La nonviolenza e' in cammino. 905



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 905 del 20 aprile 2005

Sommario di questo numero:
1. Giuseppe Burgio: Verso un'ecologia dei conflitti (parte prima)
2. Eleonora Cirant: Un'esperienza di riflessione collettiva sull'intreccio
tra nascita e tecnologie
3. Maddalena Gasparini: Riflessioni attorno agli interrogativi prodotti
dalle tecnologie biomediche
4. La "Carta" del Movimento Nonviolento
5. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. GIUSEPPE BURGIO: VERSO UN'ECOLOGIA DEI CONFLITTI (PARTE
PRIMA)
[Ringraziamo Giuseppe Burgio (per contatti: giuseppeburgio at libero.it) per
averci messo a disposizione questo suo saggio, "Verso un'ecologia dei
conflitti. Gregory Bateson e la gestione pedagogica delle differenze",
pubblicato nel volume di Gian Luigi Brena (a cura di), Etica pubblica ed
ecologia, Edizioni Messaggero, Padova 2005.
Giuseppe Burgio, docente e saggista, da anni impegnato in iniziative
didattiche e associative di prevenzione del disagio nella scuola, si occupa
di pedagogia interculturale all'Universita' di Palermo.
Gregory Bateson e' nato nel 1904 in Inghilterra, figlio di un eminente
scienziato; compie studi naturalistici ed antropologici, di logica,
cibernetica e psichiatria; un matrimonio con la grande antropologa Margaret
Mead; Bateson ha dato contributi fondamentali in vari campi del sapere ed e'
uno dei pensatori piu' influenti del Novecento; e' scomparso nel 1980. Opere
di Gregory Bateson: Naven, Einaudi, Torino; Verso un'ecologia della mente;
Mente e natura; Una sacra unita'; Dove gli angeli esitano (in collaborazione
con la figlia Mary Catherine Bateson), tutti editi da Adelphi, Milano. Si
vedano anche i materiali del seminario animato da Bateson, "Questo e' un
gioco", Raffaello Cortina Editore, Milano. Opere su Gregory Bateson: per un
avvio cfr. AA. VV. (a cura di Marco Deriu), Gregory Bateson, Bruno
Mondadori, Milano; Sergio Manghi (a cura di), Attraverso Bateson, Raffaello
Cortina Editore, Milano. Cfr. anche Rosalba Conserva, La stupidita' non e'
necessaria, La Nuova Italia, Scandicci (Fi), particolarmente sulle
implicazioni educative e la valorizzazione in ambito pedagogico della
riflessione e dell'opera di Bateson. Una bibliografia fondamentale e' alle
pp. 465-521 di Una sacra unita', citato sopra. Indicazioni utili (tra cui
alcuni siti web, ed una essenziale bibliografia critica in italiano) sono
anche nel servizio con vari materiali alle pp. 5-15 della rivista pedagogica
"Ecole", n. 57, febbraio 1998. Tra i frutti e gli sviluppi del lavoro di
Bateson c'e' anche la "scuola di Palo Alto" di psicoterapia relazionale: di
cui cfr. il classico libro di Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D.
Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio-Ubaldini, Roma; e
su cui cfr. Edmond Marc, Dominique Picard, La scuola di Palo Alto, Red
Edizioni, Como]

La violenza mi interroga, mi tira in ballo come educatore, e' una sfida alla
mia professione. Tutte le forme della violenza, dal recente conflitto armato
in Iraq fino alle violenze piu' piccole - la violenza di un gesto, di una
parola, di un silenzio - che hanno come teatro le citta', le famiglie, le
aule scolastiche... Secondo me, scopo di ogni educatore e' ottenere una
migliorata capacita' di essere felici, di produrre senso, di creare valore
(1), la conquista di un miglior agio nel mondo. L'esistenza della violenza
mi sembra quindi mettere in crisi il senso stesso della scuola: che senso ha
un insegnamento, qualunque esso sia, se non autorizza la speranza nella
liberazione da cio' che provoca paura e dolore? D'altro canto, in molti -
genitori, studenti, insegnanti - affidano alla scuola, spesso
inconsciamente, le speranze di un cambiamento.
Ma, a ben guardare, la violenza non e' solo fuori dagli istituti scolastici,
e' presente anche all'interno: tra i docenti, tra docenti e studenti, tra
studenti. Violenze sottili, psicologiche, a volte istituzionali, altre volte
schiettamente manesche. Mi riferisco a fenomeni eterogenei che vanno da una
risposta sgarbata data all'insegnante alla pesante ironia fatta dal docente
sull'ignoranza di un alunno, da una rissa tra compagni al bullismo vero e
proprio. Una cosa hanno pero' in comune fenomeni cosi' diversi: sono
espressione (e costitutivi) di un conflitto.
Tra la violenza della guerra e i nostri comportamenti quotidiani (anche
quelli che non definiremmo "violenza") e' possibile evidenziare un
collegamento, interpretarli tutti all'interno di un'unica cornice
concettuale: quella, appunto, del conflitto.
Oggetto del mio lavoro vuole essere proprio il conflitto a scuola e, per
guardare alle implicazioni molteplici di questo tema, partiro' dalla
ricchezza teorica rappresentata dall'ecologia della mente di Gregory Bateson
poiche' e' mia convinzione che l'apparato epistemologico con cui siamo
soliti pensare sia concausa dell'esistenza stessa della violenza. Credo che
la violenza nel nostro pianeta abbia un corrispettivo, un'implicazione, dei
prodromi, nel modo in cui pensiamo e che, di conseguenza, il modo in cui di
solito pensiamo a come combattere la violenza sia necessariamente viziato ed
inefficace.
*
Violenza e conflitti
A scuola, gli episodi di violenza sembrano nascere dal nulla, esplodere in
maniera subitanea, per essere presto superati con una pacca sulle spalle o
dimenticati. Ma prima che due alunni arrivino alle mani, come nasce il
conflitto? E subito dopo, asciugate le lacrime, dove va a finire? Sembra
essere uno sgradevole incepparsi (raro o frequente non importa) di una
convivenza serena e senza ombre. Un malinteso irenismo tende infatti a
isolare il conflitto violento dal contesto che lo produce: la quieta
quotidianita' non ha responsabilita' per il conflitto. Il conflitto e'
negativo, l'assenza di conflitto positiva, cosi' come la guerra e' negativa,
l'assenza di guerra positiva. In realta', l'equivalenza conflitto=violenza
e' falsa: il conflitto esprime semplicemente la differenza, incontriamo un
conflitto ogni volta che incontriamo una differenza. Conflitto e' un altro
nome della differenza. La scuola presenta conflitti perche' presenta
l'interazione tra differenze. Ogni conflitto (in quanto differenza) e'
fertile, produttore di senso, pedagogicamente utilissimo. La violenza invece
e' la negazione del conflitto, e' il suo congelamento, segna la fine
dell'interazione tra le differenze, la trasformazione dello scarto in
mancanza o eccedenza. La violenza e' uno dei tanti modi (il peggiore) in cui
puo' risolversi un conflitto.
La mia esperienza quotidiana a scuola e' intessuta di conflitti, positivi e
creativi o incancreniti, esplicitati o nutriti in silenzio dall'odio, non
riconosciuti e sedati oppure paralizzati dalla violenza verbale o fisica...
Ma a scuola vediamo in genere i conflitti solo quando sono degenerati in
violenza e li dimentichiamo al cessare della violenza. Avremmo meno
conflitti violenti se tenessimo conto della differenza tra conflitto e
violenza. Avremmo meno violenza se ponessimo veramente attenzione ai
conflitti, cercando di gestirli in maniera creativa.
*
L'illusione del controllo
Se chiediamo a qualunque studente o docente un esempio di conflitto a scuola
rispondera' con un luogo comune: "se non la smetti ti rompo la faccia... non
sono stato io... ora basta! oppure ti faccio una nota sul registro... ci
vediamo all'uscita... lascialo perdere, sii superiore... non mi fai paura...
non dovevi reagire ma dirlo all'insegnante... ha detto cose su mia madre...
ora ti mando dal preside... non ho paura ne' di lei ne' del preside...". Un
conflitto del genere appare di difficile soluzione, si sente in bocca un
amaro sapore d'impotenza non rassegnata. Cosa puo' fare l'insegnante? Gli
studenti?
Riguardo ai conflitti, sia tra studenti sia tra questi e i docenti, abbiamo
poche scelte. Come nota Marianella Sclavi, "il repertorio di comportamenti
che sia insegnanti che bambini hanno a disposizione di fronte al conflitto
e' estremamente povero e si esaurisce in tre alternative: 1) Imporre le
proprie ragioni con la forza; 2) Fare appello a una autorita' superiore; 3)
Far finta di niente, isolare la 'fonte' del conflitto" (2). Piu' o meno quel
che succede nelle controversie tra gli stati.
Il docente, che si percepisce (e viene percepito) come un giudice e un
poliziotto, si sente frustrato. Il conflitto violento tra i nostri studenti
ci ingenera ansia, vorremmo ristabilita al piu' presto una situazione di
"normalita'" (purtroppo spesso fatta di conflitti sopiti), abbiamo la penosa
sensazione di non controllare quello che succede e l'unica cosa che ci
tranquillizza e' agire. Meno conosciamo quello che succede, maggiormente
desideriamo controllarlo, maggiormente desideriamo agire. La nostra azione
sembra tanto piu' urgente quanto maggiore e' la nostra ignoranza di cio' che
sta realmente accadendo a livello profondo. Ecco allora l'intervento del
docente: ordina, minaccia, esorta, suggerisce soluzioni, cerca di
persuadere, giudica o critica, approva, ridicolizza, analizza e interpreta,
rassicura, promette (3). Il risultato, manco a dirlo, e' generalmente
fallimentare. Secondo l'ecologia della mente, e' proprio questo
atteggiamento mentale - voler creare un'azione semplice, intenzionata verso
un effetto diretto - l'ostacolo principale a qualsiasi azione efficace.
Ci illudiamo di potere controllare gli alunni in classe con un'azione
finalizzata: immettiamo alcune cause e ci aspettiamo determinati effetti
cosi' come, quando colpiamo una palla su un tavolo da biliardo, ci
aspettiamo una traiettoria e una velocita' determinata. Sembra chiaro,
invece, dalla poverta' dei risultati ottenuti che dobbiamo abbandonarci ad
una angosciante (e allo stesso tempo dolcissima) consapevolezza: non
possiamo controllare i nostri alunni. Non perche' non siamo abbastanza
bravi, abbastanza rigorosi, non perche' non sappiamo applicare le
metodologie apprese nell'ultimo corso d'aggiornamento, ma semplicemente
perche' dentro l'aula c'e' un sistema formato dagli alunni, dagli insegnanti
e dalle loro relazioni in co-evoluzione reciproca. L'insegnante e' parte del
sistema, puo' cercare di imprimere un certa direzione alle dinamiche della
classe, non puo' dirigere la classe verso tale direzione. Cosi' come nessun
dirigente scolastico puo' indirizzare la propria scuola come vuole. Puo'
imporre una decisione formale, ma sara' il sistema formato da docenti,
personale Ata, studenti e genitori, a realizzare, modificare, boicottare,
snaturare, perfezionare, reinterpretare, il progetto iniziale. Ancora, non
e' possibile controllare la nostra comitiva di amici facendole scegliere
sempre il nostro locale preferito. Piu' esattamente, e' possibile
realizzarlo per brevi periodi ma il costo appare enorme e i rischi continui.
Succede esattamente come all'essere umano che non puo' indicare una
direzione, scelta da lui solo, all'intero ecosistema, se non a costo di
distruggerlo.
Questa consapevolezza non significa necessariamente abbandonare al teppismo
gli istituti scolastici ne' abdicare alla propria funzione docente.
Significa sapere che se trattiamo un sistema complesso con una logica
semplice siamo votati al fallimento.
Riguardo al problema dei conflitti scolastici, io penso allora che,
ecologicamente, piuttosto che affannarsi alla risposta, precipitarsi alla
ricerca delle soluzioni, sia meglio sostare sulla domanda, complessificare e
problematizzare la domanda. Come dice von Glasersfeld, infatti, "le
opportunita' di riflettere sul processo in atto sono cento volte piu'
importanti dei risultati immediati" (4).
*
Leggere i conflitti
Capire perche' litighiamo con nostra moglie, cosa ci infastidisce del
comportamento di un turista giapponese, perche' nasce una rissa in classe,
e' una questione di osservazione. Come insegna Sclavi, "quel che vedi
dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista,
devi cambiare punto di vista" (5). Quando noi insegnanti vediamo un
conflitto (e non di tutti i conflitti ci rendiamo conto) lo vediamo a
partire dal nostro corpo, dalla nostra epistemologia, dalla nostra storia,
dalla nostra concezione della scuola, ecc., insomma a partire dal nostro
punto di vista.
Prendo a prestito da Sclavi il seguente esempio (6). Spesso i bambini usano
quello che per me e' un tavolo da cucina come capanna sotto cui ripararsi e
giocare. Generalmente questo atteggiamento mi fa pensare che i bambini sono
appunto... bambini, esseri cioe' in evoluzione, con un cervello, una
conoscenza del mondo, un sapere, inferiori al mio. Mancano di qualcosa che
col tempo acquisteranno. Non ho dubbi che la mia descrizione ("tavolo da
cucina") e l'uso che faccio dell'oggetto siano quelli giusti. In realta', i
bambini, piuttosto che non ancora del tutto sviluppati dal punto di vista
mentale e cognitivo, sono semplicemente... bassi. Generalmente, i bambini
sono piu' bassi degli adulti e su questo fondamento non teorico ma
esperienziale si struttura il loro punto di vista: non pertinentizzano il
piano superiore del tavolo (che non arrivano a vedere) ma il vuoto
sottostante. Probabilmente anche un adulto, vedendo quattro pali su cui
poggia una copertura che lo sovrasta di trenta centimetri, penserebbe a
riutilizzare quell'oggetto, certo avrebbe difficolta' ad usarlo come desco.
Ho l'impressione che una cosa non diversa accada per la scuola: come
percepiscono gli studenti la loro classe? E' un contesto di apprendimento o
l'unica occasione della giornata in cui possono confrontarsi con coetanei/e?
Sono loro a disturbare l'insegnante che spiega o e' l'insegnante che
disturba la relazionalita' altrimenti sana di un gruppo di bambini che si
sta divertendo insieme? E' lo studente che risponde aggressivamente a una
richiesta dell'insegnante oppure e' sentito come aggressivo l'insegnante che
sovrasta (perche' piu' alto) lo studente e mostra un viso irritato? La
descrizione di qualunque cosa dipende da cio' che per noi e' pertinente e da
quello che tralasciamo.
Anche di un conflitto e' difficile vedere tutto. Ogni descrizione e'
un'interpretazione. Nonostante quello che ci e' stato insegnato
sull'obiettivita', noi esseri umani - sempre - produciamo immagini concrete
anche in presenza di informazioni insufficienti. Secondo Sclavi, ad esempio,
"ogni volta che qualcuno inizia una frase, incominciamo immediatamente a
produrre congetture sul significato dell'intera enunciazione e man mano che
va avanti modifichiamo sia la nostra interpretazione delle singole parole
che il senso complessivo quel tanto che e' necessario perche' la nostra
interpretazione rimanga plausibile" (7). Nell'incontro con l'altro, nel
conflitto, questo meccanismo ha effetti particolari: "maggiore e'
l'autorita' e il prestigio di una persona, piu' ci rendiamo automaticamente
disponibili a darci da fare per rendere 'sensato' quello che dice e fa...
[invece] quando chi 'parla e fa' e' una persona emarginata dalla societa' o
comunque in posizione marginale, altrettanto automaticamente tendiamo a
risparmiarci, a posizionarci sull'ascolto passivo. Questa mancata
attivazione e collaborazione e' il motivo principale per cui 'i marginali'
cosi' spesso 'hanno poco da dire' e quello che dicono 'ha poco o nessun
senso'" (8). Siamo in un circolo vizioso: abbiamo una minore voglia di
comprendere cio' che invece dovremmo sforzarci di comprendere meglio,
proprio perche' lontano da noi (come uno studente o un collega col quale non
c'e' empatia).
Abbiamo urgenza di classificare per potere agire e tendiamo a tralasciare i
"casi particolari", le "eccezioni" che confermano la regola. Se facessimo
attenzione alle eccezioni vedremmo che sono possibili svariate descrizioni
dello stesso oggetto, vedremmo che una capanna ad alcuni puo' sembrare
addirittura... un tavolo da cucina. Cio' significa superare l'ovvio,
complessificare una visione ingenua: preziosa conquista, perche' la visione
ingenua, una volta perduta, non e' piu' restaurabile. Potremo scegliere che
una descrizione e' migliore di un'altra ma non potremo piu' pensare che sia
"ovviamente" l'unica (9). Risalire alle cornici epistemologiche non
significa condividerle, ma solo capirle meglio (10): tenere conto delle
esigenze di socializzazione degli studenti non significa rinunciare a fare
lezione, ma prevedere spazi di socialita' e di relazionalita' a scuola. Uno
sguardo ecologico sui conflitti a scuola significa cambiare modo di pensare,
non concentrarsi su cosa vediamo ma su come guardiamo (11).
*
Il paradigma della colpa
Questa e' la sfida, ma quanto spesso, invece, noi insegnanti usiamo la
scorciatoia di etichettare e colpevolizzare, ponendo su un solo elemento
della relazione il carico del problema?
Questo atteggiamento rende piu' difficile gestire il conflitto. Il paradigma
della colpa e' a somma zero: se io ho ragione l'altro ha torto. Io non
voglio avere torto. Io non ho torto. Ne sono sinceramente convinto. "La
psicologia della Gestalt ha mostrato che qualsiasi processo conoscitivo,
qualsiasi attribuzione di senso comporta una strutturazione di campo, un
decidere cosa viene messo a fuoco, portato in primo piano, e cosa lasciato
sullo sfondo... La psicologia della Gestalt ha anche mostrato che, per cosi'
dire, 'le Gestalt si difendono'. Ogni volta che tendiamo a ignorare i
confini del campo gestaltico avvertiamo delle precise resistenze, quel
movimento trasgressivo ci appare insensato" (12). Per quanto possa sembrare
impossibile, la visione dell'altro, per quanto assurda e contraria alla
"evidenza", e' quasi sempre in buona fede, nasce da un convincimento
sincero. Ma soprattutto, noi esseri umani siamo molto affezionati alle
nostre idee e alla considerazione di noi stessi. Se tra azione e autore
dell'azione non viene fatta una distinzione sentiamo come necessario
"salvare la faccia", anche a costo di mentire, di arrampicarsi su
improbabili specchi argomentativi, di scaricare la responsabilita', di
minimizzare... Gli alunni e gli insegnanti sono esseri viventi che difendono
la loro esistenza reale e simbolica.
In piu', lo sguardo colpevolizzante crea la colpa: una volta dato nome ad un
campo di relazioni, aggressore e vittima giocheranno immediatamente a quel
gioco, dentro quella cornice concettuale. Chi colpevolizza, infatti, "non si
limita a pronunciare determinate parole e a fare dei gesti congruenti: evoca
una cornice, uno scenario di cui lui e' gia' parte attiva, un campo definito
da dei confini e da attese implicite bilaterali condivise, non solo sue, ma
anche nostre. Per questo e' piu' facile 'aderire'... a uno scenario gia'
proposto che non cambiarlo. Per cambiarlo dobbiamo non solo 'squilibrare
l'altro', spiazzarlo dall'immaginario relazionale in cui e' gia' impegnato,
ma in una certa misura (proporzionale all'autorita' che gli attribuiamo)
dobbiamo spiazzare anche noi stessi" (13). Uno studente che accusa un altro,
un insegnante che rimprovera, non stanno descrivendo un conflitto, stanno
evocando uno schema omologo alla scuola, alla societa'. Sclavi: "sia Goffman
che i 'labeling theorists' (i teorici dell'etichettamento) hanno ampiamente
mostrato che quasi sempre una persona stigmatizzata in modo negativo (per
esempio definendo 'un delinquente' un giovane che ha compiuto dei furti, o
'un drogato' uno che fuma la marijuana, o 'un incapace' uno studente che non
studia) finira' col trovare piu' facile adeguarsi a questa etichetta che non
ingaggiare un'estenuante e difficile battaglia di contro-definizioni. Le
etichette e i comportamenti sociali di cui sono il riflesso diventano
profezie che si autoadempiono" (14).
Il problema e' che la percezione di studenti e docenti vede la genesi di un
conflitto in un autore specifico, causa diretta dello scontro, vede un
aggressore (male) agire contro una vittima (bene), vede una colpa. Il primo
ostacolo che incontriamo e' proprio il paradigma della colpa, dell'autore,
del responsabile unico. Questa descrizione non e' l'unica possibile e
l'ecologia della mente descrive la genesi dei conflitti in altro modo: "il
conflitto e il disagio della non riuscita comunicazione molto spesso non e'
'colpa' di nessuno; e' una normale questione di dissonanza di matrici
cognitive" (15). Ma cosa significa? Facciamo un esempio.
Per noi italiani, toccare l'interlocutore mentre gli si parla e' considerato
un comportamento fastidioso e poco riguardoso, cui si risponde scostandosi
per mettersi fuori portata oppure opponendo una lamentela, una protesta, una
richiesta esplicita. Un marocchino ritiene invece lo stesso comportamento un
segno di rispetto verso l'interlocutore cui si dimostra di non "provare
schifo" del contatto fisico, tanto che lo si tocca. E' chiaro che
l'interazione tra questi due atteggiamenti, ciascuno considerato "ovvio",
diventa subito conflitto [Segue una tabella - che abbiamo omesso per
esigenze grafiche - in cui viene rappresentato visivamente quanto appena
descritto - ndr -].
Ma di chi e' la colpa? Individuarne una, oltre che difficile, e'
controproducente nell'ottica della risoluzione del conflitto. Molto piu'
utile risalire alle premesse epistemologiche implicite, ovvie e non
riflettute, che guidano il nostro agire. La gestione dei conflitti ha allora
molto a che fare con l'intercultura, molto a che fare con l'apprendimento e
quindi con la scuola. Come dice Pinto Minerva, "in tal senso, 'l'educazione
e' l'arma della pace', come gia' sosteneva Maria Montessori... E' proprio
attraverso l'educazione che e', dunque, possibile formare e alimentare un
pensiero della pace, oppositivo nei confronti di un pensiero della guerra...
Il pensiero che nutre la pace e' un pensiero attivo e non passivo,
problematico e antidogmatico, un pensiero interculturale" (16). Gestire i
conflitti significa acquisire uno sguardo interculturale capace di leggere
le matrici epistemologiche che stanno dietro le parole e le azioni: se vuoi
la pace prepara l'intercultura.
Le nostre classi infatti sono teatro di conflitto, di differenze, non solo
quando vi sono presenti studenti stranieri: la globalizzazione, se da un
lato omogeneizza le differenze, dall'altro le evidenzia in contesti
omogenei, un italiano e un angolano sono molto piu' simili di prima, gli
italiani sono molto meno simili tra loro, notiamo una maggiore
interdipendenza globale e una maggiore differenziazione locale. Intercultura
e conflitto sembrano essere le categorie concettuali con cui dobbiamo
abituarci a guardare ai nostri studenti, superando la vecchia concezione: il
problema non e' una persona (il caratteriale, il violento, il disadattato)
ma un sistema di relazioni. Rispetto ad un conflitto, che nasce come
confronto di differenze, l'ecologia (scienza del contesto) ci spinge a non
concentrarci sulla colpa, ne' sulle posizioni espresse dai vari soggetti, ma
ad allargare la visuale al contesto di enunciazione: tutti noi parliamo, ci
confrontiamo, a partire dalla cultura (in senso antropologico) di cui siamo
parte e che e' parte di noi, e sempre a partire da essa interpretiamo, diamo
senso a cio' che osserviamo (17).
Non sempre e' facile capire. E' esperienza di ogni docente notare come
talvolta gli studenti si insultino tra di loro, offendendo addirittura i
genitori, ma che a questo non segua una lite. Altre volte, insulti meno
gravi scatenato sanguinose battaglie. La discrepanza sembra essere legata al
contesto, che gli studenti comprendono benissimo ma che ai docenti sfugge
spesso. Bisogna imparare a leggere i segnacontesto: "alcuni esempi sono la
stretta di mano dei pugili prima dell'incontro che sta ad indicare che e'
vero che si prenderanno a botte, ma lo faranno 'sportivamente'; oppure la
cornice del palcoscenico che indica che e' vero che le persone che si
muovono in quel contesto si sposeranno, divorzieranno, daranno in
escandescenze e quant'altro, ma stanno 'solo' recitando" (18).
Comprendere il gioco e' necessario per essere efficaci: dare un rinforzo
negativo ogni volta che sente un insulto e' il miglior modo, per un docente,
di rendere inefficace il suo intervento. L'efficacia di un'azione e' legata
alla sua frequenza. Dobbiamo economizzare i nostri interventi perche'
abbiano senso, evitando di abusarne, sprecandoli per occasioni che non
potrebbero mai degenerare.
Oltre a questo fatto, bisogna sottolinearne un altro: per una rissa ma anche
per un insulto bisogna essere (almeno) in due, nessun aggressore e' tale
senza una vittima e viceversa. L'ecologia della mente insegna a guardare
piu' che agli oggetti, alle relazioni tra gli oggetti. Allora piu' che
colpevolizzare l'aggressore e consolare la vittima e' utile guardare alla
relazione, alla danza, che essi creano. Come dice Sclavi sulla scorta di
Simmel, "se lo scenario instaurato e' 'facciamo la lotta', 'fammi da
nemico', ogni azione tesa a ferire l'altro e' una collaborazione a tener
vivo quel sistema. Quindi... si e' nemici sul piano dei comportamenti, ma si
coopera su quello della configurazione relazionale... e allora devo sapere
che quando reagisco anch'io con un pugno, ad un livello - quello
dell'azione - mi sto opponendo, ad un altro - quello del contesto
relazionale - sto collaborando. Mi sono lasciata coinvolgere in quella danza
che l'altro col pugno proponeva. D'altra parte, se non reagisco e faccio la
vittima, non mi sottraggo a quella danza, sto solo collaborando (forse) a
chiuderla piu' in fretta. Era una danza vincitori-vinti e lui ha vinto.
L'unico modo per non collaborare e' proporre una danza diversa e indurre
l'altro a cambiar danza" (19). E' importante capire veramente a che gioco si
sta giocando, perche' aiuta ad uscirne se non ci piace.
*
La relazione
In una parte di un celeberrimo libro (20), Bateson analizza le possibili
configurazioni delle relazioni. Questo schema mi pare utile perche'
applicabile ai diversi casi di conflitti percepibili a scuola. Lo studioso
infatti individua due modelli; il primo e' la
"Differenziazione simmetrica. A questa categoria possono essere ascritti
tutti quei casi in cui gli individui di due gruppi, A e B, hanno le stesse
aspirazioni e le stesse strutture di comportamento, ma sono differenziati
quanto all'orientamento di queste strutture. Cosi' i membri del gruppo A
manifestano le strutture di comportamento A, B, C nei loro rapporti interni,
mentre adottano le strutture X, Y, Z nei rapporti con elementi del gruppo B.
Analogamente il gruppo B adotta le configurazioni A, B, C nei rapporti
interni e manifesta X, Y, Z nei rapporti col gruppo A. In questo modo si
crea una situazione in cui il comportamento X, Y, Z e' la risposta consueta
ad X, Y, Z. Questa situazione contiene elementi che possono condurre a una
differenziazione progressiva o schismogenesi lungo le stesse linee" (21).
La configurazione simmetrica e' un conflitto, che puo' portare alla
violenza, alla schismogenesi, alla spaccatura che si accresce via via sino
al collasso o sino ad un nuovo equilibrio. Spesso assistiamo a questa
differenziazione simmetrica a scuola: gli studenti devono decidere, ad
esempio, chi debba essere il capitano della squadra, due personalita' forti
ambiscono a quel ruolo, sentito come riconoscimento del loro status di
leader, di persone in gamba e autorevoli. La contrattazione si struttura
come gara di meriti, elencazione dei propri e denigrazione di quelli
dell'altro. Si assiste ad una escalation in cui ogni azione dell'uno stimola
una reazione dell'altro, teso a superare il primo, e in cui forte e' il
rischio dell'esito violento. E' anche la gara simmetrica che abbiamo
conosciuto con il nome di "corsa agli armamenti" durante la guerra fredda.
L'altro modello batesoniano e' la
"Differenziazione complementare. Possiamo ascrivere a questa categoria tutti
quei casi in cui il comportamento e le aspirazioni dei membri dei due gruppi
sono fondamentalmente diversi. Cosi' i membri del gruppo A trattano fra loro
con le strutture L, M, N e manifestano le strutture O, P, Q nei rapporti col
gruppo B. In risposta ad O, P, Q i membri del gruppo B manifestano le
strutture U, V, W, ma tra loro adottano le strutture R, S, T. Ne segue
dunque che O, P, Q e' la risposta ad U, V, W, e viceversa. Questa
differenziazione puo' diventare progressiva. Se, per esempio, la serie O, P,
Q include strutture che da un punto di vista culturale sono considerate
assertive, mentre U, V, W includono la soggezione culturale, e' possibile
che la soggezione induca ulteriore assertivita', che a sua volta indurra'
ulteriore soggezione. Tale schismogenesi, se non viene frenata, conduce a
una progressiva distorsione unilaterale della personalita' dei membri dei
due gruppi, che sfocia in una reciproca ostilita', e inevitabilmente conduce
al collasso finale del sistema" (22).
E' difficile non vedere quella "distorsione unilaterale della personalita'"
nella tendenza dei docenti all'autoritarismo culturale (vera e propria
deformazione professionale), originata dalla asimmetrica ripartizione del
potere e del sapere, dal monopolio della valutazione tenuto dagli
insegnanti... Ma ancora, complementare e' la strutturazione tipica del
bullismo in cui soggetti con caratteristiche e attitudini diverse sono
intrappolati in un gioco in cui uno compie sempre la stessa azione (ad
esempio, aggredire verbalmente) e l'altro sempre l'azione complementare
(subire), senza reciprocita', senza scambio di ruoli. Questa strutturazione
porta alla esasperazione dei comportamenti dell'uno e dell'altro:
l'aggressore e' sempre piu' violento, la vittima sempre piu' remissiva.
Le due configurazioni relazionali - simmetrica e complementare - sono state
pensate da Bateson in relazione a problemi di antropologia culturale e non
in relazione diretta con la scuola, ma e' lo stesso studioso, a mio avviso,
a consentire il dislocamento nell'ambito scolastico, quando dice: "proporrei
di includere nel capitolo 'contatti tra culture' non solo i casi in cui il
contatto avviene tra due comunita' con diversa cultura e sfocia in una
profonda perturbazione della cultura di uno o di ambedue i gruppi; ma anche
i casi di contatto all'interno di una singola comunita'. In questi casi il
contatto avviene tra gruppi differenziati di individui, ad esempio tra i
sessi, tra vecchi e giovani, tra aristocrazia e popolo, tra due clan, ecc.,
gruppi che vivono insieme in equilibrio approssimativo. Estenderei
addirittura l'idea di 'contatto' fino ad includervi quei processi mediante i
quali un bambino e' plasmato ed educato a conformarsi alla cultura in cui e'
nato" (23).
Certo la scuola fa parte integrante di quei processi di educazione e accultu
razione dei bambini nella nostra societa' (24). E in quel che Bateson
definisce "equilibrio approssimativo", interagiscono sicuramente variabili
quale il sesso (nei conflitti tra studenti ma anche nell'atteggiamento
diverso che gli studenti hanno verso gli o le insegnanti), l'eta' (nella
differenza generazionale tra studenti e docenti), ma spesso anche di status
(economico, sociale, dato dal ruolo...).
Mi pare poi interessante l'espressione "equilibrio approssimativo". A scuola
siamo abituati a pensare all'interno della dicotomia ordine-disordine,
silenzio-confusione, etc. Bateson evidenzia invece la natura approssimativa
dell'equilibrio: imperfetta, grossolana, imprecisa, superficiale. Ma indica
anche la caratteristica dinamica dell'equilibrio, il suo approssimarsi,
avvicinarsi, all'ordine statico, senza mai raggiungerlo, garantendolo grazie
ad aggiustamenti continui, il suo carattere artigianale, indicativo,
tendenziale. Da un lato, approssimativo indica l'ordine che riusciamo a
mantenere, l'equilibrio precario, la calma gravida del suo opposto che
spesso regna nelle aule o nei corridoi. Dall'altro lato, implica che gestire
l'equilibrio nelle nostre classi significa evitare che i conflitti si
trasformino in violenza, significa non ragionare piu' in termini di
opposizione binaria (ordine-disordine) ma in termini di tendenziale
approssimazione verso un equilibrio dinamico. Visto che i fattori operanti
nello stato di equilibrio dinamico appaiono, come gia' affermato, identici o
analoghi a quelli che operano nello stato di disequilibrio.
*
Note
1. Cfr. T. Makiguchi, L'educazione creativa, introd. di M. Tarozzi, La Nuova
Italia, Milano 2001.
2. M. Sclavi, Insegnamenti impliciti ed espliciti nella scuola italiana e in
quella statunitense in P. Perticari, M. Sclavi (a cura di), Il senso
dell'imparare. Per far riprendere il fiato e la parola a insegnanti e
studenti, Anabasi, Milano 1994, p. 39-40.
3. D. Francescano, A. Putton, S. Cudini, Star bene insieme a scuola.
Strategie per uníeducazione socio-affettiva dalla materna alla media
inferiore, Carocci, Roma 2000, p. 40 sgg.
4. E. von Glaserfeld, Cosa si prova quando s'impara? in Perticari, Sclavi (a
cura di), Il senso dell'imparare. (cit.), p. 19.
5. M. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle
cornici di cui siamo parte, Le Vespe, Pescara-Milano 2002, p. 73.
6. Ivi, pp. 82-8.
7. Ivi, p. 104.
8. Ivi, pp. 104-5.
9. Ivi, p. 75.
10. Ivi, p. 44.
11. Ivi, p. 121.
12. Ivi, pp. 32-3.
13. Ivi, p. 289.
14. Ivi, p. 203.
15. Sclavi, Insegnamenti impliciti (cit.), p. 42.
16. F. Pinto Minerva, L'intercultura, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 124.
17. Cfr. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, (cit.), p. 37.
18. Ivi, p. 151.
19. Ivi, pp. 234-5.
20. G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976, pp.
101-114.
21. Ivi, p. 109.
22. Ivi, pp. 109-110.
23. Ivi, pp. 104-5.
24. Ancora, Bateson dice: "questo schema e' orientato verso lo studio di
processi sociali, piuttosto che psicologici, ma si potrebbe costruire uno
schema strettamente analogo per lo studio della psicopatologia. Qui si
studierebbe la nozione di 'contatto', specie nei contesti della plasmazione
dell'individuo, e si osserverebbe che i processi di schismogenesi avrebbero
una parte rilevante non solo nell'aumento del disadattamento del deviante,
ma anche nell'assimilazione dell'individuo normale al suo gruppo" (ivi, p.
105). Mi pare che qui Bateson autorizzi ancora un passaggio: i problemi
legati all'incontro tra culture coinvolgono il rapporto tra il Se' e
l'Altro-da-se', il rapporto tra l'individuo e il mondo. Siamo insomma alle
soglie dell'intercultura. Bateson profetizza una concezione complessa della
"cultura", determinata dalle molteplici differenze che la caratterizzano al
livello del singolo individuo. L'intercultura non si occupa piu', come
faceva il multiculturalismo, dell'incontro di due "culture", bensi' della
costruzione dell'identita' e delle differenze coinvolte nella vita di ogni
singolo individuo. Mentre il multiculturalismo si preoccupava
dell'integrazione dello studente straniero, l'intercultura si occupa ora
delle differenze (etniche, religiose, di sesso, socioeconomiche...) che
attraversano ciascuna persona e che relativizzano espressioni come "cultura
italiana", facendo di ogni alunno/a un portatore di una sua propria
"cultura". Mi pare allora che, coerentemente con un approccio
interculturale, lo schema di Bateson possa essere utilizzato a scuola per
analizzare l'interazione tra gruppi e singoli, area di confronto tra
differenze che noi leggiamo sotto lo specifico del conflitto. Lo studioso
non usava certo il termine "conflitto", ma analizzava "le possibilita' di
differenziazione dei gruppi" (ivi, p. 108). Proprio l'identificazione da noi
fatta tra "differenza" e "conflitto" permette di rileggere le parole di
Bateson sui vari tipi di "differenziazione", dislocandole nell'ambito del
"conflitto".
(Parte prima - Segue)

2. RIFLESSIONE. ELEONORA CIRANT: UN'ESPERIENZA DI RIFLESSIONE COLLETTIVA
SULL'INTRECCIO TRA NASCITA E TECNOLOGIE
[Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net) riprendiamo il
seguente intervento. Eleonora Cirant e' impegnata nella Libera universita'
delle donne di Milano, nell'Unione femminile nazionale, ed in altre
rilevanti esperienze dei movimenti femministi di cui e' anche acuta
studiosa]

Un anno fa partecipavo ad un gruppo di donne che per quattro mesi si e'
riunito periodicamente alla Libera universita' delle donne di Milano per
discutere di Procreazione medicalmente assistita. Partivamo dal presupposto
che, nonostante i diffusi e partecipati eventi promossi dalle donne contro
la "legge crudele", poco si stava procedendo rispetto alla comprensione
delle problematiche sollevate dalle tecnologie applicate alla nascita.
Rilevavamo la mancanza non tanto di teoria femminista, quanto di una pratica
che affrontasse, a partire dalle nostre vite, il tema della maternita'
nell'intreccio con l'elemento tecnologico.
Nel manifesto programmatico scrivevamo che nel proliferare di manifestazioni
contro la legge 40 il rischio fosse la dispersione delle energie e il rapido
estinguersi mediatico delle informazioni. Intendevamo sviluppare "un
percorso che, accanto alle mobilitazioni" ci permettesse "di approfondire e
riempire di contenuto la nostra posizione, anche per poterla meglio
articolare nel momento della cosiddetta sensibilizzazione", dichiarando:
"percorrere il piano dei diritti e della liberta' delle donne e' opportuno;
focalizzare l'attenzione esclusivamente su di esso e' un rischio: potremmo
accorgerci di camminare su un terreno friabile, perche' non sostenuto da una
presa di coscienza di noi donne - e gli uomini? - su cio' che sta dentro e
intorno a questa legge; il sospetto e' che rimanere solo entro una logica di
contrapposizione di diritti ci escluda la possibilita' di esplorare
contraddizioni, immaginario, percezione di se' correlate alle molte forme
del nascere".
Volevamo "capire a partire da noi che cosa ci sta accadendo, che cosa sta
succedendo ad un paese che risolve con una legge sadico-repressiva problemi
che riguardano l'umano nella sua radice piu' profonda: l'origine della vita
e il confine con la morte; l'invasione della tecnologia nei processi stessi
della vita e della morte; la sessualita'; la coppia e la famiglia; il
desiderio, l'istinto, il sogno, l'amore; la con-fusione di animalita' e
cultura che caratterizza l'essere umano; il miscuglio di trascendenza e
materialita' che accompagna l'esperienza del generare la vita (e approdare
alla morte); i vincoli necessari in un mondo sbranato dal profitto e
dall'appagamento individuale ad ogni costo".
Scavando in questa direzione, attraverso la discussione e la condivisione
dei saperi e delle riflessioni, abbiamo osservato la procreazione
medicalmente assistita come specchio e lente d'ingrandimento di una partita
epocale. Si tratta di come una societa' attraversata da posizioni etiche
differenti possa darsi regole condivise in materia di vita e di morte. Si
tratta della laicita', della capacita' di sottrarre il desiderio alla
macchina mercantile, di comprendere come la paura e il suo controllo siano
funzionali ad equilibri di potere e di mercato. Gli schieramenti politici
tradizionali sono scompaginati dalle questioni sulla vita e la morte e le
emozioni che si condensano intorno a questi temi diventano terreno di
scontro elettorale. Quante/i sanno degli enormi interessi commerciali che
sottendono la questione se l'embrione sia o meno una persona?
*
In un tale ginepraio, ragionare e prendere posizione richiede un senso di
responsabilita' - individuale, dunque sociale - che non si estingue nel
barrare si/no ad un referendum. Nel lavoro di gruppo abbiamo tentato,
dunque, una via che non procedesse da semplificazioni. Ci siamo affacciate
su un paesaggio non facile da esplorare, quello in cui prende forma e senso
il desiderio materno nel suo intreccio con il ruolo e l'identita' femminile.
L'elemento tecnologico, infatti, si e' ben presto rivelato evidenziatore di
contraddizioni latenti del nostro rapporto con la maternita', con il
desiderio e il suo potenziale di trasformazione/conservazione
dell'esistente. Ci soffermammo a riflettere sul principio di
autodeterminazione della donna, ieri e oggi.
Dico "affacciate" perche' abbiamo iniziato appena a srotolare la matassa ed
individuarne i fili. Il trascorrere dei mesi ha scandito la fatica nel
tenere il passo: a primavera inoltrata, era quasi dimezzata la dozzina che
eravamo nella prima riunione di gennaio. Accanto alla fatica, che non posso
non registrare e mantenere in forma di domanda aperta, voglio sottolineare
l'importanza che ha avuto per me questa esperienza. Ne sono uscita con le
idee molto piu' chiare, sono cresciuta in consapevolezza. Lo scambio che
avviene nella relazione apre porte di comprensione, da' opportunita' di
cogliere sfumature, discernere cio' che e' confuso e nominare cio' che
altrimenti resta non detto.
La domanda aperta riguarda i modi e le forme della partecipazione politica
oggi. Nel chiedermi quale ne sia il motore, non posso che partire da me, non
come risposta, ma come possibile elemento di riflessione. Il mio interesse,
e conseguente impegno sul tema della procreazione assistita e' venuto sulla
spinta di due forze: la rabbia e il bisogno. Rabbia e' stata nel vedere come
ancora una volta si legiferasse sulle donne a prescindere dalle donne, come
la morale di una parte fosse fatta valere per la morale comune. Il bisogno
e' stato di iniziare a sbrogliare una matassa interiore, di farlo
nell'incontro con l'esperienza di altre donne. All'origine, una domanda:
perche' una donna e' disposta a sottoporsi alla manipolazione della
tecnologia pur di soddisfare il proprio desiderio materno? Evidentemente,
questa domanda era ed e' rivolta al mio stesso desiderio di maternita'. Sono
una donna giovane e, come altre coetanee, non vivo la maternita' ne' come
certezza ne' come destino, ma come possibilita' che si dispiega in forma di
contraddizione.
Negli scenari possibili spalancati dal crollo dei ruoli tradizionali e'
difficile determinare se la fecondazione artificiale sia una promessa di
liberta' o un ulteriore strumento di controllo sulla scia della
medicalizzazione del corpo e della mente. Su questo e gli altri temi in cui
la politica entra nella vita personale, credo nell'insostituibile valore
della discussione collettiva. Auspico che le donne si diano l'occasione di
incontrarsi per parlarne, che altrettanto facciano gli uomini rispetto alle
mutazioni del potere paterno.

3. RIFLESSIONE. MADDALENA GASPARINI: RIFLESSIONI ATTORNO AGLI INTERROGATIVI
PRODOTTI DALLE TECNOLOGIE BIOMEDICHE
[Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net) riprendiamo il
seguente intervento. Maddalena Gasparini, laureata in medicina e chirurgia e
specializzata in neurologia, ha svolto attivita' clinica e curato
l'organizzazione di congressi e corsi di aggiornamento e formazione in
collaborazione e per conto di strutture ospedaliere del Consiglio nazionale
delle ricerche, della Regione Lombardia e della Provincia di Milano; grazie
all'incontro con la Libera universita' delle donne, da anni segue gli
sviluppi delle tecnologie riproduttive approdando agli interrogativi etici
che l'evoluzione delle biotecnologie pone alla collettivita'; dal 2003 e'
vicecoordinatrice del gruppo di studio di "Bioetica e cure palliative in
neurologia" della Societa' Italiana di Neurologia]

Il 12 giugno saremo chiamati a dare il nostro parere sulla legge n. 40 che
regola la procreazione medicalmente assistita. Dichiarato inammissibile il
referendum per l'abrogazione della legge nel suo complesso, la vittoria dei
si' nei referendum abrogativi parziali otterrebbe un risultato simile:
l'obbligo di ridiscutere le regole. Gli interrogativi e le inquietudini
prodotte dalle tecnologie biomediche (e non solo quelle riproduttive)
possono favorire scelte proibizioniste; eppure e' dal riconoscimento delle
difficolta' che nasce il cambiamento e possono venire regole condivise in
grado di garantire le liberta' personali e insieme proteggere da rischi e
abusi.
Rammento qui alcuni dei temi referendari: la natura dell'embrione ("il
concepito" dell'art. 1), la legittimita' di destinare alla ricerca
scientifica quelli non piu' richiesti o adatti al trasferimento in utero, le
procedure biomediche che riguardano l'autonomia e la salute delle donne, la
fecondazione eterologa.
*
L'embrione e la ricerca biomedica
Malgrado ogni anno in Italia nasca da fecondazione in vitro non piu'
dell'1,5-2 % dei bambini, decine di migliaia di embrioni sono stati prodotti
e immagazzinati, e qualche migliaio non e' piu' richiesto a fini
riproduttivi, o perche' il desiderio di maternita' e' stato esaudito o
perche' e' stato lasciato cadere dopo i primi insuccessi.
Per quanto interroghiamo la nostra esperienza di donne, gravidanza e aborto
innanzitutto, non troveremo risposte sulla natura di questo organismo,
certamente umano, certamente vivo e che, per slittamenti progressivi, e'
diventato "vita umana", addirittura persona, e non solo per chi fa proprio
il Magistero cattolico.
La sua collocazione nei laboratori ne fa, infatti, un oggetto che, pur
invisibile, e' in grado di animare progetti, fantasmi, timori, speranze.
Se l'affermazione che "l'embrione e' uno di noi" ha bisogno di conferma
divina, l'evocazione di un passato immemore che la scienza definisce
embrione, tocca la sensibilita' personale, soprattutto di chi e' piu'
giovane, piu' vicino al tempo dell'origine. Ne viene un sentimento di
fragilita' e dunque una richiesta di protezione.
Con abile e antica mossa, la legge si schiera si' per la protezione
dell'embrione, ma dalla madre piuttosto che dai possibili abusi della
scienza e dalla logica del mercato: al "concepito" vengono riconosciuti
diritti come se fosse una persona, alla donna vengono imposti obblighi e
divieti.
Mentre ferve il dibattito su quella che io chiamo "metafisica dell'embrione"
(puo' - si chiedono i neo-aristotelici - essere dichiarato "in atto" cio'
che e' "in potenza"?) sta a noi riconoscere che un embrione in vitro e'
radicalmente diverso da un embrione in vivo e che a definirne la sorte non
basta l'obbligo del consenso preliminare della donna che potrebbe
accoglierlo in se' per far nascere un figlio, servono regole condivise; che
insomma una protezione e' si' necessaria, finche' e salvo che una donna
decida di accoglierlo e accompagnarne il lento, irregolare diventare un
altro da se', fino alla nascita di una nuova persona.
L'inevitabile distanza che la fecondazione in vitro mette fra noi e il
prodotto del nostro desiderio lascia lo spazio per interventi di cui e'
necessario definire modi e limiti: la selezione degli embrioni prima del
trasferimento in utero, il tempo massimo consentito alla crescita in vitro
dell'embrione, gli indirizzi prioritari della ricerca (per esempio
migliorare la qualita' di vita piuttosto che la durata, favorire
l'attenzione alle malattie giovanili e alle piu' debilitanti),
l'opportunita' che tale ricerca sia approvata, finanziata e controllata dal
pubblico in modo di ridurre al minimo (ed e' gia' troppo) la dipendenza
della ricerca dal profitto, la necessita' di un'Authority che vegli sulla
ricerca e ne garantisca la trasparenza...
Su tutto cio' e' facile immaginare che sara' necessario mediare, anche fra
donne: non manchera' chi difende la liberta' di commissionare un bebe' a
misura delle proprie preferenze o delle necessita' di cura di un fratellino
malato e chi evoca l'eugenetica per la conclusione volontaria del ciclo
vitale dell'embrione, chi ritiene non ci sia spazio per il progresso
scientifico fuori dalla competizione di mercato e chi si interroga sul
significato profondo della "donazione" quando si tratta di gameti o
embrioni, chi pensa che a fini scientifici si possa usare solo quel che
resta della procreazione medicalmente assistita, chi teme che cure sempre
piu' sofisticate e costose aumentino il divario fra ricchi e poveri e chi
da' voce alla sofferenza che potrebbe giovarsi delle conoscenze e dell'uso
delle cellule staminali.
*
Significati e valori
Il confronto cui ci obbliga la campagna referendaria va ben oltre lo
scardinamento di una legge che gia' si e' dimostrata inapplicabile, e ci
interroga sul nuovo significato da attribuire ai valori che ci sono piu'
cari: la liberta', la giustizia e la diversa coniugazione che assumono per
un uomo e una donna.
Se il liquido seminale puo' essere donato con un semplice atto
masturbatorio, gli ovociti devono essere prelevati dopo stimolazione
ormonale con una manovra invasiva; se il gesto maschile non e' estraneo al
piacere, la procedura sul corpo femminile comporta un rischio di gravi
complicanze nell'1,5% dei casi.
Laddove e' permessa la commercializzazione dei gameti, a questa differenza
corrisponde un diverso valore economico: poche decine di dollari per il
liquido seminale, qualche migliaio per ovocita ("lo faccio per pagarmi
l'universita'" ha dichiarato una studentessa americana).
Ma in quasi tutti i paesi e' previsto un rimborso spese e di recente la Gran
Bretagna ha aperto un pubblico dibattito sull'opportunita' di elevare il
rimborso per le donne da 500 a 1.000 sterline, mettendo a dura prova tanti
discorsi sulla solidarieta' e la relazione fra donne e ricordandoci che
sulla differenza ha messo radici la disuguaglianza. E se alla donazione dei
gameti a scopo riproduttivo si aggiungesse quella a scopo di ricerca o
addirittura terapeutico?
Per avere una sola linea di cellule staminali embrionali un'equipe
sud-coreana ha avuto bisogno di sedici donne che hanno "donato" 242 ovociti.
Anche questa e' liberta'?
La liberta' riproduttiva assume nuovi significati passando attraverso
istituzioni potenti come la medicina e la scienza. L'involontario legame che
si e' stabilito fra il "generare" e la speranza di "rigenerare" i tessuti
malati con cellule staminali derivate dagli embrioni mostra il persistere
della fantasia, tutta maschile, di controllare la vita e le sue origini vuoi
subordinando le scelte riproduttive a leggi feroci vuoi appassionandosi a
una scienza che qualcuno vorrebbe senza limiti.

4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

5. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 905 del 20 aprile 2005

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