Nonviolenza. Femminile plurale. 9



==============================
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
==============================
Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 9 del 28 aprile 2005

In questo numero:
1. Giulia Allegrini: Donne, popoli indigeni e resistenza nonviolenta
2. Giulia Allegrini: "Siamo indigene, siamo povere e siamo donne. Dobbiamo
lottare tre volte. Scegliendo la nonviolenza, che e' femminile" (parte
prima)
3. Bojana Stoparic: Le donne palestinesi hanno sempre meno diritti
4. Ida Dominijanni: Lapidazioni e punizioni esemplari
5. Luciana Percovich: Il nuovo tecnologico e la coscienza femminile (1996)

1. INCONTRI. GIULIA ALLEGRINI: DONNE, POPOLI INDIGENI E RESISTENZA
NONVIOLENTA
[Da "Azione nonviolenta" di gennaio-febbraio 2005 (per contatti: e-mail:
azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org). Giulia Allegrini e'
impegnata in esperienze di pace, per i diritti, per la nonviolenza]

Lo scorso novembre si e' tenuta a Rovereto la dodicesima edizione del corso
internazionale organizzato annualmente dall'Universita' internazionale dei
popoli per la pace (Unip). Articolato in sei seminari svoltisi nell'arco di
tre settimane, quest'anno si e' rivolto ad esperti attivisti indigeni membri
di organizzazioni e movimenti operanti in varie parti del mondo per la
promozione dei diritti dei popoli indigeni. I temi trattati sono stati
l'internazionalizzazione dei movimenti dei popoli indigeni, la protezione
dei popoli e delle loro culture a livello internazionale, sviluppo
sostenibile per i popoli indigeni, il diritto all'autodeterminazione in
rapporto allo stato e al suo potere, tecniche e strategie di resistenza e
lotta nonviolenta.
La nonviolenza oltre ad essere stata contenuto di parte del corso e' stata
anche il principio base attorno cui e' stato organizzato il corso stesso.
Questo e' stato infatti concepito come momento collettivo di scambio aperto
di idee, pratiche, esperienze, pensieri, tra relatori e partecipanti
appartenenti a contesti culturali, sociali, politici ed anche religiosi e
spirituali differenti. Un processo di ricerca maieutico.
L'intento di fondo dell'Unip nel lanciare questa iniziativa e' stato quello
di promuovere un percorso educativo orientato all'azione, in grado cioe' di
sollecitare un "percorso operativo" e di favorire "l'acquisizione di nuove
risorse di potere nonviolento quali la stima di se', il coraggio, le
conoscenze, la capacita' di promuovere valori fondamentali condivisi, la
creativita', la progettualita', la competenza e il networking".
Tutto cio' si traduce anche in canale di partecipazione dal basso,
"attraverso processi di empowerment che integrino un apprendimento critico
di conoscenze, esperienze di vita e lavoro e azione in modo tale da favorire
lo sviluppo integrale dell'individuo umano rafforzando quel senso di
responsabilita', solidarieta', fiducia senza cui una societa' pacifica non
puo' esistere".
L'Unip si e' fatta anche quindi promotrice di una riflessione, di un
dibattito sempre piu' urgente e purtroppo ancora molto lacunoso rispetto
alle istanze relative alla questione indigena, e che spesso si concretizza
piu' in un processo dall'alto, portato avanti a livelli istituzionali che
non sono in grado di coinvolgere attivamente le comunita' indigene.
La questione indigena inizia ad emergere ancora in tempi relativamente
recenti, negli anni '80. E' infatti nel 1982 che nasce il Working Group on
Indigenous Population (Wgip) presso le Nazioni Unite a Ginevra, con un
doppio mandato: esaminare gli avvenimenti che a scala nazionale, regionale,
mondiale sono in rapporto con i diritti umani e le liberta' fondamentali dei
popoli indigeni; elaborare nuove norme internazionali sui diritti dei popoli
indigeni. E' uno dei gruppi di lavoro della Sottocommissione per la
prevenzione delle discriminazioni e la protezione delle minoranze. Vi
possono partecipare osservatori dei governi, agenzie specializzate dell'Onu,
le organizzazioni non governative (ong) e tutte le organizzazioni, popoli o
comunita' indigene interessate. Annualmente il Gruppo prepara un documento e
lo sottopone alla Sottocommissione che a sua volta propone raccomandazioni e
conclusioni alla Commissione. A livello di Sottocommissione partecipano
pero' oltre ai rappresentanti dei governi solo le ong con status consultivo,
cioe' quelle che dopo un lungo iter burocratico hanno avuto il
riconoscimento del diritto ad intervenire come consulenti speciali su alcuni
temi. Questo vuol dire che c'e' una scarsa rappresentativita' delle
organizzazioni indigene, cosa che ha fatto reclamare un maggior
coinvolgimento a livelli superiori al Wgip.
Si e' poi arrivati quindi alla creazione di un Foro Permanente con il
mandato di "elevare la coscienza e promuovere l'integrazione e il
coordinamento delle attivita' in rapporto con i temi indigeni all'interno
del sistema delle Nazioni Unite". Al Foro partecipano solo degli esperti
eletti in rappresentanza di gruppi indigeni divisi per grandi aree
geografiche. Quindi manca un organo che permetta un'effettiva e diretta
partecipazione delle piu' volte citate comunita' indigene. Allo stesso Wgip
inoltre le ong possono presentare denuncie per violazione dei diritti umani,
ma l'organo non e' abilitato a raccoglierle e ad investigare, ne' a fare
raccomandazioni ai governi.
Nel 1985 il Wgip aveva elaborato un progetto di Dichiarazione dei diritti
delle popolazioni indigene, nel 1993 l'Onu aveva proclamato l'Anno
Internazionale per le popolazioni indigene e si era arrivati alla stesura
della Dichiarazione, ma questa, a distanza di cosi' tanti anni, e a
conclusione della Decade internazionale dei popoli indigeni proclamata' nel
1995, non ha ancora nessuna forza giuridica, in quanto approvata solo dalla
Sottocommissione, ma non dagli organi superiori, ossia l'Ecosoc, la terza
commissione dell'Assemblea generale e l'Assemblea generale in seduta
plenaria.
La Dichiarazione sarebbe uno strumento valido per i popoli indigeni per
affermare la propria identita' e i propri diritti, e il rispetto dei propri
valori e culture.
In assenza di una piu' forte risposta a livelli istituzionali internazionali
le popolazioni indigene continuano ad attivarsi e resistere e lo fanno
soprattutto attraverso pratiche nonviolente. La possibilita' datami
dall'Unip di partecipare per tre giorni ad un seminario del corso su
"identita' e azione nonviolenta" tenuto da Chaiwat Satha-Anand, mi ha
permesso di essere osservatrice del prezioso scambio di queste esperienze di
lotte nonviolente e quindi poterlo in parte testimoniare attraverso
interviste fatte al relatore e ad alcuni partecipanti. Dare infatti la voce
ai soggetti, agli attori di queste pratiche, risponde ad uno se non al piu'
importante obiettivo che "Azione nonviolenta" si propone di portare avanti.

2. INCONTRI. GIULIA ALLEGRINI: "SIAMO INDIGENE, SIAMO POVERE E SIAMO DONNE.
DOBBIAMO LOTTARE TRE VOLTE. SCEGLIENDO LA NONVIOLENZA, CHE E' FEMMINILE"
(PARTE PRIMA)
[Da "Azione nonviolenta" di gennaio-febbraio 2005 (per contatti: e-mail:
azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org)]

Diviene sempre piu' urgente la necessita' di dare voce ad un punto di vista
specifico delle donne, rispetto alla nonviolenza.
Nelle interviste che seguono si sono affrontati diversi aspetti e
problematiche relative ai diritti dei popoli indigeni. Quello che e' emerso
e' che la lotta da loro portata avanti e' una lotta che deve saper
rispondere allo stesso tempo a tante questioni. Si devono infatti
confrontare non solo con l'affermazione di diritti civili, politici ed
economici, ma devono anche saper conservare la loro identita', contro
tentativi di assimilazione, integrazione o ghettizzazione, per non perdere
la loro cultura, le loro tradizioni, per conservare intatta anche la loro
memoria storica. Devono lottare contro grandi multinazionali oltre che
contro i loro stessi stati, e a volte, come per le donne, devono riuscire a
confrontarsi con le loro stesse comunita' di appartenenza.
La comunita' internazionale non ha ancora dato vita ad un sistema di tutela
e garanzia efficace dei diritti dei popoli indigeni. Inoltre, si deve
constatare che e' spesso assente nel dibatto accademico, all'interno delle
associazioni e dei movimenti in generale, un approccio alla nonviolenza che
sia piu' attento alle esperienze, vissuti, punti di vista delle donne
rispetto alla violenza, in tutte le sue forme e dimensioni, sia essa
culturale, fisica e strutturale, e quindi anche alle specifiche pratiche di
nonviolenza portate avanti.
Ma quello che queste interviste dicono e dimostrano e' che comunque e sempre
e' nella quotidianita', e' nelle comunita' del mondo che sono lontane troppo
spesso dai grandi centri di decisone e di gestione del potere, che
soprattutto si possono produrre dei cambiamenti, delle trasformazioni.
*
Maasai, Kenya: intervista a Mary Simat, direttrice esecutiva di Maasai Women
for Education and Economic Development (Maweed)
- Giulia Allegrini: Quali sono le attivita' e gli ambiti di intervento
dell'associazione in cui e' attiva?
- Mary Simat: Sono una donna indigena del Kenya, un'attivista per i diritti
umani dei Maasai. Vengo dal sud-ovest del Kenya, da Narok. Sono presidente
del comitato di coordinamento dell'Aipac.
L'associazione fa parte del Cbo, un organo di coordinamento di 14 gruppi di
donne Maasai del distretto di Narok. Le donne Maasai partecipano alla
designazione e implementazione delle attivita' dei progetti attraverso il
nostro approccio partecipativo "Rural Appraisal", ossia un'indagine condotta
nelle zone rurali che viene usata per raccogliere le questioni conflittuali
che emergono come risultato della disuguaglianza di genere. Ma a causa della
nostra cultura e' molto difficile riconciliare le divisioni di genere
all'interno della comunita' Maasai.
Il principale obiettivo dell'associazione e' quindi quello di lottare per i
diritti delle donne maasai, in quanto le donne maasai sono le piu' oppresse
dal punto di vista socio-economico e politico. Gli ambiti in cui lavora
soprattutto l'associazione sono pertanto quelli della violenza contro le
donne, che si manifesta in differenti modi anche in termini di esclusione
delle donne alla successione della terra, la presa di coscienza delle donne
dei loro diritti. La cultura maasai infatti vede le donne, soprattutto le
giovani, come proprieta' o risorsa che genera guadagno, pertanto sono spesso
escluse dall'educazione. Questo anche a causa della poverta' che fa si' che
non tutti i figli possono andare a scuola, e tra loro, a causa della cultura
tradizionale, quelli che a scuola ci vanno sono sempre maschi. Le figlie che
riescono ad iniziare la scuola, non riescono a completarla, sempre a causa
della cultura e delle pratiche tradizionali, quali il matrimonio concordato
in giovane eta' o l'infibulazione e le mutilazioni genitali.
La sensibilizzazione diviene quindi fondamentale: quando educhi una ragazza
educhi tutta la comunita'.
- Giulia Allegrini: L'ultimo premio Nobel per la pace e' stato dato ad una
donna africana del Kenya, che per la sua lotta e' stata piu' volte picchiata
e imprigionata, questo fa riflettere come sia spesso molto piu' difficile
per le donne lavorare nell'ambito dei diritti delle donne e della pace.
Quali ostacoli ha incontrato la vostra associazione?
- Mary Simat: Per noi l'ostacolo non e' tanto la polizia, quanto la
resistenza della comunita'. Gli uomini non vogliono che le donne possiedano
terra, ricevano educazione. A volte non ci permettono di andare in alcuni
villaggi. La comunita' maasai e' conosciuta per essere molto resistente. Ad
esempio una volta mi si e' presentata una donna che per adulterio era stata
picchiata fortemente, e non dal marito, ma dal fratello, mentre l'uomo non
ricevette nessuna punizione, stava in piedi la' mentre lei veniva picchiata.
Cosi' ho deciso nel 2001 di provare ad ottenere la posizione di Capo
all'interno della comunita', per poter garantire maggior giustizia alle
donne.
Gli ostacoli derivano poi dal conflitto stesso. Le donne infatti si
polarizzano a causa dell'impatto del conflitto ed esitano ad abbracciare la
lotta per emancipare se stesse, in un contesto di violazioni gravi dei
diritti umani e di poverta' endemica tra le donne maasai.
Discriminazioni e violenza contro le donne, come parte del conflitto,
conducono ad una mancanza di partecipazione pubblica delle donne indigene.
La stessa struttura del governo, la costituzione, le leggi elettorali e le
politiche governative causano una generale diminuzione del potere politico.
- Giulia Allegrini: Ha accennato prima alla difficolta' di accesso
all'eredita' di terra per le donne. Questo credo sia un punto centrale su
cui molte donne in Africa nel suo complesso si trovano a lottare.
- Mary Simat: Credo che in Africa le questioni riguardanti le donne siano
piu' o meno simili. Le donne lavorano duramente nelle farms (fattorie), sono
loro che si ritrovano a portare avanti il piu' duro lavoro. Le donne Maasai
lavorano 18 ore al giorno. Sono nei campi dalle 4 del mattino. Nonostante
questo non hanno alcun diritto ad ereditare la terra. Non ci sono leggi che
lo prevedono e la pratiche culturali lo impediscono. Hanno il compito di
mantenere una comunita' attraverso questo lavoro ma dipendono da altri per
potere accedere, possedere terra. Nei casi poi di donne rimaste vedove con
figli in assenza di leggi che garantiscono il diritto di accesso alla terra
la situazione che si ritrovano a vivere e' spesso drammatica. Quindi e'
proprio la cultura, che sta alla base di una societa', con le leggi che la
regolano, che porta ad una doppia discriminazione delle donne, cioe' come
indigene e come donne.
- Giulia Allegrini: Da tempo ormai attraverso numerose convenzioni e
conferenze delle donne, penso soprattutto a quella di Nairobi del 1985, si
e' definito cosa vuol dire pace per le donne. Cosa vuol dire pace e
nonviolenza per le donne in Kenya?
- Mary Simat: Credo che ogni modo di fermare la violenza o usare la
nonviolenza dipenda molto dal luogo da cui si proviene. Culture differenti
determinano approcci differenti.
Creare pace in una comunita' vuol dire riuscire a mettere tutti insieme,
donne, bambini, anziani. Agire in modo nonviolento in una comunita' vuol
dire capire la cultura e quindi vedere come approcciarsi a parlare agli
anziani o alle donne.
La pace in una comunita' e tutto cio' che ad essa e' legato, lo sviluppo,
quindi l'educazione, sono tutte cose che devono venire dalla gente indigena,
non da fuori. E' la gente che parla la stessa lingua della comunita', che
capisce profondamente il suo funzionamento che deve intervenire. E' comunque
un processo lento. Bisogna avere coscienza dei tempi necessari. Ci vuole
pazienza.
Per le donne poi la violenza ha varie forme, si manifeste in diversi tipi di
ingiustizia e di discriminazione. Rispetto a questo comunque e' importante
tenere conto dell'approccio che si usa in base alla diversita' culturale.
- Giulia Allegrini: Pensa che a livello internazionale il movimento delle
donne ponga attenzione alla necessita' di legare differenti approcci?
- Mary Simat: I trattati internazionali che riguardano le donne sono fatti
ad un alto livello istituzionale, non di base, "grassroot". Sappiamo che non
significano nulla se non sappiamo come implementarli in concreto. Credo
anche che le donne educate che lottano per i diritti non tengano tanto conto
di quelle che non lo sono.
Credo anche che le donne africane abbiano bisogno delle loro proprie
convenzioni che tengano conto dei propri valori culturali. Bisogna si'
trovare degli standard condivisi comuni a livello internazionale, ma bisogna
anche fare attenzione al rispetto della diversita'.
- Giulia Allegrini: Questo divario tra alti livelli istituzionali e quello
di base grass root, che fa si' che le convenzioni per le donne non abbiano
anche una "appartenenza" locale, si riproduce per qualsiasi convenzione,
soprattutto per gli accordi di pace... non crede?
- Mary Simat: Sono completamente d'accordo. Anche perche' i diplomatici che
si vanno a sedere ad un tavolo e decidono che cosa e' la pace non sanno
assolutamente poi come implementare concretamente l'accordo. Non sono per
nulla dentro il problema. I diplomatici esistono anche a livello grass root,
nelle comunita' di tutto il mondo.
*
Ecuador
Il movimento indigeno ecuadoriano: un esempio di resistenza e lotta politica
nonviolenta per l'affermazione di diritti collettivi,
dell'interculturalita', di uno stato multinazionale e per la preservazione
della propria terra.
L'Ecuador, come la maggior parte dei paesi latinoamericani, soffre le
conseguenze del colonialismo. La poverta', la discriminazione, lo
sfruttamento della popolazione indigena non sono scomparsi, sono sorretti da
un "colonialismo interno" portato avanti da sistemi di stampo dittatoriale,
segnati spesso da una forte corruzione. L'esproprio di terre da parte di
multinazionali petrolifere e minerarie completa il quadro.
Il presidente Gutierrez eletto nel 2002, dopo avere goduto dell'appoggio del
movimento indigeno attraverso un'alleanza tra questo e l'attuale partito di
governo, ha poi disconosciuto tale alleanza e ha iniziato una politica
economica in sintonia con il Fondo monetario internazionale (Fmi), con Bush,
ma soprattutto ha instaurato un regime ed ha iniziato una politica di
repressione e di persecuzione nei confronti del movimento indigeno,
attraverso minacce alle stazioni radio loro sostenitrici, la predisposizione
di una "lista nera" che include leaders indigeni, l'assassinio di un membro
di Protoecuador che aveva denunciato atti di corruzione, l'imprigionamento
del presidente del Movimento Indigeno della regione della Sierra,
l'attentato al presidente della Confederazione delle Nazioni Indigene
dell'Ecuador.
Tuttavia il movimento indigeno ecuadoriano rimane un esempio, un riferimento
nell'intero continente per la sua forza e capacita' organizzativa nel
portare avanti una lotta politica con mezzi nonviolenti e pacifici a difesa
dei propri diritti, della propria cultura e della propria terra [come e'
ovvio, questo articolo e l'intervista seguente risalendo alla fine del 2004
(ed essendo stati pubblicati alcuni mesi fa), sono stati realizzati prima
dei recenti sviluppi della situazione in Ecuador - ndr -].
*
Conaie, Ecuador: intervista a Ninfa Patino
- Giulia Allegrini: Potrebbe parlarmi un po' del suo lavoro in Ecuador,
dell'associazione in cui e' attiva?
- Ninfa Patino: Sto lavorando nella Confedaracion de Nacionalidades
Indigenas del Ecuador (Conaie), l'organizzazione piu' importante
dell'Ecuador, creata nel 1986, con il fine di far rispettare i diritti
indigeni, l'educazione interculturale, l'autonomia, il diritto alla terra e
per fare ratificare la convenzione Oit (Organizzazione internazionale del
lavoro, nota anche con l'acronimo inglese Ilo) sui diritti degli indigeni.
Attualmente il movimento indigeno e' la terza forza politica piu'
importante. Nel congresso ecuadoriano ci sono rappresentanti degli indigeni.
E' un momento decisivo nella storia politica dell'Ecuador.
Si viene a conoscere il movimento indigeno nel 1990, con il primo
"levantamento". Da quel momento si hanno prese di posizione e successi del
movimento indigeno, tanto che e' riuscito a fare cadere due presidenti.
Nell'anno 2000 il movimento fece cadere il presidente Bucaram prima e Mahuad
poi, che con il suo governo porto' nel paese una forte crisi bancaria e
cambio' la moneta dell'Ecuador in dollaro.
- Giulia Allegrini: In che momento della storia politica dell'Ecuador e'
nato il Conaie?
- Ninfa Patino: Il Conaie nacque nel 1986 per far rispettare i diritti degli
indigeni, perche' prima di quel momento i governi non tenevano in
considerazione alcuna l'identita' degli indigeni. Nel 1996 il Conaie e'
riconosciuto come la massima rappresentanza degli indigeni della costa,
della terra e della foresta amazzonica. Nel 1998 si ratifica la convenzione
169 per il rispetto dei diritti indigeni, si riforma la Costituzione dello
Stato e si riconosce l'esistenza del popolo di nazionalita' indigena. Si
riconosce il territorio, soprattutto l'Amazzonia, le lingue. Quindi a
partire da questa data si riconosce che ci sono 27 popoli e nazionalita': 13
nell'Amazzonia e nella zona delle coste e 14 nella terra. Questo e'
importante perche' a partire da questa data cambia la denominazione.
E' anche un momento importante perche' si riconoscono i diritti delle donne
indigene, e nel contesto della rappresentanza le donne cercano di far parte
di una rete internazionale continentale che si chiama "Enlace continental de
las mujeres indigenas" e il coordinamento si concentra nell'Ecuador. Questo
significa che il coordinamento delle donne indigene a livello sudamericano
e' rappresentato dall'Ecuador. Io attualmente lavoro nella direzione della
rete. Attraverso questa direzione si ottengono importanti risultati: c'e'
piu' educazione e partecipazione politica delle donne.
- Giulia Allegrini: Quindi il movimento indigeno in Ecuador e' riuscito ad
avere anche importanti risultati a livello istituzionale...
- Ninfa Patino: Esattamente. La cosa piu' importante e' che gli indigeni
riescono ad avere una partecipazione non solo nel congresso, ma riescono
anche a raggiungere istituzioni importanti per lo sviluppo dei popoli
indigeni. Per esempio c'e' un'istituzione che si chiama Coreinte incaricata
specificatamente per lo sviluppo dei popoli indigeni, c'e' l'istituzione per
l'educazione bilingue interculturale, gestita da indigeni, un'altra e' la
Direzione dell'educazione tradizionale, molto importante perche' solo cosi'
si riconoscono e si rispettano le nostre visioni e la nostra medicina
tradizionale, che devono essere gestite e portate avanti dagli indigeni.
Quindi le istituzioni per lo sviluppo, l'educazione e la salute sono tre
spazi che corrispondono ai risultati che il movimento indigeno ha ottenuto.
Inoltre si e' riusciti a costituirsi come popoli di nazionalita' indigena e
si e' anche riusciti a recuperare il territorio dei popoli dell'Amazzonia.
Tutto questo e' cio' che si e' ottenuto in seguito alla creazione del
Conaie, dal 1986, poi con la ratifica della covnenzione nel 1998 e nel 2000
con una partecipazione politica sempre piu' forte: piu' sindaci indigeni,
piu' deputati, piu' partecipazione nelle istituzioni e organizzazioni
internazionali. La partecipazione politica ha infatti avuto importanza non
solo a livello nazionale, ma anche internazionale. Il movimento ecuadoriano
e' considerato il piu' forte e organizzato politicamente a livello anche
continentale.
Dal 1996-'98 il movimento indigeno crea un movimento politico che si chiama
Pchakuti, che significa nuovo popolo/nuovo potere. Questo ha significato
poter partecipare politicamente alle elezioni e quindi avere accesso a spazi
importanti nel congresso e nello stato, tanto che nelle elezioni del
2002-2003 si costitui' un'alleanza tra il partito che sta attualmente al
governo che si chiama Sociedad Patriotica, con il partito pachakuti.
L'alleanza vince alle elezioni e porta al governo l'attuale presidente.
Il presidente pero' tradisce il movimento, si dichiara dittatore, il
movimento pachakuti viene escluso dal governo e ora esso e il movimento
indigeno si sono convertiti nella forza di opposizione piu' importante. Il
governo ha iniziato una politica di repressione contro gli indigeni, sta
disconoscendo le istituzioni di cui ho parlato prima, gestite dagli
indigeni, quella per la salute, lo sviluppo e l'educazione, sostituendole
con sue autorita'.
Ora si sta attraversando un momento critico per il movimento indigeno, dato
che il presidente ha disconosciuto e non ha rispettato l'alleanza.
Tuttavia da poco, dal 18 ottobre, ci sono state le elezioni, e il movimento
ha ottenuto piu' sindaci e piu' cariche istituzionali che lo stesso partito
di governo. In questo momento quindi il governo si trova debilitato, mentre
il movimento indigeno si sta rafforzando.
- Giulia Allegrini: Ma dove trova il suo appoggio il presidente?
- Ninfa Patino: Non ce l'ha, in realta'.
La cosa piu' importante e' che il movimento indigeno non e' solo una forza
guidata da indigeni, ma trova consenso e appoggio nella societa' civile,
nelle organizzazioni, le donne, gli intellettuali, tutta la societa' civile,
tutti i partiti di sinistra stanno sostenendo il movimento indigeno.
- Giulia Allegrini: Qual e' quindi la forza del movimento indigeno?
- Ninfa Patino: Il movimento e' molto giovane quindi e' difficile dire che
cosa accadra'. In questo momento poi si stanno verificando molti cambiamenti
e ci sono anche divisioni interne, in quanto da un punto di vista politico
e' cosi' che normalmente accade: Tra gli indigeni ci sono diverse tendenze
politiche.
C'e' un elemento importante da prendere in considerazione nell'Ecuador: il
regionalismo. Tra indigeni della costa, della terra e dell'Amazzonia, c'e'
una divisione regionale. Al di la' del fatto che sono tutti indigeni ci sono
divisioni che si esprimono politicamente a livello regionale. Quindi ci sono
tendenze politiche.
Il momento attuale e' un momento di crescita, perche' in ogni regione si sta
crescendo politicamente.
Per dire qual e' la forza del movimento potrei dire come vedo io la forza di
questo movimento e quale dovrebbe essere la sua forza per continuare, che e'
poi il mio grande desiderio: che diventi e sia sempre piu' una forza capace
di riconoscersi in un'identita' ma che allo stesso tempo rispetti le
diversita'.
C'e' uno slogan nell'Ecuador e nel continente che dice: "Unita' nella
diversita'". Che sia una forza compatta a livello nazionale, ma che rispetti
le specificita' che ci sono al suo interno. Che questa stessa forza non li
divida, ma li rafforzi e li unifichi perche' solo cosi' si puo' condividere
il potere e confrontarsi con l'establishment, che e' molto forte.
Io credo che si siano ottenute molte cose, come gia' ho sottolineato. Una di
queste e' anche il riconoscimento da parte delle forze di destra
tradizionali. Queste non vedono il movimento indigeno come un piccolo ed
insignificante movimento sociale ma come una forza politica. Non possono
fare politiche che non tengano conto degli indigeni perche' non avrebbero
alcun risultato. Si e' anche riusciti ad eliminare in parte il razzismo
contro gli indigeni.
Abbiamo anche avuto una donna indigena dentro il Ministero per gli Affari
Esteri.
- Giulia Allegrini: Ha sottolineato spesso líimportanza della partecipazione
politica delle donne indigene. Potrebbe definire il quadro discriminatorio
in cui vivono?
- Ninfa Patino: Ci sono discriminazioni contro le donne in generale; contro
quelle indigene c'e' una tripla discriminazione, in quanto donne, in quanto
povere e in quanto indigene. Devono quindi lavorare tre volte di piu' per
poter ottenere equita' e uguaglianza. Pero' qualcosa si e' ottenuto, una
certa partecipazione.
C'e' pero' una forte resistenza culturale. L'educazione non ha raggiunto
completamente le donne indigene, ossia la cultura indigena ecuadoriana delle
donne e' orale e necessitano quindi di una formazione e di una
capacitazione. E' un processo lento. Ci sono donne che stanno ricevendo
educazione, ma quelle indigene sono sempre di meno. A livello locale, nelle
comunita' c'e' pero' una grande partecipazione e accettazione del
coinvolgimento delle donne, ma non nella societa' in generale. Ma la cosa
piu' importante e' ottenere risultati a livello locale, che sia riconosciuta
la donna, perche' e' sempre stato l'uomo indigeno quello cha ha dominato,
colui cha ha tenuto le riunioni, che prende le decisioni. Pero' ora e'
diverso, ora le donne partecipano.
E' importante che le donne abbiano accesso a spazi di potere, per questo e'
importante che si riconosca l'educazione interculturale, ossia si
riconoscano tutte e tre le lingue che si parlano in Ecuador, cosi' che anche
le donne abbiano accesso a questa educazione.
- Giulia Allegrini: Come si colloca il movimento indigeno all'interno
dell'agire nonviolento?
- Ninfa Patino: Il movimento indigeno e' totalmente pacifista. Qual e' lo
strumento del movimento? Il "levantamento" (la sollevazione, l'alzarsi in
piedi). Cosi' si chiama, ed e' il simbolo dell'azione nonviolenta degli
indigeni. Che cosa significa levantamento: l'occupazione delle strade, degli
spazi, ma pacificamente. Significa camminare, andare per il "chakinan"
(cammino). Lo strumento sacro e politico del movimento indigeno e' il
levantamento. Quando si ha un levantamento vuol dire che tutti e tutte
devono uscire per strada. E' il modo di esprimere la mobilitazione
nonviolenta. Cio' significa che non e' un gruppo guerrillero, e' un
movimento pacifico con un progetto politico, con presupposti e fini
politici.
- Giulia Allegrini: Tutto questo ha una relazione con una specifica
spiritualita' e cosmovisione indigena?
- Ninfa Patino: La cosmovisione si ritrova ed e' presente in tutto. Ogni
volta che c'e' un levantamento, una riunione, si fanno celebrazione per
chiedere permesso alla Pacha Mama, per chiedere permesso alle montagne, alla
natura, perche' tutto abbia un buon esito, perche' si sia illuminati e che
la mente si apra. C'e' un motto politico che e' in relazione con la
cosmovisione: "Ama killa, ama shua, ama llulla" (non rubare, non mentire,
non essere ozioso). Questi sono i principi del movimento indigeno che fanno
parte del progetto politico del movimento e della sua protesta.
(Parte prima - Segue)

3. DIRITTI. BOJANA STOPARIC: LE DONNE PALESTINESI HANNO SEMPRE MENO DIRITTI
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione questo articolo di Bojana
Stoparic, giornalista, corrispondente di "WeNews"]

Nella West Bank, una donna in travaglio aspetta per oltre un'ora l'ambulanza
che deve condurla in ospedale. Dopo che finalmente l'ambulanza e' giunta e
la sta trasportando, il mezzo viene fermato ad un posto di blocco militare.
I soldati israeliani rifiutano di lasciar passare l'ambulanza. La donna
partorisce su di essa.
Nella striscia di Gaza, una donna picchiata sistematicamente dal suo
fidanzato non denuncia gli abusi che subisce alla polizia palestinese,
perche' sa che i poliziotti non la aiuterebbero.
Un'altra giovane donna smette di studiare perche' non puo' piu' sopportare
di essere molestata dai soldati israeliani al checkpoint che deve
attraversare per frequentare l'Universita' di Gaza City.
Queste testimonianze sono state raccolte dal "Centro delle donne per l'aiuto
e la consulenza legale" e dal "Centro studi delle donne", entrambi con base
a Gerusalemme, allo scopo di documentare le specifiche durezze che le donne
palestinesi soffrono nel mezzo del conflitto.
"L'occupazione e' stata fondamentale nel distruggere il benessere delle
donne", dice Maha Abu-Dayyeh Shamas, che dirige il Centro delle donne per
l'aiuto e la consulenza legale. Mentre le autorita' israeliane e palestinesi
si incontrano, attiviste per i diritti umani come lei stanno tentando di far
entrare le storie delle donne nelle discussioni. "Se la sicurezza militare
e' l'unico tipo di sicurezza in agenda nelle negoziazioni di pace, e mi pare
che sia proprio questo il caso, allora le necessita' delle donne, che sono
tutte correlate alla sicurezza umana, non verranno discusse, aggiunge
Abu-Dayyeh Shamas, ma e' la sicurezza umana che porta alla sicurezza
militare".
La fine dell'occupazione israeliana, dice ancora, deve essere accompagnata
da investimenti nei settori della salute pubblica, dell'istruzione, del
benessere sociale e dello sviluppo economico.
*
Ai primi di aprile, Amnesty International ha ripetuto molte delle
preoccupazioni manifestate da Abu-Dayyeh Shamas, in un rapporto che descrive
dettagliatamente gli abusi sulle donne che vivono nei territori palestinesi,
e raccomanda una partecipazione maggiore delle donne ai dialoghi di pace.
"Il crollo dell'economia e della sicurezza, causato dal conflitto, ha
imposto crescenti pressioni e restrizioni sulle donne, si legge nel
rapporto, e allo stesso tempo ha ridotto ulteriormente la possibilita' per
le donne di controllare le loro stesse vite".
Posti di blocco stradali, checkpoint e coprifuoco hanno ristretto l'accesso
delle donne palestinesi all'istruzione, alla cura della salute ed al lavoro,
rendendole piu' vulnerabili al controllo dei parenti di sesso maschile, dice
il rapporto di Amnesty.
Le demolizioni di case e la distruzione delle risorse naturali da parte
delle forze israeliane stanno incrementando il fardello economico e
psicologico delle donne palestinesi, che rimangono le principali
responsabili della casa e della cura dei familiari. La militarizzazione e le
restrizioni imposte alle famiglie dalla poverta' e dalla disoccupazione
hanno aumentato la violenza domestica contro le donne. Gli abusi sulle donne
palestinesi sono strettamente collegati e devono essere discussi dalle
autorita' israeliane e da quelle palestinesi, dice ancora Amnesty. Gli abusi
subiti dalle donne ricadono sotto la giurisdizione internazionale, inclusa
la convenzione Onu detta Cedaw (Convenzione sull'eliminazione di ogni forma
di discriminazione contro le donne).
*
Gli attivisti per i diritti umani presenti nell'area aggiungono che ne' le
autorita' israeliane ne' quelle palestinesi sono state in grado o hanno
avuto la volonta' di implementare il trattato dell'Onu sui diritti delle
donne nei territori occupati, lasciando le donne prive di un fondamento
legale per contrastare le discriminazioni e gli abusi. Poiche' non sono
"stato", i territori occupati non possono aderire a un trattato
internazionale come il Cedaw; Israele ha ratificato tale convenzione, ma
nega di essere responsabile dell'applicazione dei suoi standard fuori dal
proprio territorio.
"C'e' un vuoto di responsabilita', nei territori palestinesi, rispetto ai
diritti umani, che spesso lascia le donne in condizioni di protezione
inadeguata e con scarse possibilita' di ricorsi e rimedi", dice Lucy Mair,
ricercatrice di Human Rights Watch. Mair sottolinea che sia la Commissione
per i diritti umani dell'Onu, sia il Tribunale internazionale di giustizia
hanno detto che la responsabilita' della protezione dei diritti umani delle
donne nei territori palestinesi e' di Israele, la potenza occupante.
"Israele e' responsabile dell'applicazione della legge umanitaria
internazionale e della legge internazionale sui diritti umani, finche'
detiene lo status di potenza occupante", aggiunge Mair.
Marco Sermoneta, consigliere della missione israeliana all'Onu, non e'
d'accordo, ed argomenta che e' la legislazione relativa al conflitto armato,
non quella dei diritti umani, a governare la situazione a Gaza e nella West
Bank. "La legislazione sui diritti umani semplicemente non e' equipaggiata
per gestire la realta' dei conflitti armati", dice Sermoneta, e sostiene che
tutta la giurisdizione ed il controllo delle materie inerenti il Cedaw sono
stati trasferiti alle autorita' palestinesi durante gli anni '90.
Abu-Dayyeh Shamas, del Centro delle donne per l'aiuto e la consulenza
legale, ribatte che l'occupazione israeliana ha indebolito la capacita'
dell'Autorita' palestinese di dar corso alle leggi. "I diritti delle donne
vengono assicurati quando vi sono istituzioni legali trasparenti e
funzionanti, dice Abu-Dayyeh Shamas, Israele ha sistematicamente indebolito
il sistema legale palestinese e la polizia palestinese".
Abu-Dayyeh Shamas rileva la prevalenza della violenza domestica come
esempio: secondo un sondaggio condotto nel 2002, il 57% degli intervistati
conosceva una donna che era stata aggredita dal marito. La polizia
palestinese, prosegue, e' stata immobilizzata da coprifuoco e restrizioni, e
come risultato e' stata incapace di rispondere efficacemente alla violenza
di genere.
*
Il rapporto di Amnesty International nota che le leggi palestinesi in vigore
che dovrebbero proteggere le donne dalla violenza domestica non solo sono
insufficienti, ma in alcuni casi incoraggiano gli abusi: il codice penale
giordano, che e' in vigore nella West Bank, "garantisce l'esenzione dal
processo e riduce le sanzioni agli uomini che uccidono o aggrediscono mogli
o parenti di sesso femminile per motivi di 'onore familiare'".
L'esenzione dal processo avviene ad esempio se lo stupratore sposa la sua
vittima, ed una ragazza che sia stata vittima di violenza sessuale o abuso
deve avere un parente maschio che sporga la denuncia per lei. Ad ogni modo,
il rapporto di Amnesty conclude che le istituzioni palestinesi sono "il
posto migliore per prendere le misure necessarie per assicurare il rispetto
e la promozione dei diritti umani delle donne palestinesi". Il rapporto
chiede anche con urgenza alla comunita' internazionale di fornire alle
autorita' palestinesi le necessarie risorse per intraprendere riforme legali
e sociali.
*
Per maggiori informazioni:
- Amnesty International: web.amnesty.org/actforwomen/isr-310305-action-eng
- Women's Centre for Legal Aid and Counseling: www.wclac.org

4. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: LAPIDAZIONI E PUNIZIONI ESEMPLARI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 aprile 2005. Ida Dominijanni,
giornalista e saggista, e' una prestigiosa intellettuale femminista]

Generale Ricardo Sanchez, assolto. Generale Walter Wojdakowski, assolto.
Generale Barbara Fast, assolto. Colonnello Marc Warren, assolto. Generale
Geoffrey Miller, assolto. Non sapevano, o non c'e' prova che sapessero.
Generale Janis Karpinski: ammonita. Per negligenza. Il caso Abu Ghraib e'
chiuso? Lo Human Rights Watch, osservatorio americano per i diritti umani,
giura di no. Per il 28 aprile, primo compleanno di quelle foto di seviziati,
seviziatori e seviziatrici che sconvolsero l'opinione pubblica mondiale
promette un nuovo dossier che inchioda alle loro responsabilita', oltre a
Sanchez e Miller (ex comandante delle forze americane in Iraq il primo,
responsabile delle carceri militari irachene, nonche' ex comandante di Camp
Delta a Guantanamo il secondo), anche il ministro della difesa Donald
Rumsfeld e l'ex direttore della Cia George Tenet. Facciamo il tifo dagli
spalti, ma intanto prendiamo atto che, col rapporto consegnato al Congresso
sabato, l'esercito americano si autoassolve: malgrado sia l'inchiesta
condotta dell'ex ministro della difesa James Schlesinger, sia quella
condotta dai generali Kay, Fay e Jones ipotizzassero per le torture di Abu
Ghraib responsabilita' dirette e indirette dei vertici della catena di
comando. Seymour Hersh, il giornalista e scrittore che per primo denuncio'
le torture di Abu Ghraib sul "New Yorker", non si stupisce: va sempre cosi'
quando l'esercito indaga su se stesso. Non ci stupiamo neanche noi
dell'esercito americano. Dei liberaldemocratici italiani, invece, si'.
Riprendo in mano un dossier-stampa su Abu Ghraib dello scorso maggio e
rileggo alcune difese oltranziste della democrazia americana davanti a
quelle foto di prigionieri incappucciati, derisi, trascinati al guinzaglio.
L'argomento era il seguente: episodi, sia pur riprovevoli, di tortura
capitano in tutte le guerre e ad opera di tutti i regimi, tirannici o
democratici che siano; la superiorita' delle democrazie sulle tirannie non
sta nell'assenza dell'errore, ma nella capacita' di correggerlo, ovvero
nella capacita' di punire, esemplarmente, i colpevoli. Ed eccoci
accontentati: colpevole il capitano Graner, condannato a 10 anni di galera
dalla corte marziale. Colpevole, di negligenza, la direttrice di Abu Ghraib.
Innocenti tutti gli alti vertici. Punizione esemplare di una democrazia
esemplare? E' questo che stiamo esportando in Iraq, la tolleranza della
tortura e la punizione delle mele marce? E' questo il margine di errore
previsto nel conto delle "libere elezioni" che certificano che la democrazia
e' arrivata a Baghdad? I nostri opinion maker democratici, oltranzisti e
"terzisti", ci dovrebbero e si dovrebbero una risposta.
*
E siccome le cattive notizie sono come le ciliegie e non arrivano mai una
per volta, eccoci a un altro "errore" che c'e' scappato in un altro paese,
l'Afghanistan, liberato e democratizzato con la guerra antiterrorista: la
lapidazione di Amina Aslam, 29 anni, rea di tradire il marito, da anni
assente ed economicamente inadempiente, in una regione oltretutto di etnia
tagika, dunque nemica dei Taliban. Ma la guerra in Afghanistan non ci era
stata presentata come la guerra di liberazione delle donne dal burka e dalle
esecuzioni sommarie? Si', noi non ci avevamo creduto ma molti democratici
italiani, stavolta non solo "terzisti" ma anche squisitamente di sinistra,
ci avevano giurato. Anche in Afghanistan ormai si vota, e dovrebbe vigere un
nuovo codice di compromesso fra la sharia e il diritto liberale, ma
evidentemente non vige: qualcuno ci aveva avvertito, ad esempio Samira
Makhmalbaf nei suoi film, che il patriarcato islamico (come del resto quello
occidentale) non sta agli ordini dei governi. I nostri opinion maker
democratici, oltranzisti e di sinistra, ci dovrebbero e si dovrebbero
qualche risposta. E il segretario dei Ds, ormai convinto che la guerra
(qualche volta) e' sbagliata ma l'esportazione della democrazia e dei
diritti e' cosa buona e giusta, si dovrebbe qualche domanda.

5. RIFLESSIONE. LUCIANA PERCOVICH: IL NUOVO TECNOLOGICO E LA COSCIENZA
FEMMINILE (1996)
[Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo questo intervento di
Luciana Percovich presentato come introduzione al seminario su "La
Rivoluzione Cyber / Nuove Reti di Donne", tenutosi presso l'Universita'
delle Donne di Milano nel 1996. Lo riproponiamo ad anni di distanza per
l'interesse delle tematiche affrontate. Luciana Percovich vive e lavora a
Milano, dove insegna inglese al Liceo classico Manzoni; partecipa
dall'inizio degli anni Settanta al movimento delle donne (Gruppo femminista
per una medicina delle donne, Libreria delle Donne), collabora con la Libera
Universita' delle Donne come docente e membro del comitato di gestione; ha
collaborato con La Tartaruga edizioni e con diverse riviste, tra cui
"Fluttuaria", "Lapis", "Madreperla", "Memoria", "Orsaminore", "Reti",
"Sottosopra"; suoi saggi sono apparsi in volumi collettanei: Verso il luogo
delle origini, La Tartaruga, Milano 1992; Donne del Nord / donne del Sud,
Angeli, Milano 1994; Figuras de la madre, Catedra, Madrid 1996; ha diretto
la collana di saggistica "Il Vaso di Pandora" per La Salamandra edizioni]

Metaforizzare la natura come madre (organismo vivente, origine comune) o
come macchina (organismo inanimato, altro da se') cambia notevolmente la
percezione di se stessi in relazione con cio' che ci circonda.
"Simulare" oggetti, luoghi, interlocutori cambia, amplificandolo, il
processo di sostituzione implicito in ogni forma di rappresentazione
simbolica, fino a portarci a muovere in un universo parallelo capace
tuttavia di intervenire, modificandolo, sull'universo comune a tutti, fisico
o immaginario che sia.
La tecnologia del presente - per quanto lontana possa apparire dalle nostre
vite quotidiane, dai bisogni e dalle emozioni - ci sta cambiando anche senza
bisogno che ce ne rendiamo conto, nei modi di comunicare, lavorare,
desiderare, far figli, pensare. Prese dall'urgenza di scoprire noi stesse
quasi non ci accorgevamo di come il mondo stava intanto cambiando anche
fuori di noi e imboccando una traiettoria apparentemente lontana dai nostri
desideri. Anche oggi facciamo fatica e opponiamo resistenza a mettere in
gioco le nostre nuove certezze e a misurarle sul diverso punto della storia
in cui nel frattempo ci siamo tutte e tutto spostati.
Le domande su noi stesse, la ricerca di nuova soggettivita', le tecnologie
della riproduzione, il telelavoro, i viaggi in rete per il mondo col sedere
ben piantato sulla sedia di casa, sono tutte cose che passano anche
attraverso i corpi, attraversano anche i nostri corpi sessuati che con le
unghie e i denti abbiamo cercato di riguadagnare al nostro controllo; e
temiamo di sentirci gia' di nuovo spiazzate, sperse, un'altra volta senza
parole.
Ma l'unica cosa che puo' davvero metterci fuori gioco oggi e' la nostra
stessa paura, diffidenza, desiderio di fuga. Il mondo che sta emergendo in
una delle sue periodiche mutazioni di pelle non e' poi cosi' estraneo ne' a
priori ostile. Tutt'altro.
La lotta che dobbiamo ancora una volta affrontare non e' con cio' che sta
fuori di noi, ma con noi stesse e i nostri ingiustificati - se agiti alla
cieca - meccanismi di fuga.
Se, mettendo alla prova quella fiducia in noi stesse che abbiamo imparato in
questi anni, accettiamo di confrontarci anche con queste cose, argomenti,
linguaggi che a prima vista ci sembrano totalmente inaccessibili, potremo
anche fare scoperte imprevedibili e arrivare a osare ad immaginare futuri
possibili di cui potremo essere soggetti agenti e non vittime al traino.
Non e' impossibile entrare nei linguaggi strutturati delle discipline
scientifiche, nei gerghi degli addetti ai lavori: sono linguaggi in fondo
ben piu' poveri e meccanici di qualsiasi linguaggio complesso e polisemico,
quali sono invece i linguaggi della letteratura o della psiche. Ma e'
necessario compiere una apertura di disponibilita', un gesto attivo di
ascolto. In questo sta la difficolta', non nei linguaggi codificati in se'.
La soglia su cui stiamo e' tutta interna a noi stesse. Questo seminario si
pone consapevolmente come un gesto iniziale per provocare un confronto,
usando della disponibilita' di donne che sono gia' andate a vedere cosa c'e'
dall'altra parte e hanno imparato a usare quei linguaggi "estranei"; e come
un invito a ciascuna a considerare la possibilita' di varcare questo
crinale.
*
Nel momento in cui abbiamo messo in agenda questo incontro, non era ancora
esplosa sui mass media l'attenzione per Internet, il Manifesto Cyborg di
Donna Haraway non era ancora circolato nell'edizione italiana e solo pochi
gruppi di donne gia' discutevano e progettavano in rete. Oggi, a distanza di
pochi mesi solamente, questi temi sono molto diffusi e anche questo, nel suo
piccolo, e' un indicatore dell'accelerazione nel rapporto tempo/cambiamento,
che e' uno dei fatti che connotano il presente.
Ho posto questo tema perche' intendevo nominare alcuni fatti appunto, che
sono sotto gli occhi di tutte, ma che poco diventano soggetto delle
discussioni tra di noi, quasi fossero uno sfondo insignificante. Nel
nominarli desidero collocarli dentro una precisa prospettiva, ossia metterli
a reagire con la riflessione nata dalla nostra pratica politica di questi
ultimi vent'anni. Per cercare di capire quanto tra di noi sia diffusa la
consapevolezza della peculiarita' del momento presente, per verificare se e
quanto questi fatti pesano tra di noi, per interrogare alcuni "slittamenti
semantici" che appartengono al mondo piu' ampio, che di fatto contiene anche
le nostre elaborazioni su temi che ora sono alla ribalta comune, e che gia'
allora mettemmo all'origine della nostra riflessione, quali la
soggettivita', il corpo, l'uscita da un pensiero e da una organizzazione
sociale, politica e immaginaria basata sulla gerarchia e sulla binarieta'
dei processi logici e rappresentativi.
Faro' quindi un assemblaggio di quelli che a me sembrano elementi
interessanti, per istituire relazioni possibili con la nostra esperienza.
Non sono molto ottimista nei confronti dell'aprirsi di una relazione
fruttuosa tra il nuovo tecnologico e lo zoccolo duro del femminismo
italiano. Ma vale la pena tentare.
*
Il primo fatto che e' persino ovvio enunciare e' che stiamo attraversando
una catastrofe epocale, non nell'accezione puramente negativa in cui il
termine "catastrofe" e' entrato nel linguaggio comune, ma nell'antico suo
senso, che segnala la fine di una condizione e l'emergere di una nuova.
Rene' Thom, con la sua teoria sulle catastrofi, ha mostrato come
l'evoluzione proceda non per continuita' ma per salti, attraverso punti di
rottura, oltre i quali il mutamento avviene appunto come "catastrofe".
Viviamo in un periodo di catastrofe epocale, simile a quello iniziato con
l'invenzione della stampa, che ha plasmato il nostro essere nel mondo in
modo globale (e nel dirlo ho in mente il McLuhan della Galassia Gutemberg).
Quali sono gli elementi di novita' che mi fanno parlare di catastrofe? Ne
nomino alcuni:
1. i limiti dello sviluppo e la crisi ambientale;
2. l'impoverimento a macchia di leopardo che non riguarda solo il Sud, ma
zone del Sud e zone del Nord, dell'Est e Ovest;
3. l'emergere degli integralismi, compensato da un radicarsi sempre piu'
capillare di quelli che potremmo chiamare valori New Age;
4. il mondialismo, riferito sia all'aspetto della distribuzione del lavoro
sia all'aspetto planetario che ogni fenomeno di questi tempi comporta;
5. la crescita tumultuosa di discipline tecnico-scientifiche come la
biologia molecolare e le biotecnologie;
6. la telematizzazione e l'informatizzazione che toccano tutti i settori del
mondo produttivo e non solo di quello;
7. l'orgoglioso risveglio di antiche culture semicancellate dal
colonialismo;
8. il movimento mondiale delle donne.
*
Ne scelgo due per marcare il percorso piu' interessante dal nostro punto di
vista.
Primo, la nuova coscienza delle donne: possiamo dire che non c'e' paese del
primo, secondo o terzo mondo che non abbia dentro di se' un forte movimento
femminile. Questa presa di coscienza delle donne, naturalmente con
caratteristiche diverse luogo per luogo, segna l'emergere di un protagonismo
delle donne che ha come scopo la rinegoziazione radicale del rapporto tra i
sessi.
Secondo, gli ultimi esiti delle tecnologie biologiche e informatiche; di
queste sono oltremodo interessanti le modalita' con cui avvengono, e cioe'
il carattere di globalita', dove per globalita' s'intende sia la dimensione
geografica che quella del profondo, di simultaneita' con cui irrompono in
ogni parte del globo e di accelerazione a cui tutto cio' che succede e'
sottoposto.
Questi esiti tecnologici toccano l'organizzazione della produzione e la sua
redistribuzione, il lavoro e tutto quello che il lavoro si porta dietro:
famiglia, assetto sociale, assetto culturale, ecc.; i modi e le forme del
linguaggio e della comunicazione; i corpi, quelli delle donne in
particolare, perche' la separazione tra sessualita' e riproduzione, gia'
iniziata con le possibilita' date dagli anticoncezionali, si sta facendo
radicale, rendendo possibile per ora il concepimento, tra breve l'intera
gestazione, fuori dal corpo femminile. E, infine, l'immaginario globale e
locale, anche di quelle parti del mondo fin qui governate da una staticita'
che ha retto, piu' o meno immodificata, per qualche millennio.
Tutte le svolte epocali comportano una rinegoziazione del rapporto tra i
sessi, basti ricordare come la scoperta del ferro abbia trasformato il
Mediterraneo in bacino di incubazione di alcuni dei piu' compiuti sistemi
patriarcali. Questa volta, la nuova coscienza delle donne e alcuni esiti
della scienza e della tecnologia, per certe loro peculiarita' che
affrontero' tra poco, potrebbero segnare una svolta nel rapporto tra i sessi
che potrebbe essere, ma non necessariamente, a vantaggio delle donne.
Dipende da come ce la giochiamo...

==============================
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
==============================
Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 9 del 28 aprile 2005