La nonviolenza e' in cammino. 945



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 945 del 30 maggio 2005

Sommario di questo numero:
1. Una fiaccolata per Clementina
2. Manuela Dviri: Un dialogo in un carcere tra donne ancora vive
3. Enrico Peyretti: Al presidente della Repubblica, per il 2 giugno
4. A Firenze il 7 giugno
5. Vandana Shiva: La grande pattumiera del mondo
6. Chiara Veltri intervista Homi K. Bhabha
7. Con "Qualevita", la lezione di Leandro Rossi
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. INIZIATIVE. UNA FIACCOLATA PER CLEMENTINA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 28 maggio 2005 riprendiamo ampi stralci
del seguente appello. Clementina Cantoni, volontaria dell'associazione
umanitaria "Care international", impegnata in Afghanistan nella solidarieta'
con le donne, e' stata rapita alcuni giorni fa]

Una persona stupenda, oltre che nostra amica, e' stata privata della
liberta', della sicurezza, degli amici, degli affetti familiari e di ogni
altra cosa che abbia valore nell'esistenza umana...
Clementina era impegnata in Afghanistan, ormai da tre anni... Lo faceva con
grande coscienza e generosita', e con tutta la carica di umana simpatia che
il suo cuore riusciva a preservare dalla durezza delle condizioni in cui si
trovava a operare, resistendo alla tensione ambientale fortissima di un
paese in uno stato di guerra non dichiarata, e al peso delle tragedie umane
in cui era quotidianamente coinvolta.
Il suo rapimento e' inaccettabile, per il popolo afghano, per quegli
operatori internazionali che spendono la propria esistenza lavorando a
fianco di questo e altri popoli colpiti dalla guerra, per chiunque si
opponga nel mondo alle logiche della guerra, anche quando non viene definita
tale e soprattutto per i familiari e gli amici di Clementina e per lei
stessa, che unisce idealmente queste categorie di persone e che non merita
di patire ulteriori sofferenze.
Per l'immediata liberazione di Clementina, la societa' civile, i movimenti,
le associazioni, gli studenti si mobilitano lunedi' in una fiaccolata di
solidarieta... con interventi della comunita' afghana di Bologna e di amici
di Clementina...
Comitato di solidarieta' per Clementina Cantoni

2. TESTIMONIANZE. MANUELA DVIRI: UN DIALOGO IN UN CARCERE TRA DONNE ANCORA
VIVE
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo questo articolo di Manuela Dviri apparso sul "Corriere della
sera" del 23 maggio 2005, che riferisce di una sua visita del 17 gennaio
2005 ad una prigione israeliana in cui sono detenute donne palestinesi
coinvolte in attentati suicidi. Manuela Dviri Vitali Norsa, nata a Padova
nel 1949, dopo il matrimonio si e' trasferita in Israele dedicandosi
all'insegnamento; giornalista e scrittrice, e' impegnata nel movimento
pacifista israeliano; "Dal giorno della morte in territorio libanese del
figlio ventenne, Jonathan, durante il servizio di leva, Manuela Dviri e'
diventata una importante esponente del movimento pacifista israeliano e tra
i sostenitori del dialogo e la collaborazione tra la societa' israeliana e
palestinese. Giornalista e scrittrice... e' stata tra le esponenti del
gruppo delle 'quattro madri' per il ritiro delle truppe israeliane dalla
striscia di sicurezza libanese, poi avvenuto nel 2000. Pubblica su vari
giornali israeliani e sul 'Corriere della Sera'" ("Il manifesto"). Opere di
Manuela Dviri: La guerra negli occhi, Avagliano Editore, Cava de' Tirreni
2003; Vita nella terra di latte e miele, Ponte alle grazie, Milano 2004]

"Doveva essere ben profondo quel pozzo... giu' giu' giu'... il centro della
terra non dovrebbe essere tanto lontano... e se attraversassi tutta la
terra? arriverei dalla parte opposta..." (da Lewis Carroll, Alice nel Paese
delle meraviglie)

Una mattina di meta' gennaio, era appena tornato il sole, mi sono trovata
catapultata al centro della terra, nel mondo alla rovescia, dalla parte
opposta, nel "sancta sanctorum", la prigione israeliana che custodisce le
"suicide", le donne martiri palestinesi, le "kamikaze" vive. Sono qui, e
vive, perche' hanno cambiato idea all'ultimo momento o sono state arrestate
o non ci sono riuscite. Vivono da allora a poca distanza delle piu' belle
ville israeliane, nel cuore della zona piu' fertile d'Israele, lo Sharon,
nell'omonima prigione. Sono custodite dentro una sorta di labirinto, dietro
sette, forse otto tra porte di ferro e cancelli, al di la' di lunghi
corridoi a cui pochi hanno il permesso di accedere, e ai quali si arriva
scendendo e risalendo scale e controscale.
A ogni porta che si chiudeva, quella mattina di meta' gennaio, a ogni giro
di serratura, l'interprete che avevo accanto si girava verso di me con occhi
sempre piu' spaventati.
B. la guardia non armata ("da noi non usa portare armi"), una giovane donna
bionda dall'aria tranquilla, descrive cosi' le sue "ragazze": "Sono trenta,
tra i 17 e i trent'anni, sposate e nubili, con figli e senza. Le loro sono
storie da mille e una notte. Alcune di loro hanno riscattato in questo modo
un padre/fratello/marito/amante collaborazionista, altre sono sfuggite cosi'
alla morte per delitto d'onore, per altre ancora, psicologicamente fragili,
e' stato un bel modo di suicidarsi diventando, contemporaneamente, eroine
della patria. Quasi tutte provengono da famiglie di livello socio-economico
basso. Per me pero' sono solo normali ragazze, non voglio sapere che cosa
hanno fatto, ne' giudicarle o tanto meno odiarle, perche' non riuscirei piu'
a prendermi cura di loro".
- Manuela: Come sono organizzate?
- B.: Molto bene, con tanto di elezioni democratiche (durante le quali ci
furono feroci risse, raccontarono allora i giornali - ndr -); hanno persino
scelto due capigruppo che fanno anche da portavoci, una per Hamas e la
Jihad, una per Al Fatah e i martiri di Al Aqsa (i due gruppi non vanno molto
d'accordo). Le due cape scelgono anche chi - e se, quando e come - verra'
intervistata, e io non assistero' all'intervista. Lei puo' chiedere e
scrivere tutto quello che vuole. Adesso esco, ma solo per cinque minuti, per
portare uno dei loro bambini dal pediatra. Questa e' la cucina dove si fanno
da mangiare, questa e' la lavatrice, potete fotografare ovunque tranne che
nelle celle per una questione di privacy... se ha bisogno di me, mi chiami
pure.
Non ne ho avuto bisogno.
Per convincerle mi ero portata due "Vanity Fair" con copertine maschili (le
donne senza velo, pensavo, non sarebbero state particolarmente gradite).
Richard Gere e' stato subito riconosciuto (Mentana, mi dispiace, no) e gli
incontri sono stati autorizzati molto rapidamente. Gere e' poi sparito
misteriosamente in una delle celle, da cui non e' piu' riapparso.
Con le intervistate - che, di due che erano in programma, sono diventate,
cinque ore dopo, otto - mi sono incontrata nella saletta del direttore,
senza alcuna guardia visibile, e poi fuori, nel cortile interno accanto alle
celle. L'atmosfera era tranquilla, senza drammi.
A casa, la sera, sono crollata.
E queste sono alcune delle loro storie.
*
Gruppo A: Hamas-Jihad
Ayat Allah (miracolo di Dio) Kamil, di Kabatya, 20 anni; Baid Yaam, Campo
profughi "Ballata", 26 anni; Haula Hashash, 19 anni, di Nablus; e Raida
Jadana.
- Ayat: Sono nata a Kabatya, ma ho vissuto tutta la mia infanzia in Arabia
Saudita. La vita in Saudia era magnifica per una donna, li' si' che si vive
nello spirito dell'Islam, li' si' che la donna viene trattata come la piu'
preziosa delle pietre. Poi, dopo un anno in Giordania, sono tornata in
Palestina, con i miei otto fratelli e sorelle.
- Manuela: Come sei diventata martire?
- Ayat: Per la mia religione. Sono molto religiosa.
- Manuela: Ma il Corano non parla di donne shaid (martiri).
- Ayat: Per la guerra santa (Jihad) non c'e' differenza tra uomini e donne.
- Manuela: Secondo il Corano il martire maschio verra' accolto in paradiso
da settantadue splendide vergine, e la martire femmina?
- Ayat: La martire femmina sara' la responsabile, la direttrice, l'ufficiale
delle settantadue vergini, la piu' bella delle belle.
- Manuela: E come e quando ti e' venuta l'idea di immolarti per la patria e
diventare la capo-vergine?
- Ayat: Ho chiesto a Dio misericordioso di aiutarmi, e lui mi ha mandato
l'idea di fare ufficiale richiesta alla persona giusta (che nel mio caso e'
stata una ragazza come me), la mia richiesta e' stata accettata e mi sono
arruolata.
- Manuela: E quindi, se ci fossi riuscita, avresti potuto uccidermi...
- Ayat: Avrei preferito uccidere soldati, non civili, non mi sarei mai fatta
esplodere apposta tra malati, in un asilo o in un gruppo di anziani.
- Manuela: Ma io non sono malata ne' vecchia ne' bambina, e poi quando
esplode la bomba non guarda tanto per il sottile, avresti potuto uccidermi
facilmente...
- Ayat: Pazienza. Vuol dire che era il tuo destino, o quello del fotografo o
dell'interprete che sono con te, dipende... io non posso cambiare il
destino.
- Manuela: Come molti altri, israeliani e palestinesi, sono anni che lavoro
per un futuro migliore, anche vostro. Io faccio il possibile per aiutarvi,
per aiutarti, mi uccideresti ugualmente?
- Ayat: Il destino e' destino, non guarda a quello che fai o sei...
Qui s'intromette la sua amica Yaam, fazzoletto nero, occhi di fuoco: "Anche
l'esercito israeliano non distingue tra uomini e donne, vecchi e bambini,
noi non abbiamo un esercito organizzato, non ho nulla contro di te
personalmente, ma la guerra e' cosi', e ogni palestinese, uomo o donna, e'
un soldato".
- Manuela: Avete sogni per il futuro? E che sogni?
- Ayat: Che il mondo diventi islamico, un mondo in cui vivremo tutti in pace
gioia e armonia, tra esseri umani, animali, fiori, piante e pietre. L'Islam
portera' la pace persino tra i vegetali e gli animali, l'erba e i sassi... E
tu potrai rimanere ebrea, quello che vuoi, non importa, ma in un mondo
islamico.
- Manuela: E come passano, nel frattempo, aspettando il perfetto mondo
islamico, le vostre giornate?
- Yaam: Ci alziamo alle cinque e preghiamo cinque volte al giorno: la
preghiera della mattina, di mezza-mattina, di mezzogiorno, di meta'
pomeriggio e sera. Tra una preghiera e l'altra leggiamo versetti del Corano;
e poi abbiamo i nostri digiuni, non tutti importanti come il Ramadam, ma pur
sempre digiuni. Oggi, per esempio, siamo a digiuno, che tra l'altro fa anche
molto molto bene alla salute. Nel tempo libero studiamo ebraico e anche
russo da una ragazza russa che si e' convertita all'Islam.
- Ayat: L'importante e' fare sempre qualcosa, non stare senza far nulla,
essere sempre attive.
- Manuela: E' proprio quello che mi preoccupa. Sono contenta di avervi
incontrate qui e non per la strada.
Le due sorridono: "E' il destino".
- Manuela: E non riesco proprio ad accettare che con quel viso angelico e
quegli occhi innocenti siate capaci di esplodere in mille pezzi e
uccidermi...
- Yaam: Se ti avessi incontrata per la strada e ti avessi vista ferita o
bisognosa di aiuto ti avrei aiutata. Anche con le guardie, qui, siamo in
ottimi rapporti, ma fuori e' un'altra storia, e' un campo di battaglia.
Nulla di personale, ripeto. E la risposta e' la conversione all'Islam.
- Manuela: C'e' chi crede la stessa cosa della Bibbia, del Vangelo, di
Buddha...
- Ayat: Si sbagliano.
- Haula: "Sono figlia del mio popolo e, fino a quando ci sgozzerete, noi
dovremo reagire. Questo e' il nostro paese, non il vostro, e' tutta li' la
differenza" dichiara.
- Raida (l'unica con il capo scoperto): Io in verita' non ho fatto niente. E
se avessi saputo come andava a finire non avrei fatto neanche quel niente
che ho fatto. E adesso mi sono pentita. No, non e' la prigione che mi ha
cambiata. Sono cambiata io, da sola. E poi ho tanto nostalgia della mia
mamma. Sono la piu' giovane della mia famiglia e malgrado abbia 22 anni
adoro dormire raggomitolata nel suo grembo. Mi manca tanto. Quando mi hanno
arrestata ero proprio nel suo letto, accanto a lei... non vedo l'ora di
tornarci, di tornare a dormire la' nel lettone con lei. Prima, io facevo
l'estetista, e a dir la verita' ho anche orrore del sangue.
Qualcosa di grosso deve aver pur fatto anche lei per essere qui, mi dicevo
poco convinta, mentre mi avviavo verso il secondo gruppo, quello delle meno
religiose, le Fattah.
*
Gruppo B: Al Fatah, Martiri Al Aqsa
Kahira Saadi e Chamor Teoraia.
Nel cortile del secondo gruppo mi aspettava Kahira Saadi, una delle
celebrita locali. Kahira, velo grigio, occhi tristissimi, ha ventisette anni
ed e' gia' madre di quattro figli. E' la responsabile di un attentato in cui
sono morte quattro persone e ne sono rimaste ferite ottanta. Tra i morti,
Zipi Shemesh, incinta di cinque mesi, e suo marito Gad. Erano andati a fare
una seduta di ultrasound, e avevano lasciato a casa, con la baby sitter, le
loro due bambine: Shoval, sette anni, e Shahar, tre. I visi delle due
bellissime bimbe bionde, cosi' piccole e cosi' disperate, li ho ritrovati in
un'antica pagina d'archivio in internet. Kahira e' stata condannata a tre
ergastoli e altri ottant'anni.
- Manuela: Kahira, dimmi la verita, i morti non ti perseguitano la notte?
- Kahira: No, e poi l'attentatore si sarebbe fatto esplodere anche senza di
me, io fisicamente non ho ucciso nessuno.
- Manuela: Quanti anni hanno i tuoi figli?
- Kahira: Sei, otto, undici e dodici anni.
- Manuela: E con chi vivono adesso?
- Kahira: Con mia suocera, anche mio marito e' in prigione.
- Manuela: Non sei pentita di aver rovinato, oltre alla tua, la loro vita?
- Kahira: "L'ho fatto per difenderli. Non sono pentita, siamo in guerra.
Pero', forse non lo rifarei. E' stato un impulso" mi ha risposto Kahira con
aria truce.
"Perche mi odi?" le ho chiesto in quel momento, spaventata da quegli occhi e
da quello sguardo.
- Kahira: Ma io non ti odio . Ma tu, invece, tu mi odi?
- Manuela: No. Neanch'io.
- Kahira: Eppure dovresti... perche'?
- Manuela: Credo che la vera ragione di quello che hai fatto sia diversa da
quella ufficiale.
- Kahira: E hai ragione, anche se le ragioni non te le diro'.
- Manuela: E poi penso che tu stia pagando abbondantemente. Chi viene qui a
trovarti?
- Kahira: Per i primi due anni non e' venuto nessuno, adesso stanno
cominciando a venire i miei figli.
- Manuela: Hai avuto il coraggio di dirgli che da qui non uscirai mai?
- Kahira: No, e confido che Dio in qualche modo risolva il mio problema; io,
ripeto, non ho ucciso fisicamente nessuno, quel giorno.
- Manuela: Che cosa hai fatto?
- Kahira: Ho aiutato l' attentatore ad entrare a Gerusalemme, gli ho dato
dei fiori da tenere in mano.
- Manuela: Quando?
- Kahira: Non mi ricordo la data esatta, mi ricordo solo che era il giorno
della festa della mamma, per quello gli avevo preparato i fiori.
- Manuela: Allora era febbraio, era lamed b'shvat, secondo il calendario
ebraico.
- Kahira: Come fai a ricordartelo cosi' bene?
- Manuela: Perche' mio figlio e' stato ucciso di lamed b'shvat, il giorno
della festa della mamma.
L'ho vista impallidire, quasi barcollare.
- Manuela: "No, non sei stata tu, era il 1998", ho aggiunto, "e mio figlio
era soldato, era in Libano; il tuo attentato e' stato nel 2002. Di certo,
pero', abbiamo un anniversario in comune".
Khaira mi ha guardato con uno sguardo che non riusciro' mai a descrivere e
non ha aggiunto una parola. Anche il linguaggio umano ha i suoi limiti.
*
Chamor Theoraia
L'ultima intervista, alla giovane donna che nella mia memoria e' rimasta
impressa come "la suorina" per la sua aria dimessa e il suo modo di portare
il fazzoletto come il velo delle suore di una volta (tutta una questione di
moda, mi ha spiegato lei), e' stata per me anche la piu' difficile.
Credo che mi abbia colpito e spaventato soprattutto il contrasto tra il suo
viso da bambina, tutto un sorriso, con le fossette e le guance paffute, e le
sue convinzioni, totali, estreme, crudeli. Mentre la intervistavo, Khaira,
in piedi, accanto a lei, ascoltava e ogni tanto mostrava segnali di
disapprovazione. Poi di tanto in tanto si allontanava per tornare con un
bambino in braccio, un'amica, un'altra "martire" o aspirante martire da
intervistare.
Chamor Theoraia, crede con assoluta convinzione che tutti gli ebrei
israeliani debbano tornare ai Paesi da cui sono arrivati. "Tu in Italia, tu
in Germania, tu in Marocco!" punta il dito su di me (Italia), sul fotografo
(Germania) e sull'interprete (Marocco).
- Manuela: E che fare di chi viene dall'Iran, dalla Siria, dal Libano, dalla
Libia, Paesi che di certo non accetterebbero noi ebrei indietro?
"Quelli che vadano in America! Anzi, meglio che ci andiate tutti, in
America" risponde senza alcun dubbio.
Poi aggiunge che lei non crede in alcuna probabilita' di accordo tra i due
popoli, che gli ebrei sono tutti traditori, che va bene fare la pace, ma
perche' a sue spese? E che riprendersi la terra rubata dai sionisti e' molto
piu' importante della vita dei suddetti o della sua stessa. E che,
purtroppo, l'hanno presa prima che potesse esplodere, pero'...
Poco importa che avessi letto la sua storia vera, quella per la quale era
stata processata (niente di particolarmente patriottico, si era data al
martirio per una storia di amore contrastato dalla famiglia e poi all'ultimo
momento, quando era gia' pronta, vestita con la cintura esplosiva con
l'aggiunta di 35 chili di chiodi, ha cambiato idea ed e' stata arrestata), a
quel punto non ce l'ho fatta piu'.
*
Ho spiegato alle ragazze che mi attendevano per chiacchierare (compresa la
madre del bambino appena tornata dal pediatra) che ero stanca e che "sara'
per la prossima volta". Alcune mi sono sembrate persino deluse. Poi ho
promesso di spedire l'intervista a una delle martiri e mi sono segnata con
cura il suo numero di cellulare al campo profughi (tra pochi mesi sara'
libera).
Il mio non gliel'ho dato; non mi sembrava il caso, viste le circostanze.
Sono ottimista, ma non pazza.
Fuori, mai ho tanto goduto l'improvvisa pioggia come quel giorno, e piu'
tardi, a casa, il mio letto dove ho dormito, quella notte di meta' gennaio,
per ben 14 ore di fila, senza un sogno.

3. LETTERE. ENRICO PEYRETTI: AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, PER IL 2 GIUGNO
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per averci
inviato copia di questa sua lettera aperta inviata alcuni giorni fa al capo
dello stato, che riprende una bozza redatta da Antonella Sperone (per
contatti: anto at lillinet.org) e diffusa nella mailing list del gruppo di
lavoro tematico su "nonviolenza e conflitti" della Rete Lilliput. Enrico
Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei
maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza.
Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate
1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e'
pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino
1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005;
e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca
bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte
nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in
appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus,
Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e
una recente edizione aggiornata e' nei nn. 791-792 di questo notiziario;
vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org,
www.ilfoglio.org. Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di
Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario]

Signor Presidente della Repubblica,
da qualche anno, come per Suo volere, e' stata ripristinata la celebrazione
militare della festa della Repubblica e della Costituzione.
Ne' il grande giorno del 2 giugno 1946, ne' l'immagine migliore della nostra
Patria, hanno un carattere  militare.
Allora, perche' questa distorsione, se non per concessione atavica a poteri
particolari e parziali?
Sono circa venti anni o piu' che, ogni volta che il 2 giugno vede la parata
militare, scrivo queste semplici verita' ai successivi presidenti della
Repubblica, forse - non vorrei pensarlo - impossibilitati a recepirle da
qualche pressione sulla loro autonomia e sul loro senso civile.
Anche volendo ammettere - ma non e' cosi' - che i mezzi militari siano
sempre necessari, dobbiamo riconoscere che non sono la piu' civile, la piu'
umana, la piu' avanzata espressione del nostro popolo.
La mia lettera di quest'anno ricalca un testo preparato da associazioni
impegnate a costruire la civilta' pacifica e giusta del nostro Paese.
*
Quello che ci chiediamo e' questo: se, come recita l'art. 1 della
Costituzione, l'Italia e' una Repubblica fondata sul lavoro, perche' le
celebrazioni previste e finora realizzate mirano a mettere in evidenza la
sola professione militare, che la gente sempre piu' sente distante dalla
propria realta' quotidiana e dalle proprie migliori aspirazioni?
E cio' specialmente oggi, in presenza tragica delle piu' ingiustificabili di
tutte le guerre, in cui e' stato coinvolto vergognosamente e immoralmente,
contro la volonta' popolare, anche il nostro Paese.
Se la Repubblica siamo noi, perche' non offrire ai cittadini la possibilita'
di essere protagonisti - e non spettatori - della loro festa onorando i loro
mestieri, le loro professionalita', invece di metterne in evidenza solo
alcune, le piu' roboanti e costose e sgradevoli?
Signor Presidente, far coincidere la festa della Repubblica con una parata
militare e' per noi, cittadine e cittadini che lavorano in continuita'
quotidiana in associazioni impegnate sui terreni della cultura di pace,
della nonviolenza, dell'economia di giustizia, limitante e persino
offensivo.
Pensiamo che non sia giusto celebrare una parte per il tutto, perche' il
tutto (la Repubblica) e' molto piu' vasta, piu' variegata, piu' viva.
Ci scusi, presidente, ma noi non ci sentiamo minimamente rappresentati nel
modo con cui viene celebrata la ricorrenza.
Questo sentire e' della maggioranza della cittadinanza con la quale ogni
giorno lavoriamo e parliamo.
Se poi, caro Presidente, si dovesse proprio decidere di festeggiare una
parte per il tutto, perche' non scegliere un'altra parte della nostra
Repubblica?
L'Italia e' una terra generosa, gli italiani sono un popolo volenteroso e
generoso, come testimoniano le 26.400 organizzazioni di volontariato con
circa 950.000 unita' di volontari/e, la maggioranza dei quali - il 58% - vi
opera assiduamente fornendo il proprio apporto con continuita', in modo
sicuramente non meno eroico - e noi pensiamo anzi di piu' - dei militari
molto pagati nelle spedizioni dette di pace.
I volontari della solidarieta', dell'informazione e della pace, rimasti
vittime di sequestri - come in questo momento ancora Clementina Cantoni in
Afghanistan - e di morte nelle terre offese dalla guerra, al servizio della
giustizia per quei popoli martoriati, sono l'avanguardia civile e bella e
umile del nostro popolo, degna del massimo onore nella piu' grande festa
nazionale, quale e' il 2 giugno.
Perche' nella festa della Repubblica, del popolo italiano, non scegliamo di
celebrare questo aspetto, perche' non far coincidere la Repubblica con i
cittadini, con la parte migliore dei cittadini, quella solidale e
cooperativistica, quella generosa che offre e si dona?
Ci sentiremmo molto meglio rappresentati e non andrebbe neppure trascurato
il potere educativo di una simile azione rispetto alle nuove generazioni,
cosi' disperatamente alla ricerca di significato nella vita e di modelli
validi, che tanto ci mancano in questa societa' e che finiscono per essere
vergognosamente sostituiti da quelli televisivi, gli unici proposti
continuamente.
Signor Presidente, lei ha la possibilita' di spezzare questa perversa
catena: ci dia, simbolicamente, la possibilita' di essere presenti
(celebrando i nostri lavori, tutti) e metta in luce la parte migliore della
Repubblica: l'impegno solidale dei suoi cittadini.
Lo dica, nel migliore dei modi che Lei sapra' trovare, come tante volte sta
facendo, nel Suo discorso e messaggio ufficiale del 2 giugno. Noi attendiamo
da Lei con fiducia questo segnale di civilta'.
Porgiamo a Lei, alla Sua famiglia, a tutto cio' che Le sta a cuore, i
migliori auguri per il 2 giugno, festa di nascita della nostra Repubblica e
della nostra esemplare Costituzione.

4. INCONTRI. A FIRENZE IL 7 GIUGNO
[Ringraziamo Alberto L'Abate (per contatti: labate at unifi.it) per averci
trasmesso notizia di questo incontro. Alberto L'Abate e' nato a Brindisi nel
1931, docente universitario, promotore del corso di laurea in "Operazioni di
pace, gestione e mediazione dei conflitti" dell'Universita' di Firenze,
amico di Aldo Capitini, e' impegnato nel Movimento Nonviolento, nella Peace
Research, nell'attivita' di addestramento alla nonviolenza, nelle attivita'
della diplomazia non ufficiale per prevenire i conflitti; ha collaborato
alle iniziative di Danilo Dolci e preso parte a numerose iniziative
nonviolente; come ricercatore e programmatore socio-sanitario e' stato anche
un esperto dell'Onu, del Consiglio d'Europa e dell'Organizzazione Mondiale
della Sanita'; ha promosso e condotto l'esperienza dell'ambasciata di pace a
Pristina, ed e' impegnato nella "Campagna Kossovo per la nonviolenza e la
riconciliazione". E' portavoce dei "Berretti Bianchi". Tra le opere di
Alberto L'Abate: segnaliamo almeno Addestramento alla nonviolenza,
Satyagraha, Torino 1985; Consenso, conflitto e mutamento sociale, Angeli,
Milano 1990; Prevenire la guerra nel Kossovo, La Meridiana, Molfetta 1997;
Kossovo: una guerra annunciata, La Meridiana, Molfetta 1999; Giovani e pace,
Pangea, Torino 2001]

Martedi' 7 giugno a Firenze, con inizio alle ore 17, presso l'aula magna del
rettorato, in piazza San Marco 4, al piano primo, Alberto L'Abate, curatore
dell'edizione italiana del testo di John Friedmann, "Empowerment. Verso il
potere di tutti", ne presenta i temi e le proposte per una politica per lo
sviluppo alternativo dialogando con Cristina Bevilacqua, assessore alla
partecipazione democratica del Comune di Firenze; Augusto Cacopardo,
antropologo, Universita' di Firenze; Alessandro Margaglio, presidente della
Commissione Cultura Quartiere I; Giancarlo Paba, urbanista, Universita' di
Firenze; Alessandro Santoro, della Comunita' di base delle Piagge; Piero
Tani, economista, direttore del Forum per i problemi della guerra e della
pace. Presiede il colloquio Giovanna Ceccatelli Gurrieri, presidente del
corso di laurea in Operazioni di pace, gestione e mediazione dei conflitti.
Segreteria organizzativa: dottoressa Silvana Grippi, tel. 0552757743.

5. RIFLESSIONE. VANDANA SHIVA: LA GRANDE PATTUMIERA DEL MONDO
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "L'Unita'" il 6
dicembre 2004. Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di
importanti istituti di ricerca e docente nelle istituzioni universitarie
delle Nazioni Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche come
militante nella difesa dell'ambiente e delle culture native, e' oggi tra i
principali punti di riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di
liberazione dei popoli, di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e
distruttivi, e di denuncia di operazioni e programmi scientifico-industriali
dagli esiti pericolosissimi. Tra le opere di Vandana Shiva: Sopravvivere
allo sviluppo, Isedi, Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati
Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche
sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino
2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo sviluppo); Il mondo sotto
brevetto, Feltrinelli, Milano 2002. Le guerre dell'acqua, Feltrinelli,
Milano 2003]

L'India e' stata letteralmente inondata di granate e razzi inesplosi ed
esplosi provenienti dall'Iraq e dall'Afghanistan e destinati al riciclaggio
come rottami metallici nel momento stesso in cui la sua industria del ferro
e dell'acciaio viene distrutta dalle politiche di liberalizzazione e
privatizzazione dei commerci.
Quanto e' accaduto nel settore del ferro e dell'acciaio sta accadendo anche
nel settore dell'agricoltura. Il governo sta rapidamente attuando politiche
volte a liberalizzare il commercio agricolo e che stanno uccidendo i nostri
agricoltori e distruggendo la nostra agricoltura. Oltre 25.000 contadini si
sono tolti la vita quando si sono trovati preda dei debiti a seguito del
lievitare dei costi di produzione e del crollo dei prezzi dei prodotti
agricoli. E nel momento stesso in cui le granate vengono importate come
rottami metallici mentre l'industria del ferro e dell'acciaio viene
deliberatamente distrutta, gli organismi geneticamente modificati (Ogm) -
l'equivalente in agricoltura delle granate inesplose - vengono introdotti
malgrado il loro costo elevato per i contadini e gli alti rischi per
l'ambiente.
Nei due anni in cui e' stata piantata la prima coltura geneticamente
modificata, il cotone Bt [cotone geneticamente modificato con il bacillus
thuringiensis - ndt], la resa e' stata inferiore alla norma. Non di meno il
governo - il Partito del Congresso al pari del Bharatiya Janata Party prima
di lui - ripete il ritornello falso dei raccolti elevati e del fatto che gli
Ogm sono necessari per risolvere il problema della fame.
Sono appena tornata da un viaggio nell'Uttaranchal, in zone nelle quali si
conservano i semi e si pratica l'agricoltura organica. Aziende agricole a
input zero producono oltre tre tonnellate di riso greggio o oltre cinque
tonnellate di amaranto, di dagussa e di caiano o oltre 15 tonnellate di
frutta - guaiavi, banane, aranci, limette, pompelmi, manghi - per acro.
Al contrario, per quanto riguarda il cotone Bt, a fronte di un raccolto
promesso di una tonnellata e mezzo, la resa e' stata di appena 200
chilogrammi. E i contadini invece di vedere incrementato il loro reddito di
220 dollari per acro hanno subito perdite per 130 dollari l'acro.
Al cospetto del crescente numero di suicidi tra i contadini indebitati e del
fallimento sempre piu' marcato delle colture a causa di semi non
sperimentati, inadatti e non necessari venduti dalle multinazionali il cui
solo obiettivo e' quello di metterci in una situazione di dipendenza per
quanto riguarda le sementi, il governo - qualunque governo responsabile -
dovrebbe porre fine alla vendita di semi geneticamente modificati.
Gli Ogm sono un modo sicuro per distruggere la nostra sovranita' e
democrazia in materia di semi. Invece delle migliaia di colture di cui ci
nutriamo, la nostra agricoltura verra' ridotta ai soli quattro raccolti
geneticamente modificati attualmente commercializzati su scala
significativa: soia, mais, cotone e canola.
Invece delle caratteristiche di resistenza alla siccita', di resistenza alle
inondazioni, di resistenza alla salinita', invece dell'aroma e del gusto,
invece delle caratteristiche nutrizionali e sanitarie per le quali i nostri
contadini hanno selezionato centinaia di migliaia di varieta', gli Ogm hanno
solamente due caratteristiche: resistenza agli erbicidi e presenza delle
tossine Bt.
Entrambe le caratteristiche incrementano i livelli di tossine nei nostri
alimenti e nell'agricoltura. Entrambe non sono sostenibili in quanto invece
di controllare le erbacce e gli insetti nocivi, creano "super erbacce" e
"super insetti nocivi".
Invece di 600 milioni di donne indiane che tenendo i semi nelle loro mani li
risparmiano e li selezionano con cura e intelligenza, una multinazionale, la
Monsanto, diventa "proprietaria" dei nostri semi, spesso tramite la
bio-pirateria - come nel caso del brevetto EP 445929 su una varieta' di
frumento indiana concesso dall'Ufficio Europeo Brevetti ma revocato lo
scorso ottobre come era gia' accaduto in precedenti casi di bio-pirateria
con il neem e il basmati - impoverendo contadini gia' poveri che si vedono
costretti a pagare i diritti per i semi o minacciando di multarli per furto
di proprieta' intellettuale dopo che la Monsanto ha diffuso i suoi geni
tossici mediante impollinazione - come e' accaduto a Percy Schemiser, un
agricoltore canadese citato in giudizio dalla Monsanto per violazione di
brevetto quando il suo campo e' stato contaminato con la canola della
Monsanto "pronta al raccolto" che ha rovinato la purezza della sua
coltivazione.
La dittatura dei semi e l'imperialismo genetico sono stati respinti dalla
maggior parte dei Paesi. In appena quattro Paesi si trova il 94% di tutti i
semi geneticamente modificati piantati.

6. RIFLESSIONE. CHIARA VELTRI INTERVISTA HOMI K. BHABHA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 aprile 2005.
Chiara Veltri, giornalista culturale, scrive per testate quotidiane ed on
line.
Su Homi K. Bhabha riproduciamo la seguente scheda apparsa sullo stesso
giornale: "Un teorico degli ibridi culturali nella postmodernita'. Homi K.
Bhabha, nato a Bombay nel 1949 da famiglia Parsi, ha conseguito la laurea
nella sua citta' natale prima di trasferirsi in Inghilterra, dove ha
ottenuto il master e il dottorato all'Universita' di Oxford. Dopo avere
insegnato, fra gli altri, negli atenei di Londra, Princeton, Chicago, e'
attualmente professore di letteratura inglese e americana e direttore del
dipartimento di studi storici e letterari presso la Harvard University. E'
autore della raccolta di saggi The Location of Culture (London, Routledge,
1994) nei quali vengono articolate la teoria dell'ambivalenza inscritta nel
rapporto colonizzatore-colonizzato e l'idea che la produzione culturale
nello scenario post-coloniale si situi in uno spazio ibrido, liminale,
in-between, di continua negoziazione del concetto di identita'. Ha inoltre
curato il volume collettaneo Nation and Narration (New York and London,
Routledge, 1990). Entrambi i volumi sono pubblicati in Italia da Meltemi con
i titoli I luoghi della cultura (2001) e Nazione e narrazione (1997) per la
traduzione di Antonio Perri. 'Quando diventiamo un popolo? Quando smettiamo
di esserlo?...E che c'entrano queste enormi questioni con i nostri rapporti
con ciascun altro e con tutti gli altri insieme?' - si chiede Bhabha
contribuendo a scuotere dai cliche' quel che concorre a definire l'identita'
singola e collettiva. A marzo del 2005, in occasione della riedizione per la
Grove Press di The Wretched of the Earth (I dannati della terra, edito in
Italia da Comunita') di Frantz Fanon, Bhabha ha pubblicato un saggio
sull'intellettuale martinicano sulla 'Chronicle Review' (e' possibile
leggerlo sul sito http://chronicle.com), intitolato Is Frantz Fanon Still
Relevant?. Insieme al direttore di 'Critical Inquiry' W. J. T. Mitchell,
Bhabha ha poi curato la raccolta di saggi Edward Said: Continuing the
Conversation (University of Chicago Press Journals), uscita lo scorso
aprile. E' di prossima pubblicazione negli Usa per la Harvard University
Press il suo nuovo libro, intitolato A Global Measure"]

"Si stanno rapidamente affermando nuovi schieramenti, trasversali a confini,
tipologie, nazioni e caratteri di fondo; e sono questi schieramenti che oggi
sfidano e minacciano la nozione, fondamentalmente statica, di identita'".
Cosi' scriveva nel 1993 Edward Said, lo studioso palestinese scomparso due
anni fa, che, forse meglio di ogni altro, ha indagato e, anzi, dissezionato,
gli stereotipi occidentali sulle culture altre, in Cultura e imperialismo. E
proprio intorno a queste nuove "comunita' transnazionali" si e' sviluppata
la riflessione dello studioso indiano Homi K. Bhabha, che per molti versi
puo' essere considerato come uno dei maggiori eredi di Said nell'ambito
degli studi post-coloniali della visione dell'alterita' e dei rapporti tra
Oriente e Occidente. Abbiamo incontrato Bhabha in occasione della recente
Fiera del libro di Torino dove lo studioso e' intervenuto alla rassegna
"Lingua madre" e dove - a dispetto dell'etichetta di "critico-criptico"
guadagnata grazie alla sua scrittura di non sempre agevole decifrazione - e'
stato accolto da una platea numerosa e attenta, alla quale ha ricordato che
"la globalizzazione comincia a casa propria, e si misura sul trattamento
riservato in tutto il mondo alle minoranze".
*
- Chiara Veltri: Di recente in molti paesi europei, dalla Germania
all'Olanda, dall'Austria alla Gran Bretagna, si e' assistito a un
progressivo inasprimento delle misure legislative contro l'immigrazione.
Molti di questi provvedimenti, gia' avviati o in corso di discussione,
impongono a chi voglia entrare nel paese la conoscenza della lingua
nazionale. Qual e' la sua opinione a questo proposito?
- Homi K. Bhabha: La lingua e' un punto critico dei conflitti e degli
squilibri legati al potere. Questo e' dovuto al fatto che la lingua da un
lato si trova al di fuori del parlante, perche' fa parte della comunita',
della cultura, della nazione. D'altra parte, ogni parlante attivo pensa che
tutto il suo corpo, la sua anima, la sua identita' siano rappresentati nella
lingua. La lingua, dunque, e' insieme dentro e fuori di noi, il che produce
una tensione interessante. Quando ci viene chiesto di parlare in un modo o
in un altro, sentiamo che la nostra identita' viene plasmata. In questo
senso la lingua e' sempre stata un misuratore molto sensibile dei sentimenti
e delle opinioni delle persone in quanto individui e in quanto cittadini.
Questo aspetto in realta' riguarda la fenomenologia della lingua, la lingua
come fenomeno culturale, sociale, psicologico. Tutto questo forse puo'
sembrare astratto, filosofico, ma porta poi a conseguenze, e a questioni,
molto pratiche. E' giusto che gli immigrati debbano superare un esame di
conoscenza linguistica, come si propone di questi tempi in Olanda? O che un
ministro possa provocatoriamente invocare un "cricket test" a uso e consumo
degli immigrati, come e' accaduto in Inghilterra durante gli anni del
governo Thatcher? Il conservatore Norman Tebbit disse allora che se la
squadra di cricket indiana o pakistana avesse giocato in Inghilterra e gli
immigrati del subcontinente avessero applaudito queste squadre contro la
squadra inglese, allora a questi immigrati sarebbe stata negata la
cittadinanza, perche' non si identificavano con gli inglesi. Purtroppo molto
spesso l'idea che si debba superare una prova, imparare una lingua, prima di
essere considerati cittadini di un paese viene percepita come
un'ingiustizia, perche' sembra che si voglia denudare una persona della
propria lingua e della propria cultura. Non accettare un'altra lingua nel
proprio universo linguistico e culturale, e negare a questa lingua la
possibilita' di trasformare la propria viene considerato provinciale,
limitato, gretto. Senza contare che di fronte a questi problemi,
l'atteggiamento e' necessariamente molto cauto anche per ragioni che
riguardano i diritti umani. I rifugiati, coloro che emigrano per ragioni
politiche o economiche, gli esiliati, arrivano come esseri umani in
difficolta', non perche' sono in grado di parlare una data lingua. L'idea,
infine, che il biglietto d'ingresso per un paese sia la conoscenza della
lingua nazionale puzza di una sorta di patriottismo mal riposto. Per tutti
questi motivi ritengo si tratti di una questione problematica. Detto questo,
credo che in realta' sia importante che le persone che arrivano in un dato
paese non perdano la loro abilita' linguistica e le loro pratiche culturali,
ma che invece aggiungano a esse la lingua di quel paese perche' altrimenti,
visto come funzionano le politiche multiculturali nella maggior parte dei
paesi occidentali, le persone che non hanno il potere di comunicare nella
lingua nazionale spesso perdono il potere di rappresentarsi, e allora o
diventano cittadini emarginati, parziali, esclusi dalla vita culturale, o
vengono ghettizzati, accantonati e ci si dimentica di loro. Per queste
ragioni ritengo sia molto importante che se una persona decide di vivere in
un paese sia un cittadino pienamente e attivamente partecipe della sfera
pubblica, e perche' cio' sia possibile deve impararne la lingua: il che non
deve implicare la perdita della propria lingua madre; certo, pero', che da
bilingue, da parlante di due, tre o piu' lingue sara' piu' facile che possa
modificare la cultura del paese in cui e' ospite.
*
- Chiara Veltri: Ritiene che negli Stati Uniti, il paese dove lei vive e
lavora ormai da anni, l'atteggiamento nei confronti dell'immigrazione sia
diverso da quello europeo?
- Homi K. Bhabha: In Inghilterra, in Europa e' facile vedere coppie miste di
immigrati di seconda, terza generazione che passeggiano tranquilli per
strada, molto piu' che negli Stati Uniti, dove esiste una classe di
afroamericani molto benestante e istruita, ma dove una cultura "cross-over",
di ibridazione, e' molto meno presente. L'unico esempio di cultura
"cross-over" in America e' il rap, l'hip-hop, che naturalmente e' un
fenomeno internazionale della cultura giovanile ed e' indipendente dal
colore della pelle. Mi colpisce il fatto che in Inghilterra, che e' il paese
che conosco meglio da questo punto di vista, il riconoscimento delle
differenze linguistiche e' quasi esclusivamente una questione di classe. Un
nero, un afro-caraibico, se ha frequentato le scuole giuste e ha ricevuto
una buona istruzione, perde le tracce, quando parla inglese, di qualsiasi
altra lingua al di fuori della parlata britannica standard. Negli Usa non e'
cosi', e credo che dipenda dal fatto che la cultura wasp non ha mai davvero
fatto i conti con la sua storia, con un passato relativamente recente - un
secolo, un secolo e mezzo - in cui la societa' americana era schiavista.
Tutta la storia delle minoranze e dei gruppi etnici negli Stati Uniti e' una
storia di persone che tendono a rimanere nel proprio gruppo d'origine: in
molte citta' ci sono quartieri che vengono chiamati con il nome del gruppo
etnico che vi abita, come Greek Town a Detroit e a Chicago, Corea Town a Los
Angeles. E' molto diverso da quanto avviene in Europa: negli Usa le persone
tendono molto di piu' a rimanere attaccate alle proprie tradizioni
linguistiche, mentre in Europa chi riceve un'istruzione adeguata riesce ad
amalgamarsi. Esiste poi, secondo me, un'altra ragione, relativa al fatto che
negli Stati Uniti il senso della sfera pubblica e' meno forte che in Europa
grazie alla lunga tradizione del Welfare State.
*
- Chiara Veltri: Nel suo saggio "Interrogare l'identita'", contenuto nei
Luoghi della cultura, lei ha scritto che l'imposizione della lingua
imperiale sui popoli colonizzati e' stata la condizione culturale del
movimento dell'impero, della sua logo-mozione. Esemplare il caso dell'India,
paese in cui si parlano centinaia tra lingue e dialetti, cui si e' aggiunto
l'inglese, controversa eredita' del dominio coloniale britannico. In che
modo l'uso unificante della lingua inglese in India agisce ancora oggi?
- Homi K. Bhabha: Esiste un'opinione diffusa, sposata anche da Salman
Rushdie, secondo la quale la lingua inglese, nonostante sia stata imposta
agli indiani, nel corso del tempo si e' radicata nel paese e oggi e' la
lingua in cui molti indiani, che parlano lingue diverse e vivono in regioni
diverse, comunicano. Credo che questo sia giusto. E' sorprendente la
frequenza con cui in un piccolo villaggio indiano delle regioni piu' interne
ci si capisce senza alcuna difficolta' proprio parlando inglese. Certo, non
si tratta dell'"inglese della regina", forse non e' grammaticalmente
corretto e sicuramente e' incerto, ma e' piu' che sufficiente per
comunicare. E vorrei aggiungere che questa capacita', piu' o meno
sviluppata, di utilizzare l'inglese, ha creato in India una grande
curiosita' verso il resto del mondo, perche' quando parli inglese, anche un
inglese esitante, senti un'altra cultura dentro di te. Lo si vede
dappertutto: nei piccoli centri, nelle botteghe del te', quando la gente ti
chiede notizie circa il luogo dal quale provieni. In genere, in India c'e'
una grande sensibilita', un grande interesse nei confronti delle differenze.
In alcuni casi, certo, vengono percepite come un'imposizione. A volte coloro
che non parlano bene inglese non ottengono il lavoro per il quale sono
qualificati, e curiosamente sono gli indiani stessi a creare delle
discriminazioni, favorendo chi e' piu' istruito e parla bene inglese. Cio'
nonostante, la presenza di questa lingua di comunicazione ha spalancato un
universo immenso per gli indiani, unito a un enorme desiderio di conoscenza.
La questione tuttavia si fa piu' complessa in ambito letterario, perche'
l'egemonia globale dell'inglese mette in ombra, oscura, nasconde le grandi
opere letterarie create nelle altre lingue indiane. E molti autori che
scrivono in hindi, in telegu, in malayalam, in marathi non ricevono
l'attenzione, le opportunita' e la scena pubblica che meriterebbero. Credo
allora che si debba giudicare la persistenza dell'inglese in India come una
benedizione a meta': per molti aspetti e' un dato positivo, ma al tempo
stesso il fatto che svaluti, anche se non intenzionalmente, le altre
letterature, impedendo loro di accedere all'attenzione mondiale, rappresenta
una sconfitta per tutti.
*
- Chiara Veltri: Una delle idee centrali della sua produzione teorica e'
quella dell'ibridazione, dell'eterogeneita' polifonica della "lingua madre"
e della cultura dell'occidente post-imperiale. In che modo la presenza di
comunita' della diaspora in occidente ha reso tutto questo piu' evidente?
- Homi K. Bhabha: Quando nel posto in cui vivi vengono ad abitare persone di
altre culture, che hanno storie diverse, soprattutto se appartengono a
quelli che un tempo erano i popoli colonizzati da questi paesi, allora sei
costretto a pensare, o ripensare la tua storia, la tua cultura. Credo che
questo sia l'effetto piu' importante della diaspora nei paesi ex
colonizzatori, come la Francia o l'Inghilterra. E cio' non accade solo
perche' queste persone ti puntano contro un dito accusatore, ricordando lo
sfruttamento, le discriminazioni, i maltrattamenti perpetrati durante
l'epoca coloniale. Il punto non e' costituito da queste accuse, anche se si
tratta di un fenomeno comprensibile, giusto e persino positivo, soprattutto
se le critiche vengono rivolte in modo costruttivo. Quello che secondo me e'
davvero importante, a proposito della presenza nelle societa' occidentali di
popolazioni "straniere", e' il fatto che le potenze imperialistiche si
trovano a dover riconoscere come moltissime idee che a loro parere sono
"semplicemente" occidentali - francesi o inglesi o comunque nazionali -, si
siano formate in realta' a partire dalle relazioni tra oriente e occidente.
Non e' facile, per esempio, rendersi conto di quanto la lingua inglese sia
piena di varianti di parole che risalgono all'impero. Eppure, per prendere
un caso letterario, Kim di Rudyard Kipling, considerato l'esempio classico
di una certa concezione imperiale agli inizi del ventesimo secolo, e' un
romanzo scritto in un inglese orientalizzato. Forse non si tratta davvero di
Indian English, ma e' comunque una lingua che risente fortemente degli
influssi dell'India. Il che non lo rende meno interessante, al contrario.
Trovo che sia stimolante conoscere il motivo per cui piu' di cento anni fa
le persone deviavano dalle norme della lingua inglese scritta per
orientalizzarsi, in modo che un'altra cultura, spesso una cultura aliena,
fosse sempre visibile all'orizzonte della loro scrittura. E questa e' solo
una illustrazione pratica di un ambito molto piu' vasto. Moltissime idee
inglesi, europee si sono formate nel cosiddetto terzo mondo.

7. RIVISTE. CON "QUALEVITA", LA LEZIONE DI LEANDRO ROSSI
Abbonarsi a "Qualevita" e' un modo per sostenere la nonviolenza. Ricordando
la lezione di Leandro Rossi.
*
"Quando non sai cosa e' giusto fare, non avanzare soluzioni ideologiche; ma
domanda sinceramente alla tua coscienza e rispondi con il tuo buon cuore"
(da Leandro Rossi, Pace e nonviolenza, Edizioni Qualevita, Torre dei Nolfi
(Aq) s. d., p. 203).
*
"Qualevita" e' il bel bimestrale di riflessione e informazione nonviolenta
che insieme ad "Azione nonviolenta", "Mosaico di pace", "Quaderni
satyagraha" e poche altre riviste e' una delle voci piu' qualificate della
nonviolenza nel nostro paese. Ma e' anche una casa editrice che pubblica
libri appassionanti e utilissimi, e che ogni anno mette a disposizione con
l'agenza-diario "Giorni nonviolenti" uno degli strumenti di lavoro migliori
di cui disponiamo.
Abbonarsi a "Qualevita", regalare a una persona amica un abbonamento a
"Qualevita", e' un'azione buona e feconda.
Per informazioni e contatti: Edizioni Qualevita, via Michelangelo 2, 67030
Torre dei Nolfi (Aq), tel. 3495843946, o anche 0864460006, o ancora
086446448; e-mail: sudest at iol.it o anche qualevita3 at tele2.it; sito:
www.peacelink.it/users/qualevita
Per abbonamenti alla rivista bimestrale "Qualevita": abbonamento annuo: euro
13, da versare sul ccp 10750677, intestato a "Qualevita", via Michelangelo
2, 67030 Torre dei Nolfi (Aq), specificando nella causale "abbonamento a
'Qualevita'".

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 945 del 30 maggio 2005

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