "One by One - Mostra di opere di
artisti figli di sopravvissuti all'Olocausto e di discendenti del Terzo
Reich", mostra tenutasi a Roma presso la Casa delle Letterature nel 2001, a
cura di Roberto Mander (che parimenti ringraziamo per la cortesia di averci
consentito questa ripubblicazione) della "Rete di Indra", Peacemaker
Community-Italia (per richiedere copie del catalogo della mostra scrivere a:
La Rete di Indra, viale Gorizia 25/c, 00198 Roma)]

Nel febbraio del 1993, un improbabile gruppo di tredici persone si riuni'
per un incontro di quattro giorni nella Foresta Nera, nel sud della
Germania. Alcuni venivano dagli Stati Uniti. Tutti pero' avevano
attraversato distanze incommensurabili di storia, fatte di lutti, rabbia,
volonta' di negare e sensi di colpa. Questo gruppo davvero unico era
composto da figli di sopravvissuti all'Olocausto e dai discendenti tedeschi
degli aguzzini e degli spettatori del regime nazista.
Il nostro viaggio era guidato da anni di conoscenza sul ruolo determinante
che l'eredita' dell'Olocausto aveva avuto sulle nostre vite. Nessuno di noi
poteva chiaramente prevedere che cosa sarebbe uscito dall'incontro ne' che
cosa sarebbe stato, perche' nessuno aveva la minima idea di come avremmo
reagito o saremmo cambiati trovandoci in presenza gli uni degli altri.
Nel nostro cerchio sedeva una donna tedesca, Helga Mueller, che solo da poco
aveva saputo che suo padre, un ufficiale delle SS, aveva preso direttamente
parte all'assassinio di migliaia di ebrei nella Russia Bianca. L'ascoltammo
sgomenti mentre raccontava la scoperta che aveva fatto e il ricordo della
violenza che da bambina aveva subito da parte di quell'uomo e di come in
seguito avesse tentato il suicidio.
Per una incredibile coincidenza, nel cerchio c'era anche un uomo venuto
dagli Stati Uniti, Alan Berkowitz, che un po' alla volta inizio' a
realizzare che quella davanti a lui era la figlia dell'uomo che aveva
partecipato direttamente al massacro della famiglia di suo padre. La
rivelazione sembrava tremare sospesa nell'aria. I due, separati dal desolato
abisso dell'Olocausto, dovevano decidere che cosa fare dei fili della storia
che ancora li univano.
Sgomento, Alan si trovo' davanti a un profondo dilemma: che cosa fare con la
sua rabbia? Come comportarsi con la donna li' di fronte a lui? Ci vollero
molte ore prima che il gruppo riuscisse a dare un senso a cio' che stava
succedendo al suo interno. Alla fine, Alan disse a voce alta cio' che tutti
noi avevamo finito per comprendere: anche Helga era una vittima di suo padre
e della storia e anche lei aveva sofferto. Nonostante spinte emotive forti e
contrastanti, Alan riconobbe la sincerita' di Helga nel voler affrontare la
verita'; ne rispetto' la determinazione nel rompere il tabu' del silenzio
della famiglia e del suo paese e il coraggio che aveva mostrato nel portare
testimonianza dei crimini di suo padre. Quando poi i due si abbracciarono,
il gruppo si commosse fino alle lacrime.
Ma cio' che turbo' ancora di piu' il gruppo fu la presenza di un uomo
tedesco di quasi settant'anni. Otto Ernst Duscheleit era stato membro della
Gioventa' hitleriana e delle Waffen SS.
Rosalie Gerut, la figlia ebrea di due sopravvissuti ai campi di
concentramento, racconta cosi' la sua prima reazione davanti a Otto:
"Sedevo gelata e senza fiato dall'altra parte della stanza, con davanti
quell'uomo alto, magro, coi capelli bianchi e la barba che parlava solo
tedesco, una lingua che quando viene parlata da persone della sua
generazione mi fa sempre rizzare i capelli in testa. Quando disse che aveva
fatto parte delle SS, immediatamente lo immaginai vestito con l'uniforme:
stivali neri, alti e lucidi, un fucile in mano e pronto ad uccidermi. Non mi
avrebbe mai visto come un essere umano con le mie speranze, il mio amori, i
miei doni, la mia gentilezza. Per lui sarei stata solo qualcuno che andava
sradicato. A fatica riuscivo a restare seduta ne' potevo, pero', muovermi.
Quella notte sognai che mentre stavo parlando con un'amica , si avvicinava
Otto come in trance, impugnando un coltello. All'improvviso prendeva la mia
amica alle spalle e le conficcava il coltello nel cuore. Lei cadeva morta
mentre lui passava oltre dicendo che non poteva farmi del male. Mi svegliai
ancora stordita, senza piu' riuscire a riprendere sonno".
Quella stessa notte, Anna Smulowitz, un'altra figlia di sopravvissuti,
barrico' la porta della sua camera che confinava con quella di Otto: sentiva
il bisogno di proteggersi da lui e da tutto cio' che simbolizzava. Il giorno
dopo fu Anna a guidare i componenti di entrambe le parti nel porre domande a
Otto. I tedeschi, che non avevano mai ascoltato confessioni o verita' dai
loro padri, riversarono tutte le loro attese e tensioni su di lui mentre i
discendenti dei sopravvissuti volevano sapere che cosa avesse fatto e visto.
Otto, sebbene visibilmente scosso, si sforzo' di rispondere a ogni loro
domanda.
In contrasto con l'aura della sua storia, Otto Duscheleit e' un uomo mite e
tranquillo. Di corporatura leggera, e' vegetariano, pacifista attivo e
ultimamente anche buddhista.  Otto racconto' al gruppo della sua famiglia,
di cio' che fece nella Gioventu' hitleriana, dell'antinazismo di sua madre
che faceva parte della Chiesa Confessionale di Martin Niemoeller e di
Dietrich Bonhoeffer, della disillusione e del suicidio del fratello maggiore
che non ce la fece piu' a restare nelle forze armate naziste. Grazie a Otto
apprendemmo dalla sua testimonianza di prima mano numerosi aspetti del
regime nazista, di alcuni dei quali non avevamo mai saputo nulla.
Otto sostenne di non aver mai preso parte ad alcuna atrocita', ma di
sentirsi comunque colpevole per non aver mai avuto il coraggio di opporsi al
regime. "Si'", disse, "sono stato un membro delle Waffen SS. Ho cantato le
loro canzoni e marciato insieme agli altri, ma senza mai sentire entusiasmo,
mai".
Attraverso di lui iniziammo a vedere come avesse funzionato la macchina
nazista e con quanta facilita' le persone venissero manipolate. Capimmo
anche quanto profondamente Otto non volesse piu' rivedere oggi cio' che
aveva vissuto sotto il nazismo. A proposito del movimento neonazista in
Germania dice: "Ogni persona adulta della mia generazione dovrebbe parlare e
fermare questi giovani, gli skinheads, che aggrediscono gli immigrati".
Otto sente di dover dire ai giovani cio' che e' realmente successo, e li
sfida dicendo loro: "Ma che mondo volete? Un mondo dove si deve solo dire
'Jawohl, Jawhol...' a tutto e dove non si puo' parlare e avere una propria
identita'? E' proprio questo che volete?".
Ci ha poi raccontato delle battute di scherno con cui a volte si sente
apostrofare in Germania da nazisti non pentiti: "Sei il disonore della
divisa delle SS", gli gridano contro. Sentiamo tutti rispetto per Otto che
consideriamo come uno dei pochissimi della sua generazione ad aver avuto
abbastanza coraggio da mostrare la verita' del proprio personale
coinvolgimento nella storia insanguinata del suo paese.
Sebbene l'incontro, originariamente convocato come un progetto di ricerca,
fosse formalmente terminato, sentivamo che il nostro lavoro insieme era solo
all'inizio.
Avevamo attraversato quattro giorni in cui avevamo ascoltato e raccontato le
storie che di solito non vengono dette sugli effetti dell'Olocausto e la
cultura nazista; quattro giorni in cui eravamo stati ascoltati nonostante la
continua lotta con la traduzione. Quattro giorni di catarsi emotiva, di
cambiamento profondo e di autorivelazione. E nella misura in cui queste
storie risuonavano dentro di noi, il peso diventava piu' leggero, il cuore
si apriva e nasceva la visione di cio' che potremmo essere l'uno per
l'altro. Sia a livello individuale che come gruppo avevamo vissuto uno
trasformazione. In seguito alcuni parlarono della sensazione di essersi
tolti dalle spalle, dall'anima, il peso del fardello e di averlo deposto nel
centro della stanza, per lasciarlo poi la', per sempre.
"Molti mesi dopo, quando raccontai le tragedie della mia famiglia e i
drammatici effetti che tutto cio' aveva comportato per la mia vita, fu
proprio Otto a venirmi incontro, a baciarmi in fronte e a porgermi le sue
scuse piu' sincere per cio' che era stato fatto alla mia gente e alla mia
famiglia. La sua sincerita' libero' qualcosa dentro di me che per tutta la
mia vita era rimasto soffocato" (Rosalie Gerut, co-fondatrice di One by One
e facilitatrice dei gruppi di dialogo).
Dopo l'incontro, ci recammo  in gruppo alla Odenwaldschule, una scuola media
privata nella citta' di Happenheim, per parlare della nostra esperienza. La
sala era piena oltre ogni limite. Molti studenti avevano una spilla con
scritto "coraggio". Quando chiedemmo di spiegarcene il significato, ci
risposero che indicava l'impegno che avevano preso di reagire ogni qual
volta si fossero trovati davanti a un atto di intolleranza o razzismo. Gli
studenti rimasero molto toccati dai racconti dei figli dei sopravvissuti
perche' mai prima di allora gli era capitato di ascoltare delle
testimonianze dirette sull'Olocausto. Ascoltarono con grande attenzione la
storia di Otto e vollero sapere che cosa avrebbero potuto fare per fermare i
neonazisti. Il giorno dopo molti studenti si unirono volontariamente a noi
nella visita al campo di concentramento di Buchenwald.
*
Ci accorgemmo che, nel presentare insieme la nostra esperienza di dialogo in
pubblico, si sviluppava una particolare energia  gli effetti guaritivi
potevano essere recepiti anche oltre il circolo del gruppo. Aprirci al mondo
ci permetteva di approfondire il nostro personale processo di
trasformazione.
Sapevamo che c'era da fare di piu' sia sul piano personale che politico, ma
bisognava farlo insieme. Il potere guaritivo di cui avevamo fatto esperienza
nasceva dal fatto che il lavoro veniva fatto insieme dalle due "parti", dal
confronto e dall'ascolto dell'altro.
Fummo in molti a notare che in quello speciale contesto avevamo fatto dei
progressi a livello personale e terapeutico che non erano mai stati
possibili precedentemente, in gruppi separati od omogenei in cui i tabu' del
silenzio e dell'empieta' non potevano venire rotti.
Nel luglio del 1993, prendemmo contatti con il Museo dell'Olocausto a
Washington e venimmo invitati a fare una presentazione collettiva della
nostra esperienza. Il pubblico, tra cui c'erano anche molti sopravvissuti,
fu estremamente colpito dalle nostre testimonianze. I sopravvissuti rimasero
commossi nell'ascoltare che i figli dei tedeschi che avevano sostenuto il
nazismo fossero cosi' profondamente addolorati per cio' che era successo
durante l'Olocausto e che ora dicessero la verita' assumendosi la
responsabilita' per cio' che il loro paese aveva fatto. Era proprio questo
che da piu' di cinquant'anni i sopravvissuti desideravano sentirsi dire. La
reazione dello staff del museo fu estremamente positiva e cio' rinforzo'
ancora di piu' la nostra convinzione su quanto fosse essenziale parlare in
pubblico del nostro lavoro. Uno dei presenti piu' tardi ci scrisse:
"Mentre stringevo la mano a una figlia di parte tedesca, esprimendole la mia
gratitudine per il suo essere intervenuta, rimasi colpito dall'enorme
coraggio che avevano avuto tutti loro nel parlare di un argomento cosi'
doloroso davanti a noi. In quel momento compresi, forse per la prima volta,
che il coraggio ha proprio un volto umano... Quella donna mi ringrazio'
molto e aggiunse: 'Dopo la disperazione viene il coraggio'... Stare con loro
e' stata un'esperienza che mi ha trasformato. Rappresentano un'ispirazione,
e le loro parole sono servite a superare il mio ben radicato pessimismo
sulla triste condizione umana, riaccendendo in me una flebile speranza. Se
degli ex nemici possono stare insieme e trascendere cio' che precedentemente
credevo non potesse mai essere trasceso, allora forse c'e' ancora un motivo
per sperare nel genere umano" (Elyse Gussow, del Museo dell'Olocausto di
Washington).
*
Alcuni mesi piu' tardi, alcuni membri dagli Stati Uniti e dalla Germania
presentarono il lavoro di "One by One" a un gruppo di psicologi
comportamentisti in una universita' di Berlino. L'effetto sul pubblico e sui
relatori fu quasi lo stesso. Il fatto che tutte e due le parti parlassero
insieme sprigionava una innegabile energia.
Ci interrogammo su cosa fare per portare la nostra esperienza ad ancora piu'
persone e possibilmente in quei paesi dove i conflitti storici e altri
genocidio avevano creato fratture che ancora perduravano. Decidemmo che
oltre ai discorsi in pubblico era necessario dare ad altri discendenti
dell'Olocausto e del regime nazista la possibilita' di partecipare a nuovi
gruppi. Immaginammo la creazione di sempre nuovi gruppi di dialogo in molte
parti del mondo a cui potessero prendere parte anche individui di origine
diversa; chi aveva ricevuto una formazione nei gruppi precedenti sarebbe
diventato a sua volta punto di riferimento nell'impegno per la pace e per
prevenire nuove guerre e genocidi e nell'educazione contro il razzismo e il
pregiudizio.
*
Dopo numerosi viaggi in Europa e aver discusso e fatto piani per un anno,
nel 1995 ci costituimmo negli Stati Uniti come associazione non a scopo di
lucro, con un ramo in Germania. Il nome 'One by One' venne preso dal libro
di Judith Miller sull'Olocausto.
"L'astrazione e' il piu' fiero nemico del ricordo. Uccide perche' incoraggia
la distanza e spesso anche l'indifferenza. Dobbiamo ricordare a noi stessi
che l'Olocausto non e' stato sei milioni di persone. E' stato uno, piu' uno,
piu' uno. Solo comprendendo che i popoli civilizzati devono difendere uno,
poi uno, uno alla volta ciascun individuo... si potra' allora dare
all'Olocausto, a cio' che e' incomprensibile, un senso" (Judith Miller, One,
by One, by One: Facing the Holocaust).
Quelli di noi nel gruppo dei fondatori  che erano psicoterapeuti e psicologi
riuscirono a formalizzare gli elementi essenziali dei nostri incontri. Prima
di compiere il passo successivo e di avviare nuovi gruppi, decidemmo di
analizzare la nostra esperienza valutando cio' che aveva funzionato e cio'
che andava invece rivisto in modo di giungere a definire una struttura e un
formato per il  gruppo.
Il gruppo di dialogo di "One by One" fu concepito e organizzato per la prima
volta nel 1996.
*
Il gruppo di dialogo
Nel nostro lavoro siamo stati guidati dalla compassione e dalla visione
profonda del dottor Viktor Frankl, sopravvissuto al campo di concentramento
di Dachau.
"Non dobbiamo mai dimenticare che si puo' trovare un significato nella vita
anche davanti a una situazione senza piu' speranza, quando il nostro destino
non puo' essere cambiato. Quello che conta e' portare testimonianza alla
potenzialita' umana al suo meglio che consiste nel trasformare una tragedia
personale in un trionfo, nel cambiare la propria situazione difficile in una
conquista umana. Quando non siamo piu' in grado di cambiare una
situazione... siamo sfidati a cambiare noi stessi" (Viktor Frankl).
Molti di coloro che hanno vissuto da vicino la guerra e il genocidio
soffrono la sindrome da stress post-traumatico che colpisce quasi ogni
aspetto delle loro vite. Coloro che portano con se' il dolore del trauma non
ancora risolto facilmente trasmettono le proprie ansie, paure, avversioni e
pregiudizi alla generazione successiva. Il nostro scopo in parte era quello
di aiutarci a vicenda per liberarci dagli effetti devastanti del trauma e di
interromperne la trasmissione alla generazione successiva. Il gruppo di
dialogo e' stato il nostro strumento primario.
Spesso, usando una metafora, descriviamo la nostra esperienza di dialogo
come un ponte sospeso che unisce le due sponde di un profondo burrone. I
partecipanti del gruppo si incamminano lungo il ponte muovendo dai due lati
opposti, e sta a ciascuno decidere quanto voglia spingersi in avanti per
incontrare la persona che sta venendogli incontro. Sono loro a scegliere
quale debba essere la distanza tra loro; se lo vorranno, si potranno
incontrare a meta' del ponte.
Per i discendenti dei sopravvissuti il baratro sottostante e' riempito dai
loro parenti assassinati, feriti, torturati o perseguitati e dal ricordo dei
loro avi. Mentre ascoltano i racconti dell'altra parte, puo' succedere che
sentano dentro di se' un monito: "Non ti fidare dei tedeschi. Tu sei il
custode della nostra memoria. La verita' e la giustizia devono essere
onorati".
Per i discendenti degli aguzzini, il baratro e', invece, colmo di un senso
di vergogna come nazione e come individui, di senso di colpa e di volonta'
di negare. Puo' succedere anche a loro di sentirsi ripetere un monito: "Non
essere sleale. Resta con noi nel silenzio. Tu non capisci che cosa e'
stato".
I discendenti dei sopravvissuti a ogni passo lottano con sentimenti di
profondo lutto, di rabbia e paura. I discendenti dell'altra  parte
combattono con la paura della vendetta e con la vergogna di essere tedeschi;
sono lacerati tra l'amore e l'odio verso coloro da cui sono nati. I moniti e
le emozioni suscitate devono essere riconosciuti, capiti e accettati se i
partecipanti al gruppo vorranno incontrarsi sul ponte.
Uno degli architetti filosofici del nostro ponte e' Primo Levi,
sopravvissuto ad Auschwitz. Il suo lavoro ci suggerisce la possibilita' di
unire due apparenti opposizioni: il desiderio di giustizia e la
contemporanea offerta di dialogo con l'altra parte. Nel suo ultimo libro, I
sommersi e i salvati, riassume che cosa abbia significato per lui la
pubblicazione in Germania del suo testamento: "Il libro lo avevo scritto...
per chi non sapeva, per chi non voleva sapere... ma I suoi destinatari veri,
quelli contro cui il libro si puntava come un'arma, erano loro, I
tedeschi... Era venuta l'ora di fare i conti, di abbassare le carte sul
tavolo. Soprattutto l'ora del colloquio. La vendetta non mi interessava... A
me spettava capire, capirli".
Comprendere spesso e' considerato uguale a giustificare. Primo Levi ha
mostrato che comprendere il nemico non significa giustificarne gli atti. E
"comprendere" nella sua opera non significa mai studiare un "oggetto", in
questo caso l'ex nemico. Egli richiese, o perfino pretese, in particolare
dai tedeschi, una risposta. Riusci' a mettere insieme cio' che di solito non
si ritiene possa coesistere: giustizia, testimonianza e allo stesso tempo
l'offerta di dialogo con "l'altra parte".
Secondo noi si tratta di una lezione che va appresa. Levi ha offerto un
modello di dialogo attraverso l'abisso dell'Olocausto; ci ha offerto un modo
per interrompere il ciclo generazionale di vittima e aguzzino.
Allo stesso modo, il dialogo non va confuso con il perdono, la ricerca di
armonia o la costruzione di consenso. Non vi e' mai la minima intenzione di
paragonare la sofferenza della parte dei sopravvissuti con quella dell'altra
parte. Ascoltare l'altra parte non vuole dire coprire od offuscare la
differenza che c'e' tra i due gruppi o eliminare cio' che li divide. Fin
dall'inizio, i rappresentanti delle due parti sono costantemente consapevoli
della distanza che c'e' tra loro: l'attenzione resta sempre focalizzata su
questo punto.
Per i discendenti degli aguzzini in particolare, ascoltare la storia di
qualcuno che viene dalla parte dei sopravvissuti e' un tentativo di riparare
i fili della nostra comune umanita' che la Germania nazista cerco' di
spezzare una volta per tutte.
Piu' spesso comunque la distanza tra i due gruppi inaspettatamente sembra
ridursi. Ascoltandoci a vicenda iniziamo a comprendere le complessita' delle
nostre vite individuali invece di vederci come il simbolo di un  gruppo o di
una nazione. Alcuni figli di nazisti raccontano i traumi che hanno subito da
bambini. I figli dei tedeschi che sono stati detenuti o torturati per la
loro opposizione al nazismo, proprio come i figli degli ebrei sopravvissuti,
sono cresciuti con genitori traumatizzati che nello stesso modo hanno
trasmesso loro i propri traumi.
A volte il conflitto storico sembra lasciare la stanza e allora, come per
miracolo, rimangono solo persone che realmente aspirano ad aiutare coloro
che hanno sofferto, cercando di volgere al bene cio' che e' stato tanto
profondamente sbagliato e di amare gli altri aiutandoli a diventare integri.
La profondita' del dialogo e' un tentativo di trovare la verita'. Le persone
parlando possono anche scoprire che l'abisso tra loro non puo' essere
superato e che non si incontreranno mai piu'. Pero' comunque si
riconosceranno come persone e non come stereotipi. Sono proprio gli
stereotipi infatti a mascherare la verita' costituendo una barriera tra la
verita' e chi la sta cercando.
Ne I sommersi e i salvati, Levi insieme a uno dei suoi interlocutori
conclude che L'Olocausto non puo' essere compreso, nel senso che sia
possibile trovarne una facile spiegazione. Ben piu' importante e' la
necessita' di imparare il piu' possibile su di esso,  con tutte le sue
contraddizioni, in modo da garantirsi che nulla di simile possa ripetersi
un'altra volta.
*
Dal 1996 ogni anno abbiamo organizzato un gruppo di dialogo.
Di solito chi vi ha preso parte lo aveva saputo incontrando direttamente uno
dei fondatori o sentendo parlare di "One by One" da amici o da qualcuno che
aveva partecipato a un precedente gruppo. Oppure ascoltando  qualcuno di
"One by One" parlare in chiese, sinagoghe o in altri incontri pubblici negli
Stati Uniti o in Germania.
I potenziali partecipanti si incontrano nel proprio paese con i facilitatori
che ne valutano la capacita' e stabilita' psicologica e se siano pronti ad
affrontare delle interrelazioni cosi' emotivamente cariche. Si valuta anche
se il candidato puo' contare su una adeguata rete di sostegno di amici e
familiari.
Vogliamo essere sicuri che i partecipanti al gruppo di dialogo non vengano
allo scopo di perseguitare l'altra parte o per cercare una qualche forma di
assoluzione. I facilitatori iniziano a stabilire un rapporto con i
partecipanti per creare un maggiore senso di sicurezza prima e durante i
gruppi. Ai candidati del futuro gruppo viene anche data l'opportunita' di
incontrarsi tra loro prima e di porre delle domande ai facilitatori. Poi,
prima che il gruppo inizi, vengono stabiliti degli accordi molto chiari per
tutelare la riservatezza su tutto cio' che verra' detto.
Fino ad oggi, i gruppi di dialogo si sono sempre svolti in Germania, in un
centro per conferenze poco fuori Berlino. I partecipanti, di solito tra i
sedici e i venti, trascorrono insieme cinque giorni condividendo tutte le
attivita', i pasti e le sistemazioni per dormire.
La settimana del gruppo di dialogo si divide in due parti: durante i primi
cinque giorni, ogni mattina e pomeriggio, ci sono le sessioni di gruppo che
durano tra le due e le tre ore ciascuna, nel week-end invece si partecipa a
manifestazioni pubbliche. Il programma puo' comprendere musica, arte,
poesia, teatro, in modo che i partecipanti possano raccontare la storia
della loro famiglia e l'esperienza con "One by One".
Vengono anche organizzate delle visite guidate ai luoghi storici come i
quartieri ebraici di Berlino o il palazzo in cui si svolse la Conferenza di
Wansee dove venne definita la "soluzione finale". In questi due giorni, i
membri tedeschi di "One by One" ospitano nelle loro case i partecipanti al
gruppo di dialogo e spesso prendono parte insieme a funzioni religiose in
chiese o sinagoghe.
Mentre i nuovi gruppi si incontrano per la prima volta, chi vi ha gia'
partecipato prosegue il lavoro contribuendo alle iniziative pubbliche nelle
scuole oppure parlando in chiese e sinagoghe o incontrando i mezzi di
informazione e i nuovi membri. Chiunque abbia partecipato ai gruppi di
dialogo, se vuole, puo' partecipare alle presentazioni in  pubblico.
*
Il gruppo dei fondatori scopri' che era importante che i gruppi di dialogo
si tenessero in Germania. Infatti, quando sono stati proposti dei luoghi
diversi negli Stati Uniti, la parte ebraica non si e' mostrata interessata:
volevano andare a Berlino.
Perche' mai fare questo viaggio - spesso anche contro il parere dei nostri
genitori che sono dei sopravvissuti - e mettere piede su una terra macchiata
di tanto sangue? Le ragioni sono diverse per ciascuno. Quando gli viene
posta questa domanda, alcuni non riescono a dire altro che: "Non lo so, ma
si tratta proprio di qualcosa che sento di dover fare". Tra noi molti
sostengono che poiche' la Germania era la terra dei nostri avi, e'
importante rivendicare il nostro diritto ad andarci.
Viste le finalita' del gruppo di dialogo, da parte nostra volevamo che i
discendenti dell'altra parte si incontrassero con noi proprio in Germania e
che qui affrontassero coloro che sarebbero potuti essere i loro vicini di
casa, anch'essi nati li'. Vedere degli ebrei che tornano in Germania
rappresenta una tappa importante del loro prendere coscienza della rimozione
che e' stata operata; e' una prove dell'Olocausto.
Coloro tra noi che sono figli degli aguzzini e degli spettatori del nazismo
hanno accolto la sfida per comprendere meglio che cosa ci sia stato tolto,
attraverso l'orrore del genocidio, a noi, alla nostra umanita' e alla
cultura tedesca. Molti tedeschi sono cresciuti senza aver mai incontrato un
ebreo in vita loro. Anche se in tutto il paese ci sono monumenti dedicati
alle vittime dell'Olocausto, molti di noi non avevano mai parlato con un
ebreo della sua storia prima del gruppo di dialogo di "One by One".
Sembra che condurre i gruppi di dialogo in Germania - la scena del delitto -
abbia un grande valore da un punto di vista terapeutico. Trovarsi li',
proprio nel paese dove sono state commesse le atrocita', sedere nella stessa
stanza con di fronte le "facce ariane", sentire parlare tedesco, provoca nei
figli dei sopravvissuti uno stato emotivo molto intenso. Essi sentono
pronunciare le parole che nei racconti dei genitori venivano pronunciate
nella Germania nazista, in Polonia, in Ucraina e in Bielorussia e cioe' che
gli ebrei dovevano essere uccisi perche' avevano ucciso Gesu', che gli ebrei
erano i cosiddetti "Untermenschen" (sotto-uomini). Le storie questa volta
vengono direttamente dalla fonte. E percio' la verita' risuona piu'
profondamente nella psiche. Puo' capitare di sentire un forte dolore e una
grande indignazione perche' la persona seduta dall'altra parte della stanza
potrebbe essere il figlio di colui che ha assassinato i membri della nostra
famiglia.
Niente viene lasciato a livello di mero intelletto e il modo in cui si
affrontano questi sentimenti puo' cambiare la vita. E' ormai da tempo che
gli specialisti delle sindromi da trauma, come la dott.ssa Judith Herman,
hanno indicato il valore che condizioni come queste possono avere nel far
affiorare i sentimenti di rabbia e di lutto rimasti a lungo sepolti.
"Le atrocita'... rifiutano di essere sepolte... I fantasmi... rifiutano di
riposare nelle loro tombe fino a quando le loro storie non verranno
raccontate... Dire la verita' su fatti terribili (e' una) tappa essenziale
per la guarigione individuale delle vittime, dei carnefici e delle famiglie,
e per il ripristino dell'ordine sociale".
*
Molti partecipanti di entrambe le parti si sono ritrovati a raccontare
proprie esperienze personali di cui, fino a quel momento, non avevano mai
parlato con nessuno. Alcuni figli di sopravvissuti hanno raccontato storie
di abuso e abbandono subiti da parte dei genitori che a loro volta erano
rimasti segnati dal trauma subito.
Anche tra i figli degli aguzzini c'e' stato chi ha raccontato storie di
abuso, caratterizzate anch'esse da minacce e dal silenzio circa il passato.
Finalmente alcuni sono stati in grado di parlare delle immagini in apparenza
inconciliabili che hanno dei loro genitori: il loro essere da una parte
affettuosi e la loro partecipazione diretta alle atrocita' - o anche il loro
essere rimasti semplici testimoni silenziosi - dall'altro.
Ogni gruppo di dialogo e' stato organizzato e sostenuto da un gruppo di
facilitatori abilitati e con una formazione in counseling, nelle dinamiche
di gruppo e nel lavoro con le sindromi da trauma. I facilitatori - e cosi'
anche gli interpreti - hanno tutti gia' partecipato a precedenti gruppi. Il
loro compito e' di creare un contesto "centrato sulla persona", nel quale
ogni atteggiamento, sentimento od opinione possa venire espressa
liberamente, con la sola eccezione degli attacchi personali.
Si cerca di assicurare a ogni partecipante un tempo sufficiente per
raccontare la sua storia e per l'interazione di gruppo. Dato il peso emotivo
di ogni storia, lo spettro di reazioni e le possibilita' di conflitto, i
facilitatori devono essere sempre consapevoli delle loro stesse reazioni,
mentre contemporaneamente si prendono cura dei bisogni dei partecipanti
durante e tra le sessioni di gruppo. I facilitatori cercano principalmente
di arrivare a un equilibrio tra il riconoscimento delle ingiustizie sociali
e l'accettazione senza giudizio delle reazioni dei partecipanti. C'e' in
loro un rispetto implicito per il coraggio e la volonta' di ogni componente
del gruppo di porsi davanti all'altro, a se stessi, alle proprie paure e
alla verita'. E' chiaro che il ruolo dei facilitatori e' essenziale per la
riuscita del gruppo.
*
Uno degli obiettivi del primo giorno e' di aiutare i partecipanti  a
sentirsi protetti; i facilitatori iniziano l'incontro raccontando ciascuno
la propria storia e spiegando che loro sono li' solo come guide, allo scopo
di mantenere un clima di rispetto, onesta' e compassione. Poi viene chiesto
a ciascuno dei presenti di riassumere in dieci minuti le esperienze della
propria famiglia durante e dopo la guerra, l'impatto che queste esperienze
hanno avuto su di loro e i motivi che li hanno portati a partecipare al
gruppo.
In seguito ogni sessione si apre con un esercizio per favorire la
descrizione da parte dei partecipanti dei loro pensieri ed emozioni e
termina con un periodo di riflessione su cio' che e' emerso.
Il grosso delle sessioni successive e' dedicato al racconto
particolareggiato della storia di ciascuno, e in particolare alla risposta
alla domanda: "In che modo il periodo nazista e l'Olocausto hanno segnato la
tua vita?".
La dott.sa Judith Herman si e' occupata a lungo del significato che ha per I
sopravvissuti il poter raccontare la propria storia; lo scopo non e' una
semplice catarsi, ma cio' che e' necessario e' la reintegrazione del
ricordo: la trasformazione di immagini senza forma e statiche in una
narrazione in cui ci sia sentimento, movimento e significato. E la nostra
intenzione e' proprio di costruire un ambiente che favorisca tale processo.
Nel gruppo ciascuno parla per trenta minuti, a cui ne seguono altri quindici
in cui la persona puo' continuare a parlare oppure invitare gli altri a fare
domande o commenti.
Il compito per il resto del gruppo e' di ascoltare - nel senso migliore e
piu' attivo del termine - in modo che ciascuno possa vivere l'esperienza di
sentirsi ascoltato. L'enfasi che poniamo sull'importanza del vero ascolto ci
viene dal lavoro di Carl Rogers e della scuola di psicologia umanistica,
cosi' come dalla filosofia di Martin Buber.
In base al "principio dialogico" di Buber, la costruzione di relazioni
autentiche e' un aspetto basilare dell'esistenza umana. Attraverso
l'incontro concreto con gli altri possiamo comprendere la nostra
interdipendenza con lo spirito della vita. "La vita come dialogo" e' la
sintesi programmatica della filosofia di Buber. L'ascoltarsi a vicenda puo'
essere visto come una profonda esperienza - il ponte invisibile - che ci
unisce. L'ascolto implica una dimensione sociale e anche etica: riconoscere
l'altro, e fare esperienza di questa alterita' non solo rende possibile il
dialogo, ma e' un movimento che va dall'essere centrati su se stessi verso
l'interazione sociale in cui gli stereotipi vengono lasciati alle spalle.
L'ascolto e' una parte essenziale di cio' a cui Buber si riferisce quando
parla della relazione "io-tu". L'ascolto viene visto come una volonta'
esistenziale di passare da una modalita' distorta e inadeguata di
rapportarsi agli altri visti come mezzi, a una comunicazione autentica con
altri se'.
Tutti conosciamo la differenza di qualita' che si ha in un incontro quando,
in una fase speciale dell'interazione, emerge un momento di profonda
intensita'. Di solito diciamo: "Sono toccato" o "Mi sento commosso dalle tue
parole", volendo con questo sottolineare che tra noi e' passato qualcosa. Si
tratta di una risposta emotiva, un'eco della nostra "inter-umanita'". Quando
succede, allora la storia dell'altro diventa anche la nostra. All'improvviso
capiamo che avremmo facilmente vissuto cio' che lui, o lei, ha fatto se
fossimo nati al suo posto. Le due parti di un vero dialogo intravedono cio'
che Buber chiama "il noi essenziale".
(Parte prima. Segue)

3. LIBRI. LUISA MURARO PRESENTA "PICCOLE DONNE" DI LOUISA MAY ALCOTT
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it).
Luisa Muraro insegna all'Universita' di Verona, fa parte della comunita'
filosofica femminile di "Diotima"; dal sito delle sue "Lezioni sul
femminismo" riportiamo la seguente scheda biobibliografica: "Luisa Muraro,
sesta di undici figli, sei sorelle e cinque fratelli, e' nata nel 1940 a
Montecchio Maggiore (Vicenza), in una regione allora povera. Si e' laureata
in filosofia all'Universita' Cattolica di Milano e la', su invito di Gustavo
Bontadini, ha iniziato una carriera accademica presto interrotta dal
Sessantotto. Passata ad insegnare nella scuola dell'obbligo, dal 1976 lavora
nel dipartimento di filosofia dell'Universita' di Verona. Ha partecipato al
progetto conosciuto come Erba Voglio, di Elvio Fachinelli. Poco dopo
coinvolta nel movimento femminista dal gruppo "Demau" di Lia Cigarini e
Daniela Pellegrini e' rimasta fedele al femminismo delle origini, che poi
sara' chiamato femminismo della differenza, al quale si ispira buona parte
della sua produzione successiva: La Signora del gioco (Feltrinelli, Milano
1976), Maglia o uncinetto (1981, ristampato nel 1998 dalla Manifestolibri),
Guglielma e Maifreda (La Tartaruga, Milano 1985), L'ordine simbolico della
madre (Editori Riuniti, Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D'Auria,
Napoli 1995), La folla nel cuore (Pratiche, Milano 2000). Con altre, ha dato
vita alla Libreria delle Donne di Milano (1975), che pubblica la rivista
trimestrale "Via Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed alla comunita'
filosofica Diotima (1984), di cui sono finora usciti sei volumi collettanei
(da Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, a Il
profumo della maestra, Liguori, Napoli 1999). E' diventata madre nel 1966 e
nonna nel 1997". Del libro che e' occasione per queste meditazioni e'
disponibile ora, dopo la prima presso La Pietra, Milano 1976, una nuova
edizione: Anna Maria Bruzzone, Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici
vite di partigiane piemontesi, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
Louisa May Alcott (Germantown, Pennsylvania 1832 - Boston 1888) e' ad un
tempo una delle piu' influenti e segrete scrittrici dell'Ottocento; figlia
del pedagogista e riformatore Amos Bronson Alcott, introdotta fin da
giovanissima nella cerchia di Ralph Waldo Emerson e dei trascendentalisti,
autrice di romanzi (anche, ma non solo "per la gioventu'" - qualunque cosa
tale formula significhi), racconti, fiabe, versi, diresse un periodico, si
batte' nelle grandi lotte sociali, ed in particolare per il diritto di voto
alle donne. Piccole donne (1868) e' la sua opera piu' celebre]

Questo romanzo e' un capolavoro di astuzia femminile, per centocinquant'anni
e' riuscito a farsi stampare, tradurre e raccomandare come un romanzo di
formazione (un Bildungsroman, dicono i letterati) per giovinette di buona
famiglia, e ne ha tutti gli ingredienti, in effetti, ma intanto riesce ad
annunciare la fine del patriarcato.
Si tratta della storia di quattro sorelle che crescono sotto la guida di una
madre e in assenza del padre. Il padre e' andato volontario in guerra, nella
terribile guerra di Secessione che insanguino' gli Stati Uniti intorno al
1860. Louisa May Alcott dice la cosa giusta: gli uomini si stanno
autoeliminando a forza di guerre. Resta vivo il simbolico delle donne. Nella
famiglia March non ci sono fratelli. Le poche figure maschili, il padre
lontano, il ragazzo Laurie, si affacciano sul bordo di un mondo di sole
donne, e non hanno il potere di turbare la sua vita ne' di istallarsi nel
suo centro focale.
Le quattro sorelle sono tipe fra loro molto diverse e tutta la trama si
sviluppa dal gioco libero delle loro differenze. Viene soprattutto da questo
gioco libero, secondo me, il grande successo del libro. Viene cioe' dal
ritratto della differenza femminile che si manifesta attraverso le
differenze fra donne: non dipende solo ne' soprattutto dalla figura di Jo,
come ho sentito dire. Jo e' la sorella che vuole diventare scrittrice e
costituisce indubbiamente il personaggio piu' cattivante, nel quale
l'autrice si e' rispecchiata. Ma Jo, senza le altre tre, Meg, Beth e Amy,
non sarebbe lei, e viceversa, perche' la singolarita' di ciascuna si
riverbera e accentua nello specchio delle altre tre, passando tutte e
ciascuna attraverso l'amore della madre.
La madre e' una specie di dea, travestita da signora borghese. Lo dico
apposta, lo dico pensando alla mitologia piu' arcaica. La signora March
somiglia ad una divinita' che abita da sempre una caverna sacra.
*
Volendo usare etichette, per il capolavoro della Alcott, io parlerei di
romanzo d'iniziazione. Il romanzo di formazione mostra un percorso per
diventare quello che la societa' domanda o aspetta, mentre il romanzo di
iniziazione racconta i passaggi che ti portano a scoprire quella che sei, e
a diventare quella che puoi essere, piu' profondamente. L'iniziazione ha a
che fare con la nascita della liberta', quella associata alla scoperta di
se', ed e' una cosa che, se non hai l'idea di questa liberta', non esteriore
ma intima e personale, puo' essere scambiata con la moderazione o il
conformismo.
La Alcott lo sapeva, io credo e penso che ne abbia approfittato per
mascherarsi da scrittrice bempensante e cosi' fare il suo gioco. Le Piccole
donne che tengo nella mia biblioteca, una traduzione, si aprono con
l'introduzione di un letterato italiano, sicuramente bravo, ma, in questo
caso, completamente fuori strada. Per meta' dell'introduzione insiste sul
fatto che si tratterebbe di un romanzo datato, ancorato a certi ideali,
ormai superati: donne che sono angeli del focolare, silenziose e pazienti,
ecc. Leggiamo pure Piccole donne, conclude con un po' di supponenza, ma si
tenga conto dell'epoca in cui fu scritto. Fa ridere: non si e' accorto di
niente, non ha capito niente.

4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

5. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 884 del 30 marzo 2005

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