La nonviolenza e' in cammino. 902



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 902 del 17 aprile 2005

Sommario di questo numero:
1. Severino Vardacampi: Le pensioni di Salo'
2. Bruna Peyrot: Donne in guerra e in pace (parte seconda)
3. Una intervista a Luigi Bettazzi
4. Alessandro Portelli ricorda Saul Bellow
5. "Raggio"
6. Letture: Elena Liotta, Luciano Dottarelli, Lilia Sebastiani, Le ragioni
della speranza in tempi di caos
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. SEVERINO VARDACAMPI: LE PENSIONI DI SALO'
Non volevo crederci. Pensavo a una macabra burla. E invece qualcuno che
siede in parlamento - e nei ranghi della maggioranza parlamentare che
sostiene il governo in carica - ha proposto, presentando un disegno di
legge, di equiparare il bene e il male, di ritenere gli aguzzini dell'ordine
hitleriano benemeriti al pari di chi ad esso si oppose, di non piu'
distinguere tra il carnefice e la vittima, tra chi massacrava innocenti e
chi cercava di salvare vite umane. Pensavo a una macabra burla. Non volevo
crederci.
*
Ma questo e' accaduto: che qualcuno che siede in parlamento, nel luogo in
cui si fanno le leggi, ha proposto di dare ai torturatori complici di Hitler
riconoscimenti morali e benefici economici per i servigi allora resi. I
servigi resi a Hitler. Dare un premio agli armigeri dell'ordine hitleriano,
ai complici della Shoah. Qualcuno questo ha proposto.
A quando le medaglie al valore per i killer della mafia? A quando la
cittadinanza onoraria a chi ha resecato piu' gole? A quando i monumenti alle
SS? A quando il Nobel per il genocidio?
*
Sia chiaro: a tutte le persone anziane deve essere data una pensione che
consenta loro di vivere dignitosamente i tardi anni ed estremi; e se non
hanno fonte alcuna di reddito cui attingere, se non hanno svolto
un'attivita' lavorativa onesta e legale tale da aver diritto a una pensione
conseguente, ebbene, a tutti comunque una pensione decente deve essere data,
a tutti. Indipendentemente da ogni altra considerazione. Poiche' tutti gli
esseri umani sono esseri umani. Nessuno escluso. Ed a tutti vanno
riconosciuti tutti i diritti umani, ed innanzitutto il primo e fondamentale
di essi: il diritto a vivere, a vivere una vita dignitosa.
Sia chiaro: tra i giovani reclutati - sovente a forza - nei ranghi della
teppa di Salo' puo' ben essersi dato che ve ne fossero di inconsapevoli, di
ignari, di disperati; dopo vent'anni di diseducazione fascista, nella
fornace della guerra, avvezzi ai truci pensieri e alla visione della morte,
nell'infamia allevati e dall'orrore avvolti, puo' capitare che giovani
innocenti si trasformino in drago, o del drago in artigli. Non e' delle loro
coscienze che qui si giudica. Non e' della coazione che subirono, e del
travaglio, e di come seppero - coloro che seppero - riscattarsene poi: non
pochi disertarono, non pochi passarono alla Resistenza, e tutti certo lungo
sessant'anni avranno avuto modo di ripensare all'accaduto, con piu' nitida
cognizione di causa.
Sono passati sessant'anni, e sono passati per tutti: per tutti coloro che
sono sopravvissuti. Per coloro che furono assassinati la vita e il mondo
finirono li'. E tuttavia qui non si giudica del mistero delle anime, degli
abissi e dei peripli morali ed esistenziali degli individui singoli. Qui si
tratta del giudizio storico e giuridico, morale e politico, sull'evento
della Shoah.
*
Ogni persona merita rispetto per il mero fatto della sua umanita'; ed ogni
persona anziana merita per il fatto stesso di essere anziana (poiche'
senectus ipsa eccetera) cura, sollecitudine.
Ma dare un premio speciale agli esecutori della Shoah e' altra cosa.
Sostenere che la criminale masnada degli scellerati di Salo' vada
considerata alla stregua di un potere legittimo; sostenere che
quell'attivita' di persecuzione, di torture, di omicidi, di  deportazione di
innocenti nei Lager nazisti sia un'attivita' legale; sostenere che non vada
fatta distinzione tra gli esecutori della Shoah e coloro che contro lo
sterminio si sono battuti: ebbene, tutto cio' non e' abominevole?
*
Anche questo foglio naturalmente si unisce alle voci delle associazioni dei
deportati e dei resistenti, degli enti locali fedeli alla Costituzione
democratica e antifascista, delle tante persone di volonta' buona che hanno
gia' espresso la loro indignazione e la loro angoscia dinanzi a una proposta
cosi' infame, cosi' obbrobriosa.

2. RIFLESSIONE. BRUNA PEYROT: DONNE IN GUERRA E IN PACE (PARTE SECONDA)
[Ringraziamo di cuore Bruna Peyrot (per contatti: brunapeyrot at terra.com.br)
per averci messo a disposizione il seguente capitolo tratto dal suo libro
Mujeres. Donne colombiane fra politica e spiritualita', Edizioni Citta'
Aperta, Troina (En) 2002, che tratta della scelta nonviolenta di un gruppo
di sindacaliste colombiane. Bruna Peyrot, torinese, scrittrice, studiosa di
storica sociale, conduce da anni ricerche sulle identita' e le memorie
culturali; collaboratrice di periodici e riviste, vincitrice di premi
letterari, autrice di vari libri; vive attualmente in Brasile. Si interessa
da anni al rapporto politica-spiritualita' che emerge da molti dei suoi
libri, prima dedicati alla identita' e alla storia di valdesi italiani, poi
all'area latinoamericana nella quale si e' occupata e si occupa della genesi
dei processi democratici. Tra le sue opere: La roccia dove Dio chiama.
Viaggio nella memoria valdese fra oralita' e scrittura, Forni, 1990; Vite
discrete. Corpi e immagini di donne valdesi, Rosenberg & Sellier, 1993;
Storia di una curatrice d'anime, Giunti, 1995; Prigioniere della Torre.
Dall'assolutismo alla tolleranza nel Settecento francese, Giunti, 1997;
Dalla Scrittura alle scritture, Rosenberg & Sellier, 1998; Una donna nomade:
Miriam Castiglione, una protestante in Puglia, Edizioni Lavoro, 2000;
Mujeres. Donne colombiane fra politica e spiritualita', Citta' Aperta, 2002;
La democrazia nel Brasile di Lula. Tarso Genro: da esiliato a ministro,
Citta' Aperta, 2004]

2. La militanza perduta
Tranne le ventenni, le donne intervistate hanno vissuto pienamente la
stagione politica degli anni sessanta e settanta, con i mitici punti di
riferimento, fra gli altri, di Ernesto Che Guevara, Fidel Castro, Camilo
Torres. Alcune di loro entrarono nella guerriglia clandestina delle Farc
che, come abbiamo visto all'inizio, nacquero a meta' degli anni sessanta,
per difendere la terra di Marquetalia. Come narrano le donne quel pezzo
della loro vita nella selva? Non la narrano affatto, la dicono di fretta,
per passare subito a descrivere cio' che sono ora.
"Feci la guerrigliera per un anno, poi mi coinvolsi nel processo di pace",
dice Sonia Patricia.
Quei ricordi emergono solo a tratti, in una passeggiata in montagna che
ricorda l'andatura dei guerriglieri, o nella precarieta' delle case, non
considerate mai definitive, o ancora nel sentirsi sempre di passaggio, mai
stabili su un territorio. A volte ho colto la nostalgia per la vita nella
foresta, quasi come una tensione verso qualcosa di piu' ancestrale, una
specie di terra materna vissuta nella distorsione della violenza armata.
Altre volte ho percepito un sogno insoddisfatto di giustizia che tenta
sempre nuove strade, senza realizzarsi mai, e una di quelle era passata per
la lotta armata.
Il silenzio narrativo puo' avere molte spiegazioni. La principale e' che in
Colombia la guerra civile non e' ancora terminata. Il confine fra passato e
presente sfuma nell'indecifrabilita' di un chiaro passaggio fra guerra e
pace, fra azioni militari e consegna delle armi. Questo ponte fra un prima e
un dopo deve ancora essere costruito e la sua frontiera sancita formalmente.
Nonostante la mancanza di una data che aiuti a periodizzare, il difficile
processo del passaggio dalla guerra alla pace e' gia' cominciato. Le donne
presenti nei partiti, nei sindacati, nelle Ong, nelle associazioni
femministe, da tempo si sono dissociate pubblicamente da qualsiasi tipo di
alleanza o collusione con forze che sostengono una soluzione armata al
conflitto colombiano. Certo, se la guerra fosse finita, sarebbe piu' facile
parlare e costruire la pace. Si comincerebbe da un traguardo gia' raggiunto
in comune: l'accordo sul non uso delle armi per risolvere il conflitto.
Invece in Colombia si parla e si costruisce la pace mentre si spara. Nelle
citta' si sciopera e si manifesta, nelle campagne si e' in mano ai guardiani
armati di turno sul territorio.
Le testimoni hanno una peculiarita'. Hanno scelto la pace in un momento
politico in cui la parte nella quale avevano militato, le Farc, godevano di
legittimita' e sostegno internazionale. Il che significa che non avevano
motivi politici generali per dissociarsi, proprio nel momento piu' "forte"
dei gruppi guerriglieri. Hanno maturato l'uscita dalla lotta armata dentro
un percorso di militanza politica, in cui hanno letto, piu' o meno
consapevolmente, da un punto di vista di genere la loro presenza nelle varie
organizzazioni. In altre parole, il loro e' un percorso che viene di
lontano, forse troppo poco elaborato proprio perche' per altri non e' ancora
terminato.
*
Se pensiamo che le donne partecipanti alla Resistenza al nazifascismo
cominciarono a essere considerate soggetti storici interessanti per ricerche
e testimonianze soltanto cinquant'anni dopo la fine della seconda guerra
mondiale, possiamo comprendere come il tempo ravvicinato e non finito
dell'esperienza delle colombiane non abbia potuto trovare una sua adeguata
collocazione narrativa. Di piu', la storia delle donne italiane comincio' a
essere divulgata prima attraverso la letteratura - chi non ricorda L'Agnese
va a morire, di Vigano'? - poi con la scrittura familiare di lettere e
diari, infine con ricerche scientifiche. A quest'ultima fase finalmente
corrispose il riconoscimento di aver combattuto "in guerra senza armi",
dando un contributo fondamentale all'esito dello scontro antifascista (11).
Proprio con le donne della Resistenza partigiana e' possibile, pur nella
profonda diversita' di contesti e storie personali, fare un paragone. Per
entrambe le parti, le colombiane e le resistenti italiane, si tratto' di una
militanza totale, fedele al proprio patrimonio ideale. Le testimonianze
raccolte da Bianca Guidetti Serra, delle donne che, nel dicembre 1943,
costituirono i "Gruppi di difesa della donna e per l'assistenza ai
combattenti per la liberta'", vicini al Partito Comunista, narrano la loro
storia in modo scarno e descrittivo come le colombiane. La militanza non ha
bisogno di troppi commenti. Si dice attraverso poche date e molte
iniziative. L'autrice sottolinea la continuita' fra la scelta politica
precedente alla guerra che continua nel periodo bellico quasi
inavvertitamente, come proseguimento di un impegno gia' preso. Dice la
Guidetti Serra: "Il significato della loro vita, credo sia proprio questo:
l'affermazione e la dimostrazione del valore e della portata della
partecipazione dal basso, che si caratterizza e si qualifica per la fedelta'
al proprio patrimonio ideale e al contempo per l'attenzione ai problemi
immediati e concreti, per il rispetto delle grandi, ma anche delle piccole
cose, per la tenacia di anni di lavoro, di sacrificio spesso solo
apparentemente modesto giorno dopo giorno" (12).
La militanza era accettata in vista di uno scopo superiore: migliori
condizioni di vita, liberta', giustizia, valori non reclamati solo per se'.
La stessa aspirazione colpi' le colombiane e le latinoamericane,
protraendosi sino alle soglie del presente. La scrittrice nicaraguense
Gioconda Belli, sandinista, la descrive intensamente: "Qual era la ragione
per cui si era capaci di sacrificare la vita per un'idea, per la liberta'
altrui? Perche' l'impulso eroico era tanto forte? Quel che a me sembrava
straordinario era la felicita', la pienezza che c'era nell'impegno. La vita
acquisiva un senso completo, una meta, uno scopo. Si provava una complicita'
assoluta, un legame viscerale con centinaia di volti anonimi, un'intimita'
collettiva nella quale scompariva qualsiasi sentimento di solitudine o di
isolamento. Nel lottare per la felicita' di tutti, si trovava prima di tutto
la propria" (13).
*
Ho trovato poche testimonianze di donne colombiane in armi. Alcune
cominciano a uscire allo scoperto, ma il silenzio si impone per ragioni di
sicurezza e per il conflitto ancora in corso. Gli uomini invece parlano
della guerra e della guerriglia, anzi, le loro testimonianze  diventano
parte della strategia comunicativa del progetto politico di appartenenza.
Potremmo dire che fanno parte della loro campagna d'immagine. E'
interessante notare la gioia del combattere, da qualsiasi parte provenga.
"El combate es el extasis del guerrillero", confessa il dirigente delle
Farc, Arenas, al giornalista Carlos Arango Z., parafrasando Che Guevara
(14). "Porque yo no soy hombre de negocios sino hombre de guerra, hombre de
lucha", insiste il numero uno delle Farc, Marulanda (15). Molti altri esempi
si potrebbero fare, tutti molto sicuri di se', centrati su un "io" forte,
consapevole della propria identita' di guerrigliero rivoluzionario,
impegnato in una presa di potere.
Non e' cosi' per le donne, almeno nei pochi accenni delle testimoni, nella
letteratura latinoamericana e nelle poche testimonianze colombiane
pubblicate. Le donne sembrano dimenticare, nel racconto di vita, lo scopo
finale della loro militanza armata, preferendo concentrarsi invece su altri
aspetti soggettivi: dolore, morte, pena per i feriti, repulsione per le armi
da fuoco, interiorizzazione della persecuzione, rapporto con i morti, paure.
Si assiste a un passaggio interpretativo nel quale la guerra rivoluzionaria
viene analizzata semplicemente come una forma di violenza, quasi staccata
dai valori politici che l'avevano determinata. Di piu', questa violenza
perde i toni soggettivi, ridotti a pochissimi accenni, quasi furtivi, e
assume il tono oggettivo dell'analisi saggistica. Non si parla della
violenza su di se', ma della violenza in Colombia. Non si narrano situazioni
in cui si e' state oggetto di violenza, ma dei casi di violenza sempre in
Colombia. Cio' puo' dimostrare molte cose, forse, prima fra tutte,
l'inenarrabilita' della propria storia di violenza, se non si e' aiutati da
un contesto che sappia riconciliarla con una memoria collettiva, legittimata
a darle senso, e una storia individuale, innervata dai valori che nel
presente si confessano. Oppure, altra spiegazione, si puo' narrare cio' che
si e' gia' staccato da noi abbastanza da lasciarsi trasformare in racconto
con linguaggio da fiaba. Come dicevamo, un grande dolore, una grande ferita
spesso sono inenarrabili. Hanno bisogno di tempo e richiedono "modelli
interpretativi fluidi che possano render conto del rapporto fra forme di
continuita' e momenti di rottura delle identita'" (15).
Nel caso colombiano manca uno schema, un canovaccio, una trama
dell'esperienza di guerriglia che con l'immaginario proponga "ganci" utili a
interpretare una storia individuale legittimata socialmente da un gruppo o
dalla societa' nazionale intera, una condizione per ora assolutamente
impossibile per la Colombia.
*
Altre condizioni, tuttavia, sembrano influenzare il silenzio sulla selva.
Anche se parlano almeno un poco dei loro sentimenti, le testimoni colombiane
sono lontane da una elaborazione collettiva dei lutti di guerra e cio'
contribuisce a rafforzare il loro silenzio narrativo. Due sono i tipi di
lutto di cui devono prendere coscienza. Il primo e' quello
dell'allontanamento dall'esperienza complessiva della selva. Il secondo e'
l'abbandono delle armi per risolvere i conflitti sociali colombiani. Le due
esperienze, spesso coincidenti, sono state profondamente diverse nelle
motivazioni e nella collocazione personale e sociale delle sindacaliste.
Sono state invece simili nel coinvolgimento con le dinamiche della violenza
che, sia praticata in prima persona, sia appoggiata in modo indiretto, ha
dovuto essere elaborata in entrambe le situazioni. Periodi storici separati
cronologicamente possono essere letti uniti nel sentimento interiore del
dolore per la violenza. Per questi motivi, risulta difficile dare coerenza
alla propria storia di vita rispetto a queste narrazioni.
Inoltre, "l'esperienza di guerra non e' nient'altro che la continua
trasgressione di categorie" (16). In altre parole, lo sfondamento di confini
fra cio' che e' possibile e cio' che non lo e', fra il lecito e l'illecito,
fra il noto e l'ignoto, fra l'umano e il non umano provoca il pensiero
razionale e lancia prove alla capacita' di sopravvivenza fisica
dell'individuo. Non si sa di cosa sia capace l'uomo in guerra che in quel
momento deve dividere il mondo in amico e nemico, senza alcuna attenzione
alla complessita' esistenziale.
Infine, non va dimenticato che la rottura con l'opzione armata e' avvenuta
dentro il paradigma della sinistra latinoamericana, nel progressivo
assistere al deterioramento dei suoi valori originari e nel verificare la
sua inefficacia nel raggiungere grandi obiettivi sociali, compreso quello di
potere di governo. Soprattutto, evento scatenante, le donne hanno voluto
prendere le difese della societa' civile colombiana di cui si sentono
componente essenziale, presa in mezzo al conflitto armato, di cui sta
pagando i costi piu' alti. "La mia nonviolenza e' passata per molte prove
del fuoco e ne e' uscita rinvigorita", dice Patricia, a conferma che
l'uscita dalla violenza e' stato un processo lungo e faticoso, proceduto di
pari passo al rafforzamento dell'identita' di genere. La conseguente
politica femminista ha rafforzato, infatti, un tipo di progettualita' molto
legata alla formazione delle coscienze che per procedere nella loro
evoluzione pretendono contesti sereni e attenti ai piccoli passi, molto
diversi dal tipo di maturazione richiesta per un'azione militare, del tipo
"vigilanza costante, diffidenza costante, mobilita' costante" (17).
L'attenzione alla persona richiede inoltre l'abbandono di atteggiamenti
cospirativi e sospettosi, sostituiti dalla fiducia nella collaborazione
reciproca.
*
Tutti questi valori che rivalutano la centralita' dell'essere umano,
chiunque esso sia e a qualunque gruppo sociale appartenga, furono assunti
dalla cultura delle donne che li ripropose sotto forma di obiettivi concreti
per la loro emancipazione.
Il fatto poi che molte di loro avessero visto sbocciare la propria
femminilita' durante la guerriglia o avessero dovuto affrontare aborti per
continuare a combattere, o semplicemente avessero notato gli svantaggi
dell'essere donna nella dura quotidianita' clandestina, gestita da gruppi
dirigenti maschili, tutto questo non fece che aumentare, seppure lentamente
nel corso degli anni, la loro percezione identitaria, gia' disarticolata da
tante contraddizioni interne ed esteriori.
La violenza e' entrata da ogni parte nel percorso d'identita' delle
testimoni, da quella familiare psicologica e fisica, a quella della
repressione ed emarginazione dei primi ambienti lavorativi, al sindacato
dove come donne, per farsi sentire, hanno dovuto sovente comportarsi da
uomini.
Il loro percorso di uscita dalla violenza ha sempre richiesto un doppio
movimento, dentro e fuori di se', dal dato oggettivo storicizzato da
inchieste e indagini sociali, che rassicurava sul fatto di non essere sola a
subire una condizione di subalternita', al dato soggettivo fondato sul
dolore che, anche se condiviso, restava pur sempre una dura prova
individuale.
Forse, solo accettando tutta questa violenza, le sindacaliste hanno potuto
riprendere nelle proprie mani un'identita' spezzata. Solo "accettandola"  e
"perdonandola" nel senso di capire che poteva avere almeno una spiegazione
storica, politica e culturale al suo perpetuarsi, solo in questo lungo
processo di autocoscienza individuale e collettiva, la violenza ha potuto
essere elaborata. E continuare a esserlo finche' intorno prospera la
vertigine della guerra che concede agli uomini "la bellezza morale che la
maternita' concede alle donne" (18).
Un'altra esperienza che aiuta a elaborare l'avvenuta immersione nella
violenza delle armi e' quella delle ex terroriste degli anni settanta
italiane, studiate da Luisa Passerini. Nel loro caso, le censure sul periodo
clandestino avvenivano nella scrittura autobiografica, in cui lo sviluppo
della storia di vita dimenticava i ricordi della lotta armata. Essi venivano
affidati all'oralita' che, a differenza della scrittura, concedeva meno
fissita' alle idee e piu' dilazioni nella ricerca di significati da
attribuire a cio' che si aveva fatto. La lotta armata italiana offriva, al
tempo dei colloqui di Passerini, "un immaginario in declino" (19) e una
interpretazione della stessa molto mediata dal discredito dei mezzi di
informazione, cosa che puo' aver certamente influito sui racconti. Pur nella
profonda diversita' di contesti e motivazioni, un tratto comune appare fra
le colombiane e le ex terroriste, ed e' la memoria lacerata, "cosparsa di
silenzi, crivellata di buchi, come se i ricordi di chi ha colpito fossero a
loro volta colpiti da un'erosione interna" (20).
In altre parole, sul piano narrativo, in qualsiasi situazione avvenga, dalla
resistenza antifascista al terrorismo o, nel caso colombiano, nell'aver
militato nella guerriglia, il "colpire qualcuno" da parte delle donne non e'
mai giudicato un piacere di combattere, come nel caso degli uomini. Neppure
si sottolinea la sua inevitabile necessita', imposta dalla difesa della
causa in nome della quale si combatte. Le donne sospendono semplicemente il
racconto. Non sono in grado di fare nuova memoria e la lasciano "crivellata
di buchi". L'azione del colpire qualcuno si trasforma in sentimento diffuso
di dolore per la violenza, mentre la riflessione si sposta sul senso
complessivo della militanza politica.
Come abbiamo visto, la dissociazione dalla violenza e' avvenuta, per le
donne colombiane, dentro questo ambito, rielaborato da un punto di vista
femminista. Altre donne, in altri paesi, hanno compiuto gli stessi passi, a
riprova della forza del pensiero di genere. Un caso esemplare e' quello di
Aura Marina Arriola che nel suo libro Ese obstinado sobrevivir, rivela i
retroscena della guerriglia del Guatemala, di cui e' stata dirigente, e i
lunghi trentasei anni di violenza che percorsero questo paese, fino alla
firma degli accordi di pace del 1996. Arriola, che si definisce, come molte
donne colombiane, aventurera nomada (21), denuncia a chiare lettere la
pratica maschilista dentro la sinistra guatemalteca che non aveva saputo
valorizzazione le lotte civili che pur si preannunciavano fruttuose (22).
Non solo, Arriola ben descrive anche l'esperienza durissima del tradimento e
della crudelta', spesso provenienti da quelli che si dicono amici e compagni
e che "colpisce di piu' perche' piu' raffinata e viene da quelli dai quali
ci si aspetta solidarieta', affetto, comprensione" (23).
*
Alla luce di tutto quanto detto finora, l'atteggiamento verso la violenza da
parte delle donne colombiane suggerisce un'altra comparazione, ancora una
volta tratta dalla Resistenza partigiana al nazifascismo descritta da
Claudio Pavone. Egli considera l'esercizio della violenza, nell'Italia del
1943, lo sbocco di un'accumulazione di lunga data, cosa che "rese la
violenza da una parte piu' ovvia, dall'altra piu' spietata; ma preparo' allo
stesso tempo il passaggio a una riconsiderazione dei limiti del ricorso a
essa e della possibilita' di un suo uso contingente per renderla nel futuro
impossibile. La violenza come seduzione e la violenza come dura necessita'
si scontrarono cosi' in modo palese, pur convivendo talvolta nelle stesse
persone" (24). La moralita' della lotta armata si impose sia come scelta
personale, sia nell'organizzazione sociale delle zone liberate dai
partigiani che dovevano risolvere la gestione dei territori sotto il loro
controllo, garantendone la legalita'.
Proprio sulla moralita' di un'azione violenta, di cui non si capiva piu' la
ragione, si e' rotta la solidarieta' delle sindacaliste con le
organizzazioni di appartenenza. Furono scelte che anche molti uomini fecero,
ma le donne in questo furono piu' fortunate. Ebbero la possibilita' di
provare a creare collettivamente nuove politiche.
*
Un caso maschile interessante di dissociazione, che fece molto discutere e
provoco' non pochi sommovimenti nel Partito comunista colombiano, fu
l'uscita dalle sue fila del suo maggiore ideologo fino a quel momento:
Nicolas Buenaventura, che nel 1992 aveva gia' firmato, con un gruppo di
intellettuali fra i quali Gabriel Garcia Marquez e Fernando Botero, una
lettera aperta ai dirigenti della guerriglia, sostenendo che le loro forme
di lotta non rappresentavano la volonta' popolare ed erano contrarie al
sentido della storia della Colombia. Nell'introduzione al suo libro Que
paso' camarada?, edito nello stesso anno, Horacio Serpa Uribe, candidato
liberale alle elezioni presidenziali del maggio 2002,  arriva al cuore del
problema: "La protesta rivoluzionaria basata sulla violenza e la distruzione
e' superata. Il dogmatismo e l'ortodossia non hanno piu' spazio nella
coscienza collettiva dei popoli. Piu' importante dei modelli di guerra, sono
i criteri per superarla" (25).
I capitoli del libro di Buenaventura sono una lunga autobiografia che egli
compone in controluce, da un lato raccontando gli accadimenti piu'
importanti del suo percorso politico, dalle assemblee operaie alla "scuola
superiore" di formazione a Mosca, e dall'altro confessando i sentimenti
provati allora e che non aveva osato esprimere fino al momento della
scrittura, quando il riconoscimento del loro valore divenne nucleo centrale
delle sue analisi politiche. Il caso emblematico di Buenaventura, tipico di
molte successive biografie politiche non solo latinoamericane, evidenzia il
passaggio, nel militante, a maggior ragione se dirigente, da un'identita'
data e garantita da un ente esterno a se', nel caso il partito, a
un'identita' coerente con cio' che egli e' internamente, nell'universo
profondo dei suoi valori. Prima di scegliere la coerenza con se stessi, era
il partito a dare la certezza di essere dalla parte giusta, tanto che
l'autore camminava per il mondo in altro modo, con un "sentido mesianico"
(26). Con ironia Buenaventura entra nei luoghi comuni dell'agire politico
del Partito comunista colombiano e soprattutto si interroga su cosa sia la
democrazia. Fra i molti concetti che approfondisce, uno tende a ripetersi
sotto molte angolature: "la democrazia e' il contrario di una ideale
piramide centralista, nella quale il gruppo dirigente separato o isolato
dalla base, si insuperbiva sempre piu', convertendosi in dinastia" (27).
In questo contesto, una condizione del militante, condivisa anche dalle
donne, come narra Patricia, e' la solitudine di chi sente di possedere la
verita', ma non puo' mai comunicarla del tutto alle masse, verso le quali
mantiene la responsabilita' della linea politica e deve, per questo, stare
sempre un po' piu' in avanti degli altri.
La solitudine fu un sentimento provato da molti militanti, uomini e donne.
Per le colombiane divenne una costante, soprattutto nel passaggio dalla
violenza alla nonviolenza, quando l'abbandono delle rispettive
organizzazioni comporto' anche la perdita di un riferimento collettivo
certo. Al suo posto resto' nell'animo il senso di una militanza perduta che
soltanto anni di femminismo successivo riuscirono a riempire di nuovo.
*
Note
11. A. Bravo, A. M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne.
1940-1945, Bari, Laterza, 1995.
12. B. Guidetti Serra, Compagne, Torino, Einaudi, 1977, vol. I, p. X.
13. G. Belli, Il paese sotto la pelle. Memorie di amore e di guerra, Roma,
Edizioni e/o, 2000, p.1 27.
14. C. Arango Z., Farc. Veinte anos. De Marquetalia a la Uribe, Bogota',
Ediciones Aurora, 1986, p. 42.
15. Ivi, p. 91.
16. E. J. Leed, Terra di nessuno, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 33.
17. R. Debray, Rivoluzione nella rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1967, p.
41.
18. R. Caillois, La vertigine della guerra, Roma, Edizioni Lavoro, 1990, p.
60.
19. L. Passerini, Storie di donne e femministe, Torino, Rosenberg &
Sellier,1991, p. 57.
20. Ivi, p. 84.
21. A. M. Arriola, Ese obstinado sobrevivir. Autoetnografia de una mujer
guatemalteca, Guatemala, Ediciones Pensativo, 2000, p. 13.
22. Ivi, p. 40.
23. Ivi, p. 46.
24. C. Pavone Una guerra civile. Saggio storico sulla moralita' della
Resistenza, Milano, Bollati Boringhieri, 1991, p. 416.
25. H. Serpa Uribe, Introduzione, in N. Buenaventura, Que paso' camarada?,
Bogota', Ediciones Apertura, 1992, p. XVII.
26. N. Buenaventura, Que paso' camarada?, cit., p. 18.
27. Ivi, p. 40.
(Parte seconda - Segue)

3. TESTIMONI. UNA INTERVISTA A LUIGI BETTAZZI
[Dalla mailing list "Ecumenici" (per contatti: e-mail:
ecumenici at aliceposta.it, sito: http://ecumenici.altervista.org/html/)
riprendiamo questa intervista a monsignor Luigi Bettazzi. Luigi Bettazzi,
nato a Treviso nel 1923, per molti anni vescovo di Ivrea e presidente di Pax
Christi, e' una delle figure piu' vive della cultura e della prassi di pace.
Ordinato sacerdote nel 1945 e vescovo dal 1963; teologo, professore di
filosofia, di storia della filosofia e della morale sociale, padre
conciliare e vescovo emerito di Ivrea, e' stato presidente di Pax Christi
Italia e di Pax Christi International (il prestigioso movimento cattolico
internazionale per la pace), presidente della commissione "Justitia et pax"
della Conferenza episcopale italiana (Cei), ed e' una delle figure di
riferimento per il movimento pacifista e le persone di volonta' buona. Dal
sito dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche
(www.emsf.rai.it) ci piace riportare, come esempio del garbo (e
dell'autoironia) di monsignor Bettazzi, l'esordio di autopresentazione
personale di alcune sue conversazioni televisive tenute anni fa con studenti
di scuole medie superiori: I) "Sono Luigi Bettazzi. Sono nato a Treviso,
dove mio padre lavorava, nel 1923. Poi, con la famiglia, ci siamo trasferiti
a Bologna, che e' la citta' di mia madre, dove sono diventato prete, son
diventato vescovo. Nel 1963 ho fatto ancora tre anni del Concilio Ecumenico
Vaticano II. Sono uno dei due vescovi in funzione ancora, che hanno fatto il
Concilio. Dalla fine del '66 sono vescovo di Ivrea. Nel 1968 fui nominato
presidente nazionale di Pax Christi, movimento cattolico internazionale per
la pace. Nel 1978 sono diventato presidente internazionale, fino all'85. Ed
e' in questo ruolo che ho avuto occasione di interessarmi dei diritti
dell'uomo, del disarmo, di avere anche qualche intervento di carattere
pubblico, per cui qualche volta si e' parlato di me". II) "Da 32 anni sono
vescovo di Ivrea. Sono stato per molti anni presidente di Pax Christi, il
movimento cattolico internazionale per la pace. Per diciassette anni
presidente italiano, per gli ultimi sette anche internazionale. Mi hanno
coinvolto in tanti problemi, missioni in Centro America, in Africa,
conoscenza col Vietnam. Forse questi sono i motivi per cui ho dovuto
interessarmi in modo particolare di questi problemi, di carattere sociale,
anche internazionale". III) "Mi chiamo Luigi Bettazzi, sono nato a Treviso,
ma mio padre era torinese, di famiglia toscana, mia mamma bolognese ed e'
lei che m'ha insegnato a parlare. La lingua e' materna. Sono stato prete a
Bologna, poi vescovo ausiliario a Bologna e nel gennaio del '67 vescovo di
Ivrea. Avendo compiuto i 75 anni sono andato in pensione. Gia' e' entrato a
Ivrea il mio successore. Sono stato insegnante di filosofia nel seminario e
di religione nelle scuole. Cosi', qualche contatto e il piacere di parlare
con i giovani l'ho ancora". Opere di Luigi Bettazzi: tra le molte sue
pubblicazioni segnaliamo ad esempio Intelligenza e fede (1963); Una Chiesa
per tutti (1971); La Chiesa fra gli uomini (1972); La carne di Dio (1974);
Farsi uomo (1977); Al di la'... al di dentro (1978); Cari bambini, caro
vescovo (1979); Ateo a diciotto anni (1982); Il cristiano e la pace (1983);
tra le opere piu' recenti: La sinistra di Dio, La Meridiana, Molfetta; Don
Tonino Bello. Invito alla lettura, Paoline, Cinisello Balsamo; Giovani per
la pace, La Meridiana, Molfetta. Opere su Luigi Bettazzi: segnaliamo la
lettera aperta di Bettazzi al segretario del PCI Luigi Berlinguer del 1976,
che diede luogo ad una risposta di Berlinguer nel '77; e' stata pubblicata
con altri materiali in Antonio Tato' (a cura di), Comunisti e mondo
cattolico oggi, Editori Riuniti, Roma 1977]

- "Ecumenici": Come vede l'ecumenismo di base di questi ultimi anni: vi sono
tanti cattolici, evangelici, non credenti e persone di altre fedi viventi
che discutono ogni giorno di tematiche legate alla pace, alla giustizia e
alla salvaguardia del creato.
- Luigi Bettazzi: Fu determinante l'assemblea ecumenica che si tenne a
Basilea nel maggio 1989. dopo secoli di divisione i cristiani europei -
ortodossi, cattolici, protestanti delle diverse confessioni - si trovarono a
pregare insieme e a dialogare su "pace, giustizia, salvaguardia del creato".
Ci si rese conto che se alcune prospettive di fede cristiana ci dividevano,
potevamo e dovevamo lavorare insieme per la salvezza e lo sviluppo concreto
dell'umanita'. Come le divisioni nacquero da contrapposizioni etniche o
politiche trasferite poi sul piano religioso, cosi' un'unita' operativa puo'
renderci reciprocamente piu' accoglienti: due segnali pratici sono stati il
togliersi delle scomuniche dopo l'incontro in Terra Santa di Paolo VI e il
patriarca ortodosso Atenagora nel gennaio 1964, e la firma comune con i
luterani, nell'autunno 1999, circa la dottrina della "giustificazione" da
cui era partita la divisione.
- "Ecumenici": Cosa pensa dell'apporto di molti settori conservatori
dell'elettorato cattolico statunitense nella rielezione dell'attuale
presidente degli Stati Uniti d'America? Quali implicazioni hanno avuto certe
posizioni integraliste trasversali e il duro fronte per la guerra?
- Luigi Bettazzi: E' tipico che si insista piu' sulla morale individuale, in
particolare su quella sessuale, (tanto, ognuno poi fa come vuole...) che non
su quella sociale - come ad esempio sulla guerra e le violenze - che
ovviamente sconfina nella politica. Ed e' cosi' che una buona parte dei
cattolici statunitensi (e del loro clero), mentre osteggiano il cattolico
Kerry come non sufficientemente antiabortista, sostengono il metodista Bush,
determinato con tutti i mezzi alla guerra in Iraq nonostante l'esplicita
insistente dissuasione del Papa.
- "Ecumenici": Cosa auspica nell'aggiornamento del magistero della chiesa
cattolica nei prossimi anni?
- Luigi Bettazzi: Auspico che le posizioni cosi' determinate di Giovanni
Paolo II contro la guerra, giunte a rivendicare per i cristiani l'impegno
per la nonviolenza attiva, possano essere accolte e vissute da tutti i
cattolici con la stessa convinzione e coerenza con cui cercano di dissuadere
dall'aborto.
- "Ecumenici": Come testimonia nel quotidiano il suo impegno a favore della
pace?
- Luigi Bettazzi: Accogliendo gli inviti che mi vengono fatti per conferenze
(nel 2003 ho tenuto in Italia oltre sessanta commemorazioni della "Pacem in
terris", l'Enciclica di Giovanni XXIII di cui ricorrevano i quarant'anni) o
scrivendo articoli per riviste. Ho scritto anche un libretto, proprio
partendo dalla Pacem in terris, rivolto in particolare ai giovani (Giovani
per la pace, edito dalla Meridiana di Molfetta), stimolandoli a farsi
protagonisti di una grande campagna per la pace e la nonviolenza.
- "Ecumenici": Cosa ritiene di dire agli industriali lombardi e italiani che
producono armi da guerra? E agli operai e agli impiegati che vi lavorano?
- Luigi Bettazzi: Vorrei far sentire loro la responsabilita' che si assumono
nell'alimentare cosi' le guerre e le violenze. Dovrebbero studiare e attuare
la riconversione industriale delle loro imprese per manufatti di pace; e' lo
sforzo che si fece al termine della seconda guerra mondiale, quando molte
industrie, che prima lavoravano per la guerra, furono trasformate in imprese
per opere di pace.
- "Ecumenici": Qual e' lo stato di salute di Pax Christi in Italia e nel
mondo?
- Luigi Bettazzi: Non si deve contare la salute di un movimento dal numero
degli iscritti, soprattutto di un movimento d'opinione e controcorrente,
come e' Pax Christi, in una societa' che cerca il guadagno dalla produzione
e dal commercio delle armi e in una comunita' cristiana attenta alla morale
individuale ma restia a trarre nella vita sociale le conseguenze dei
principi evangelici. Ma ci rendiamo conto di come, pur con fatica e
diffidenze, certe idee che Pax Christi ha sentito come proprio patrimonio si
facciano strada nella Chiesa e nel mondo, dal valore dell'obiezione di
coscienza, alla pace come difesa dei diritti dei piu' deboli, appunto alla
nonviolenza attiva come unica via per una pace ispirata al Vangelo.

4. LUTTI. ALESSANDRO PORTELLI RICORDA SAUL BELLOW
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 aprile 2005.
Alessandro Portelli, studioso della cultura americana e della cultura
popolare, docente universitario, saggista, storico, militante della sinistra
critica, per la pace e i diritti. Opere di Alessandro Portelli: segnaliamo
particolarmente L'ordine e' gia' stato eseguito, Donzelli, Roma 1999.
Saul Bellow (1915-2005), premio Nobel per la letteratura nel 1976, e' stato
uno dei maggiori scrittori del Novecento, maestro di stile e quindi di
morale, e indagatore acutissimo, illuministico e barocco a un tempo, insieme
cartesiano e funambolico, di questo mistero di cui consistiamo, di "questo
trenino a molla / che chiamiamo cuore" (Pessoa)]

Alla fine di Un uomo in bilico, il primo romanzo di Saul Bellow, il
protagonista si lascia andare a un perturbante sospiro di sollievo. Gli e'
finalmente arrivata la chiamata per l'esercito, dopo una lunga e incerta
attesa, e lui conclude ironicamente: evviva l'irreggimentazione, evviva il
controllo... L'uomo in bilico e' una delle figure decisive del complicato
dopoguerra americano, di quella generazione che ha avuto in Saul Bellow il
suo ultimo gigante, una figura possente e non poco ingombrante. Sospeso fra
il momento in cui sa che dovra' partire, e quindi comincia a tagliare tutti
i suoi rapporti, e la sempre rinviata partenza, il personaggio si trova in
una condizione profondamente americana, in cui una liberta' senza legami
sembra tradursi in una solitudine carica di incertezze e di dubbi. Come
altre figure prese in tempi sospesi - uno per tutti, l'adolescente Holden di
Salinger, e poi la generazione di prolungata adolescenza del dopoguerra -
l'antieroe di Bellow deve ricostruire con le sue sole forze la propria
identita'. Di li' a poco, Erich Fromm avrebbe scritto della "fuga dalla
liberta'" nella societa' di massa. A un primo livello, e' di questo che
parla Saul Bellow, anticipando una crescente omologazione delle coscienze,
un'euforica rinuncia alla propria liberta' mentale (sara' un tema degli anni
'50, dalla Folla solitaria di David Riesman a The Organization Man di
William Whyte). Ma su un altro piano, quella di Saul Bellow e' anche
l'orgogliosa rivendicazione di una liberta' interiore di cui fara' bandiera
e testimonianza nei decenni seguenti: come se l'uniforme del conformismo
esteriore diventasse una protezione, una corazza che garantisce la piena
autonomia della sfera interiore da intrusioni sgradite.
*
Sono questi i temi che Saul Bellow seguira', sostanzialmente, nella sua
opera successiva: la relazione complicata fra la liberta' profonda del
singolo e un contesto che sempre piu' si involgarisce e si degrada. Il
momento piu' limpido di questo tragitto restano le pagine brevi e
indimenticabili di Seize the day, dove il protagonista comincia a tirarsi da
parte, a guardare, riflettere e prendere le distanze anche davanti alla
morte. Ma la linea di fondo del percorso intrapreso dai personaggi di Bellow
e' un declino progressivo, accompagnato dal ciclo della vita, che comincia
con prodigiose energie vitali e immaginative in Augie March - protagonista
delle omonime Avventure - e in Henderson, re della pioggia, romanzi con una
presa planetaria e protagonisti straripanti che fanno i conti con la
tradizione di Mark Twain e di Hemingway; e poi a mano a mano si stringe e si
scava, e da' vita al dubbio e al dialogo filosofico con se stesso di Herzog,
nel romanzo che ne prende il nome, al Pianeta di Mr. Sammler, al dicembre
del Professor Corde. Sono anche gli anni in cui Richard Hofstadter pubblica
la sua memorabile ricerca sull'antiintellettualismo nella storia e nella
vita culturale degli Stati Uniti. E intellettuali, sempre piu', sono gli
eroi di Saul Bellow, destinati a sentirsi via via piu' lontani dalla
temperie dominante, con fasi di stanchezza e lampi di ironia alimentati
dalla tradizione ebraica, che e' al centro della rinascita del romanzo
americano nel dopoguerra; ma piu' lontani questi stessi personaggi lo sono
anche dal rapporto fra un progressivo "europeizzarsi" del pensiero (anche
qui c'entra il modo con cui Bellow ha vissuto la tradizione ebraica) e una
voce che resta sempre intrinsecamente americana, intrinsecamente di Chicago,
intrinsecamente di confine.
*
Ammetto che non ho avuto sempre un rapporto tranquillo con Saul Bellow. La
sua tensione morale e intellettuale resta ammirevole in ogni momento, il
fascino della scrittura e' capace di avvilupparti e non lasciarti piu'
andare; il suo disincanto verso le forme piu' banali della modernita' e' un
antidoto salutare.
Eppure, a mano a mano che i suoi protagonisti si consolidano nella autonomia
della loro coscienza, affiorano talora vene di incomprensione sprezzante nei
confronti di quello che e' tutto sommato il nostro mondo, un senso di
superiorita' morale che ce li allontana. Saul Bellow aveva partecipato, come
molti giovani intellettuali della sua generazione, alla stagione
dell'impegno politico e sociale negli anni '30; se ne era separato, ancora
come molti altri, ed e' come se quella rinuncia avesse comportato un senso
incombente di sconfitta: se negli anni '30 gli intellettuali americani
avevano per un momento pensato di poter contribuire a cambiare il mondo,
gia' nel dopoguerra il gesto piu' radicale che poterono fare fu staccarsene.
Il degrado fu irrimediabile. Questa sensazione accentua il vigore della
critica, naturalmente: gli eroi di Bellow non si sporcano le mani, ma non
fanno nemmeno compromessi. Anche per questo la sua scrittura si fa sempre
piu' tagliente, anch'essa senza compromessi, in una ricerca di stile che e'
al tempo stesso ricerca morale - e con la conseguente capacita' di diventare
provocatoria, anche intenzionalmente irritante, nei confronti di ogni facile
ottimismo "progressista".
Mi viene da chiedermi: ma siamo poi cosi' sicuri che questo atteggiamento
non contenga a sua volta una sua dose di conformismo, di rassicurazione?
Tornando al mio carissimo uomo in bilico: siamo poi cosi' sicuri che la
maschera esteriore di adeguamento non si ripercuota poi anche nel foro
interno?
*
Il fatto e' che con giganti della misura di un Saul Bellow (o, per una
generazione precedente, di uno Henry James) anche scontrarsi e' produttivo,
anche litigare costringe a farsi domande. E certo di un gigante si e'
trattato, dell'ultimo protagonista di una generazione che ha saputo
inventarsi le forme narrative per un mondo trasformato. La sua e' stata la
generazione dell'eroe ironico, del perdente vincitore, della ricerca dei
miti portanti della narrativa occidentale. Bellow viene a mancare in un
momento in cui dall'America arrivano ancora, certo, voci significative (ma
molto diverse: Toni Morrison, Don DeLillo; forse - per dirne uno meno
lontano da lui - Philip Roth), ma non e' piu' l'America, come in quel
momento straordinario di cui Bellow fu protagonista, a indicarci la strada
del futuro.

5. RIVISTE. "RAGGIO"
[Dal sito www.rivistaraggio.org riprendiamo questa scheda di presentazione
della rivista]

"Raggio" nasce nel 1934 come "foglio familiare" delle suore comboniane "pie
madri della nigrizia", per mantenere informate ed unite le missionarie che
operano in Egitto, Sudan, Uganda ed Eritrea. La testata richiama un passo
fondamentale delle regole date da Daniele Comboni nel 1871 al suo Istituto:
"un piccolo cenacolo di apostoli, un punto luminoso che manda fino al centro
della Nigrizia altrettanti raggi quanti sono i suoi zelanti e virtuosi
missionari che escono dal suo seno: e questi raggi che splendono e insieme
riscaldano, necessariamente rivelano la natura del Centro da cui emanano".
Il primo numero di questa "newsletter" ante litteram fu scritto interamente
a mano, con la paziente calligrafia di una amanuense, su una matrice di
carta incerata per ciclostile. Gia' dal secondo numero tuttavia, le
redattrici erano passate alla macchina da scrivere e per risparmiare non
solo usavano l'interlinea 1, ma non lasciavano il benche' minimo spazio
bianco ai bordi. Per i primi due anni l'umile ciclostilato si limita a far
circolare all'interno dell'Istituto le notizie delle pioniere del Vangelo in
terra d'Africa.
E' nel settembre del 1936 che "Raggio" passa finalmente alla stampa e si
lancia al pubblico, come rivista bimestrale di taglio prettamente
missionario-africano-femminile con l'obiettivo di far conoscere anche
all'esterno questa prorompente vitalita' missionaria. In questi
sessantacinque anni il suo cammino ha segnato le tappe della missione
comboniana che via via si e' estesa, aprendosi anche ad altri continenti
(America e Asia) e a nuovi orizzonti ecclesiali e socio-culturali. Pur
rinnovando nel tempo la sua veste tipografica "Raggio" nella fisionomia e
nei contenuti e' rimasta fedele all'impegno di far luce su "fatti, problemi,
linee della missione". La rivista esce ogni mese a 36/40 pagine.
Aperta al mondo, attraverso reportages, interviste e testimonianze, "Raggio"
intende dar voce, volto, nome a coloro ai quali questo diritto e' negato,
essere espressione di culture diverse. In particolare, secondo il carisma
comboniano, vuole far luce sul "pianeta donna" in Africa e nel mondo. Con i
suoi dossier affonda lo sguardo nei problemi piu' attuali dell'umanita' e
della donna, facendone risaltare condizioni oppressive, potenzialita' e
valori, cammino e conquiste.
Attualmente si stampano diecimila copie (dodicimila per qualche "speciale").
Di queste, ottomila in abbonamento il resto per diffusione, animazione,
scambio con altre riviste, biblioteche. Oggi la rivista e' visibile anche
sul sito www.rivistaraggio.org ed e' letta anche da giovani, gruppi,
associazioni, persone di vario ambiente sociale e livello culturale.

6. LETTURE. ELENA LIOTTA, LUCIANO DOTTARELLI, LILIA SEBASTIANI: LE RAGIONI
DELLA SPERANZA IN TEMPI DI CAOS
Elena Liotta, Luciano Dottarelli, Lilia Sebastiani, Le ragioni della
speranza in tempi di caos, La Piccola Editrice, Celleno (Vt) 2004, pp. 96,
euro 7. Tre conversazioni svolte nel convegno su "In tempi di caos, le
ragioni della speranza" promosso dalla comunita' di famiglie del convento di
Celleno (Vt) in occasione della pasqua 2004, con una presentazione di
Luciano Comini. Una lettura appassionante ed a tratti fin commovente,
all'ascolto delle nitide voci e soavi di assai care persone amiche. Per
richieste: La Piccola Editrice, via Roma 5, 01020 Celleno (Vt), tel. e fax:
0761912591, e-mail: convento.cel at tin.it, sito:
www.conventocelleno.it/lapiccola.index.htm

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 902 del 17 aprile 2005

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