La nonviolenza e' in cammino. 1035



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1035 del 27 agosto 2005

Sommario di questo numero:
1. Susan Sontag: Pensare
2. Yigal Schleifer: Donne e commercio equo. Un diverso mercato globale
3. Flavio Lotti: Gli Stati Uniti, l'Onu e noi
4. Giulio Vittorangeli: Rompere la realta' di morte
5. Edoarda Masi: Conoscere, sapere
6. Roberto Ciccarelli: "Guerra al terrorismo" e barbarie giuridica
7. Letture: Heinrich Boell, Prigioniero a Parigi e altri racconti
8. Letture: Mario Lancisi, No alla guerra!
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'

1. MAESTRE. SUSAN SONTAG: PENSARE
[Da Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003, p.
102. Susan Sontag e' stata una prestigiosa intellettuale femminista e
pacifista americana, nata a New York nel 1933, deceduta sul finire del 2004;
acutissima interprete e critica dei costumi e dei linguaggi, fortemente
impegnata per i diritti civili e la dignita' umana; tra i molti suoi libri
segnaliamo alcuni suoi stupendi saggi, come quelli raccolti in Contro
l'interpretazione e Stili di volonta' radicale, presso Mondadori; e Malattia
come metafora, presso Einaudi; tra i suoi lavori piu' recenti segnaliamo
particolarmente il notevole Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano
2003]

Non c'e' nulla di male nel fare un passo indietro e pensare. Nessuno puo'
pensare e al tempo stesso colpire un altro.

2. MONDO. YIGAL SCHLEIFER: DONNE E COMMERCIO EQUO. UN DIVERSO MERCATO
GLOBALE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a  disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di
Yigal Schleifer. Yigal Schleifer e' giornalista indipendente, vive ad
Istanbul, scrive regolarmente per il "Christian Science Monitor" ed il
"Jerusalem Report", oltre che per varie altre testate]

L'estate porta con se' in Turchia l'usuale flusso di turisti che visitano i
siti storici o passano le vacanze sulle spiagge. Un buon numero di essi,
sollecitati dai richiami degli innumerevoli venditori di tappeti del paese,
torneranno a casa con una stuoia turca intrecciata a mano, probabilmente
senza dedicare alcun pensiero a chi l'ha intrecciata, e a quanto ha
guadagnato per essa. Nella maggior parte dei casi, la stuoia e' stata fatta
da una donna o da una ragazzina turca che vivono in un villaggio di
campagna, e che sono state pagate giusto quel che basta per coprire le
spese. I tappeti turchi possono arrivare a costare centinaia di dollari: chi
li fa percepisce una minuscola frazione della cifra.
Questo, almeno, era il caso del villaggio di Orselli, una collezione di case
di pietra e cemento incastrate nelle montagne fuori dalla citta' di Izmir,
la seconda citta' piu' grande in Turchia. Le donne del villaggio
intrecciavano tappeti da tempo immemorabile, ma ad un certo punto smisero,
perche' non ne ricavavano alcun beneficio economico. Gli uomini che
compravano i loro tappeti e poi li vendevano al mercato non dividevano con
loro il profitto, ed inoltre chiedevano loro prezzi sempre minori per via
dell'arrivo sul mercato delle stuoie fatte a macchina nelle fabbriche, che
erano piu' convenienti. Presto le giovani donne smisero di interessarsi
all'apprendimento della tessitura, mentre le anziane che continuavano a fare
tappeti cominciarono ad usare tinture sintetiche, che costavano meno di
quelle naturali. Questo diminui' ulteriormente il valore dei loro prodotti,
perche' i collezionisti preferiscono comprare tappeti tinti con sostanze
naturali.
*
Circa vent'anni fa, questa tendenza si arresto'. Un gruppo di donne di
Orselli fondo' una cooperativa di tessitrici. Furono aiutate da un
professore tedesco, Harald Bohmer, e dall'Universita' di Marmara di
Istanbul, entrambi interessati al ripristino delle colorazioni naturali dei
tappeti.
Oggi la cooperativa, che si chiama Dobag, e' famosa in tutto il mondo. Le
stuoie che vengono da Dobag sono ammirate ovunque per i loro vividi colori e
gli intrecci favolosi che disegnano una simbologia animista.
"I miei prodotti acquistarono valore, ed io cominciai a guadagnare del
denaro", dice Cennet Deneri, la quarantasettenne presidente della
cooperativa che oggi conta 160 socie provenienti da 6 villaggi; "Abbiamo
tutte migliorato il nostro standard di vita. Ora, le donne dei villaggi sono
economicamente indipendenti. Non dipendo piu' da mio marito., aggiunge
Cennet con un largo sorriso, Sono eguale a lui".
*
La storia della cooperativa Dobag si sta ripetendo ovunque nel mondo: le
cooperative di donne centrate sulla commercializzazione di manufatti
tradizionali crescono. Dall'Asia all'America, numerosi programmi stanno
aiutando le donne ad ottenere il controllo economico sul proprio lavoro.
"E' un'area che suscita crescente interesse nelle comunita' in via di
sviluppo. Di solito si trattava di situazioni di nicchia, ma ora grossi
gruppi cominciano ad essere coinvolti nei progetti", dice Nina Smith,
direttrice esecutiva di "Rugmark", un gruppo che lavora per prevenire
l'impiego di bambine e bambine nella produzione di tappeti.
"L'intero mercato dei prodotti del commercio equo, si tratti del caffe' o
dei manufatti, e' davvero cresciuto in modo incredibile. Prima era una sorta
di 'mercato della solidarieta'', qualcosa come un gruppo religioso che
tentasse di aiutare le donne povere in Nicaragua, ma ora la situazione e'
molto diversa".
Gli esperti che lavorano alle istanze del commercio equo stimano che le
donne siano fra il 70 e l'80% dei lavoratori che producono manufatti
tradizionali. Non ci sono statistiche che dicano quante artigiane stanno
lavorando con le cooperative, o in altri progetti che offrono alle donne
paghe decenti e coinvolgimento democratico nelle decisioni da prendere sul
loro lavoro, ma il loro numero, dicono gli esperti, e' sicuramente ancora
molto basso.
*
"Marketplace: Handwork of India" e' un'organizzazione che da dieci anni
aiuta le artigiane indiane a vendere i loro prodotti, quali stoffe ricamate
ed abiti tessuti a mano, tramite il proprio sito web e vari negozi. Al
momento 450 lavoratrici sono coinvolte nel programma, che lo scorso anno ha
fruttato 750.000 dollari in salari. La presidente, Pushpika Freitas, mi dice
da Mumbai che l'organizzazione ha toccato sino ad ora una piccola minoranza
delle donne artigiane, e che vi e' un potenziale realistico per l'espansione
del progetto: "Con le infrastrutture giuste, pianificazione ed un lavoro di
rete possiamo farcela. Abbiamo gia' dimostrato che i manufatti tradizionali
possono essere una risorsa economica per le donne indiane e speriamo di
portare questo modello a molte altre di loro".
Carol Wills, dell'Associazione olandese per il commercio equo, puntualizza:
"Il commercio equo viene frequentemente associato solo ai prodotti agricoli,
come il caffe' e le banane, ma ha una forte e diretta relazione con
l'equita' di genere. Penso che qualcosa di buono sia stato fatto, rispetto
alla promozione degli interessi e dei diritti delle donne. Dobbiamo
continuare ad incoraggiare le donne ad una maggior partecipazione".
Il movimento per il commercio equo, come i progetti che riguardano le donne,
e' piccolo ma in via di rapidissima crescita. Nel 2003, i prodotti del
commercio equo hanno avuto una crescita globale del 43%, con punte del 61%
in Gran Bretagna, l'81% in Francia e il 400% dell'Italia.
E sebbene l'estensione dei progetti che riguardano le donne non sia
vastissima, il loro impatto sulle vite delle partecipanti e' di grande
significato, esse dicono. Prima non guadagnavano quasi nulla, ora il lavoro
permette loro di vivere, e da' loro anche qualcosa di piu' del denaro.
*
A Orselli, le stuoie sono oggi la principale fonte di reddito del villaggio.
I residenti hanno potuto acquistare le lavatrici, che sognavano da anni. Il
flusso dei visitatori internazionali ha indotto finalmente il governo locale
ad asfaltare la serpeggiante strada che conduce ad Orselli. Il villaggio non
e' segnato sulle mappe turistiche, ma i commercianti europei e statunitensi
di tappeti lo conoscono molto bene. "C'e' praticamente un telaio in ogni
casa", mi dice la presidente Deneri, vestita in splendidi pantaloni floreali
e con una sciarpa azzurra mollemente adagiata attorno al viso, "Le ragazze
oggi vogliono imparare dalle madri. Il guadagno che hanno da un tappeto si
e' triplicato, rispetto al passato".
*
Poiche' la maggior parte degli uomini dei villaggi e' impiegata in lavori
agricoli stagionali ed irregolari, il frutto del lavoro di tessitura e' cio'
che di piu' vicino ad un reddito garantito i villaggi possiedono.
In Ghana, un progetto chiamato "Women in Progress" e basato nella citta' di
Cape Coast sta aiutando 26 donne a gestire in proprio il loro lavoro di
cucitura di abiti tradizionali: i prodotti sono in vendita in un negozio
virtuale, il sito web chiamato Global Mamas.
Adam, una statunitense co-fondatrice del progetto, venne in Ghana nel 1994
come volontaria dei Corpi di Pace, e rimase colpita da quanto poco sostegno
avesse il lavoro femminile. Torno' nel paese due anni dopo, dopo essersi
laureata in economia e commercio, per lanciare il progetto "Women in
Progress". "Le donne africane sono il cuore delle loro famiglie. Quando
aiuti una donna, puoi star sicura che il denaro va a vantaggio di tutta la
famiglia, mi dice Adam da Cape Coast, La maggior parte delle donne che si
avvicinarono al progetto stavano affrontando grossi problemi. Molte erano
profughe, e cosi' povere da non poter mandare i figli a scuola. Il guadagno
medio annuale di una persona in Ghana e' di circa 200 dollari. Le nostre
socie hanno guadagnato l'anno scorso sino a dieci volte di piu'. Non solo
hanno mandato a scuola i loro bambini, ma pagano per mandare a scuola i
figlioletti di parenti. Aiuta una donna e avrai aiutato non solo l'intera
sua famiglia, ma l'intera comunita'".
*
Le organizzatrici dei progetti cooperativi per le donne artigiane dicono che
la maggior difficolta' che incontrano e' la commercializzazione dei
prodotti: internet e' pero' un ottimo veicolo, sostengono, come la crescita
del commercio equo. Molte lavoratrici sperano che la prossima volta in cui
un turista comprera' una stuoia in Turchia, un ricamo in India o una tunica
in Ghana, si fermera' un attimo a pensare all'artigiana che li ha fatti, e a
chiedersi se e' stata pagata giustamente per il proprio lavoro.
*
Per maggiori informazioni:
- Marketplace: Handwork of India: www.marketplaceindia.org
- Women in Progress: www.womeninprogress.org
- Oxfam International: "Trading away our rights: Women working in global
supply chains": www.oxfam.org.uk/what_we_do/issues/trade/trading_rights.htm

3. RIFLESSIONE. FLAVIO LOTTI: GLI STATI UNITI, L'ONU E NOI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 agosto 2005. Flavio Lotti e'
coordinatore nazionale della Tavola della pace, la principale rete pacifista
italiana]

Conquistare o distruggere. La strategia degli Stati Uniti non potrebbe
essere piu' chiara. L'attacco e' in corso da tempo ma pochi sembrano averne
compreso la gravita'. L'obiettivo non e' una citta' irachena in mano agli
insorti ma nientemeno che l'organizzazione delle Nazioni Unite. Da molti
anni, il Palazzo di Vetro era sotto assedio. L'assalto a Boutros Boutros
Ghali, capo dell'Onu dal 1990 al 1995, aveva inferto un colpo mortale
all'integrita', obiettivita' e indipendenza del Segretariato generale.
Soffocata finanziariamente e trascinata sull'orlo della bancarotta per il
mancato pagamento delle quote dovute dagli stati membri, l'Onu ha dovuto
smantellare molte delle sue attivita' costringendo le sue agenzie a
dipendere quasi esclusivamente dai contributi volontari degli stati. Privata
dei fondi necessari per adempiere al proprio mandato ed espropriata dei
poteri e delle missioni che la Carta le aveva assegnato, l'Onu e' stata
progressivamente marginalizzata sia nel campo della sicurezza che in quello
dello sviluppo a vantaggio delle grandi potenze e delle istituzioni di
Bretton Woods. Quello che doveva essere "il centro di armonizzazione delle
azioni tra le nazioni", la sede del negoziato e delle decisioni su scala
globale, e' stato ridotto ad una societa' di dibattiti. Tutte le proposte di
riforma, rafforzamento e democratizzazione sono state sistematicamente
bocciate, gli sforzi di miglioramento sono stati boicottati.
*
Allo stesso tempo, l'intero sistema delle Nazioni Unite e' stato oggetto di
una pesante campagna denigratoria e di disinformazione che ha diffuso una
percezione negativa dell'Onu nell'opinione pubblica mondiale. Dopo aver
subito lo schiaffo del Consiglio di Sicurezza che nel 2003 si e' rifiutato
di autorizzare la guerra contro l'Iraq, il governo degli Usa ha deciso di
sferrare l'attacco finale. Gli storici ci racconteranno i dettagli dello
scontro. Preso in ostaggio il Segretario generale, Kofi Annan (con il
pretesto dello scandalo Oil For Food), sono iniziate le grandi manovre di
conquista del Palazzo di vetro. Dicono i pochi osservatori accorti che le
battaglie si stanno conducendo stanza per stanza. Obiettivo: insediare nei
posti chiave i propri uomini di fiducia. Cosi', in pochi mesi
l'amministratore americano dell'Undp, Marck Mulloch Brown, diventa capo di
gabinetto di Kofi Annan e ne ristruttura completamente lo staff; Ann M.
Veneman, ex ministro dell'agricoltura di Bush e convinta neoconservatrice,
diventa la nuova direttrice esecutiva dell'Unicef; James T. Morris, uno dei
fedelissimi della Casa bianca, diventa il capo della Fao, e Christopher B.
Burnham, fiduciario del partito repubblicano ed entusiasta sostenitore di
Bush, assume la carica massima di vicesegretario dell'Onu, incaricato della
gestione del personale. E' lui a parlare chiaro: "Sono venuto qui perche' me
lo ha chiesto la Casa bianca. Il mio dovere e' di rendere l'Onu piu'
efficiente. Devo innanzitutto essere leale con gli Stati Uniti".
La posta in gioco e' altissima, lo scontro duro, e Bush dimostra di fidarsi
solo dei suoi fedelissimi neocons. Per questo impone, nonostante le
resistenze del Senato, il superfalco nemico giurato dell'Onu, John Bolton,
quale proprio ambasciatore alle Nazioni Unite. Per la Casa bianca, l'Onu ha
un futuro solo se serve agli interessi degli Usa. Per questo deve essere
radicalmente riformato. "Questo e' il momento giusto per agire", hanno
dichiarato Newt Gingrich e George Mitchell, presidenti bipartisan della task
force incaricata dal Congresso degli Stati Uniti di preparare il rapporto
"Gli interessi americani e le Nazioni unite". "La grave crisi dell'Onu offre
delle straordinarie opportunita' che vanno colte al volo". In apparenza, il
discorso dell'amministrazione americana e' persino convincente. "L'Onu -si
sente ripetere continuamente- e' in crisi perche' e' stata gestita male. Si
sono sprecati molti soldi. E' diventato un carrozzone burocratico. Spesso e'
condizionato da regimi dittatoriali che ne paralizzano l'azione. La sua
struttura e' anacronistica. Ha fatto alcune cose buone ma ha mancato molti
dei suoi obiettivi. Mentre a New York si curano i mal di pancia dei
diplomatici, in Darfur si muore. L'Onu e' sempre meno credibile. C'e' anche
un problema morale. Ci sono stati scandali che hanno coinvolto alti
funzionari. Altri caschi blu si sono resi colpevoli di violenze sessuali.
Insomma, o l'Onu cambia o e' condannato a perdere ogni residua credibilita'
e a morire. Noi americani possiamo riparare l'edificio, rinvigorirlo,
liberarlo dalle incrostazioni, adeguarlo alle sfide del nostro tempo,
renderlo efficiente ed efficace".
*
Nella sostanza, gli Usa vorrebbero ridisegnare completamente le missioni
dell'Onu assegnandole un solo compito veramente importante: autorizzare o
approvare l'uso della forza da parte degli stati, singoli, "coalizioni di
volonterosi" o organizzazioni regionali, tutte quelle volte che si rendesse
necessaria un'azione militare "preventiva" o "protettiva" di fronte a una
minaccia non imminente o latente o di fronte al pericolo di genocidio o
atrocita' affini. Un vero e proprio stravolgimento della Carta dell'Onu e
delle sue funzioni. Anziche' operare per "preservare le future generazioni
dal flagello della guerra", l'Onu diventerebbe cosi' il luogo dove discutere
se dare il via a questa o quella guerra. Nessun vero ruolo nella prevenzione
e soluzione dei conflitti. Nessun ruolo in campo economico. Un po' di
peacekeeping (ma solo ed esclusivamente con personale messo a disposizione
di volta in volta dagli stati o dalle coalizioni regionali), un po' di
peacebuilding (ma senza alcun ruolo per la societa' civile che invece si e'
contraddistinta per la sua efficacia), un po' di aiuti umanitari per quelli
che muoiono di fame o di qualche altra catastrofe naturale, in stretto
rapporto con la Banca Mondiale guidata da Paul Wolfowitz, architetto della
guerra in Iraq.
Nell'interesse dei contribuenti americani, all'Onu viene richiesto
naturalmente di combattere il terrorismo, di impedire che armi di
distruzione di massa possano finire in mani sbagliate, di promuovere la
democrazia nel mondo e il rispetto dei diritti umani. Tutti obiettivi
sacrosanti che gli Usa si propongono di raggiungere imponendo all'Onu di
adottare gli stessi metodi e strumenti di interventismo militare della
politica americana. L'idea di fondo e' che l'Onu non dovrebbe piu' essere la
casa di tutti ma la "Casa delle democrazie" che, agendo di concerto,
potrebbero impedire e sanzionare terrorismo, genocidi e violazioni dei
diritti umani. Per coltivare questo disegno, gli Stati Uniti propugnano
anche un'ampia riforma istituzionale che include: la definitiva degradazione
dell'Assemblea generale e la sua trasformazione in un forum permanente per
dibattiti inconcludenti; la trasformazione del Segretario generale in un
manager sotto il controllo dei maggiori paesi contribuenti; il controllo del
bilancio di ogni singola attivita', anche attraverso una commissione
esterna; la possibilita' di controllare i bilanci anche da parte delle
Agenzie investigative degli Usa e del Congresso americano; la riduzione del
personale direttamente assunto dall'Onu (e che ne dovrebbe garantire
l'indipendenza); l'assunzione di nuovo personale solo a tempo determinato;
l'aumento del personale fornito direttamente dagli stati (che in questo modo
aumenterebbero la loro capacita' di promuovere i propri interessi
all'interno dell'organizzazione e, ovviamente, tenerla sotto controllo);
l'apertura delle porte dell'Onu ai privati e la chiusura ai parlamenti, alla
societa' civile e agli enti locali.
*
Che fare?
Primo. Per quanto l'assalto degli Usa possa sembrare invincibile, l'esito
della battaglia non e' affatto scontata come non lo e' stato il voto sulla
guerra in Iraq. E' vero che gli stati sono ricattabili e si lasciano
ricattare ma a tutto c'e' un limite.
Secondo. Nessuno puo' arrendersi all'idea che l'Onu diventi uno strumento
dei piu' forti e del loro unilateralismo. Molte delle grandi sfide
dell'umanita' sono globali e per vincerle sono indispensabili soluzioni
globali condivise. L'unilateralismo e il "multilateralismo alla carta" fanno
male al mondo. L'alternativa a un "centro armonizzatore" e' il caos mondiale
nel quale stiamo precipitando.
Terzo. Questo e' il momento in cui tutti gli amanti della pace, diritti
umani, democrazia, legalita', giustizia e liberta' debbono unirsi e battersi
per salvare, rafforzare e democratizzare l'Onu. La societa' civile mondiale
impegnata a contrastare miseria e ingiustizia, unilateralismo e
globalizzazione selvaggia, guerre e terrorismi, deve assumersi questo
compito. Un grande ruolo spetta all'Unione europea (se decidera' di esistere
e agire) e a quei governi del sud del mondo che decideranno di non piegare
la schiena fino a terra. Ma senza la mobilitazione della societa' civile e'
certo che sara' impossibile ridare al Palazzo di vetro la dignita',
l'efficacia e il futuro che deve avere.
*
Con questa consapevolezza, dal 7 al 10 settembre, alla vigilia della Marcia
Perugia-Assisi e del vertice delle Nazioni Unite, centinaia di persone e
organizzazioni di tutto il mondo, membri del Forum Sociale Mondiale e di
tante altre reti, si riuniranno a Perugia nella sesta Assemblea dell'Onu dei
popoli per discutere che fare. Se, com'e' prevedibile, il summit di
settembre sara' un disastro, perche' non lavorare alla convocazione di una
"Convenzione universale sul futuro dell'Onu" che riunisca tutti coloro che
dell'Onu non vogliono (e non possono) fare a meno? E se gli Stati Uniti
insistono nell'attacco, perche' non promuovere una campagna per il
trasferimento del quartier generale dell'Onu da New York a Roma o, magari, a
Gerusalemme?

4. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: ROMPERE LA REALTA' DI MORTE
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per
questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori
di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da
sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di
solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di
condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione
Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di
studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta'
concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione
di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra
soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha
svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e
riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti
interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui
promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra
altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre
1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara,
la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo,
Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996;
Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La
solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I
movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto
politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria,
una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra
neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della
solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno,
luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio
2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per
anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della
solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha
cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che
solidarieta'"]

Esiste, per ognuno di noi, una zona fra il passato privato come sfondo dei
propri ricordi (memoria individuale), e il passato come archivio aperto ad
un'indagine storica (memoria sociale).
Questa zona si estende dal punto di inizio delle memorie familiari ancora
vive (ad esempio dalla piu' antica fotografia di famiglia che siamo ancora
in grado di spiegare), fino al termine dell'infanzia quando vicende
pubbliche e private sono avvertite come inseparabili. Quindi la costituzione
piu' profonda delle categorie etiche e politiche e del loro stesso senso
comune e pubblico, resta un'avventura individuale, ma la loro formazione
sara' proprio nella memoria sociale, ovvero quella che riuscira' a essere
collettivamente piu' condivisa.
Una memoria sociale e' di per se stessa anche memoria storica; la storia e'
nata proprio contro le deformazioni della memoria, perche' quest'ultima e'
intrinsecamente fragile e i ricordi sono esposti alla mutilazione e alla
cancellazione.
Sappiamo che ogni popolo e nazione ha una propria memoria pubblica che e'
incessantemente promossa da forme del ricordare in comune, da
commemorazioni, festivita' civili e religiose, fino alla stesura di libri di
testo di storia e diffusione della lingua.
*
Credo che in nessun'altra realta' come quello israelo-palestinese ci
troviamo drammaticamente davanti ad una memoria contesa e divisa. Torti e
ragioni aggrovigliate in un nodo sanguinoso, apparentemente sempre piu'
inestricabile.
E' con la genesi e la storia dello stato di Israele in Palestina che, in
quella regione storica del Medio Oriente culla di varie civilta' e religioni
il nodo inizia ad aggrovigliarsi. Naturalmente non e' possibile riassumere
in poche righe decenni di drammatiche e complesse vicende che hanno dato
luogo a percezioni fortemente divergenti e interpretazioni controverse e
polarizzate: nel 1947 le Nazioni Unite approvano un piano che prevede la
nascita di due stati, uno ebraico e uno arabo, e l'internazionalizzazione di
Gerusalemme. Nel 1948 Israele proclama la propria indipendenza - alle spalle
c'e' drammaticamente vivo l'orrore della Shoah - scatenando un vero e
proprio conflitto: oltre 800.000 palestinesi sono costretti ad abbandonare
la propria terra e a rifugiarsi nei paesi arabi limitrofi. Per loro e' la
catastrofe: la Nakbah. Nasce cosi' la "questione nazionale palestinese", che
vede negli anni '60 la costituzione dell'Organizzazione per la liberazione
della Palestina (Olp) con alla guida Yasser Arafat. Durante la guerra dei
sei giorni nel 1967 Israele, divenuta la potenza che domina la regione,
occupa i territori residui che l'Onu aveva destinato ai palestinesi. Lo
scontro si inasprisce ulteriormente sul piano militare negli anni settanta;
sara' solo dopo la prolungata lotta della prima Intifada (1987) che si apre,
momentaneamente, la via della negoziazione e della pace. E' storia
abbastanza recente: gli accordi di Oslo del 1993 e il successivo fallimento,
l'assassinio di Rabin, lo scoppio della seconda Intifada, gli attacchi
suicidi palestinesi, la costruzione del muro di separazione, la morte di
Arafat, fino all'odierno ritiro dei coloni israeliani dalla striscia di
Gaza.
*
Su quest'ultima vicenda c'e' stata una grande attenzione mediatica (radio,
reti televisive, quotidiani, numerosi giornalisti stranieri) che hanno
mostrato le lacrime versate per questo abbandono. Gia', ma perche' non sono
mai state documentate quelle versate dai rifugiati palestinesi, espulsi
dalle loro case?
Ha scritto Zvi Schuldiner ("Il manifesto", 17 agosto 2005): "E' terribile,
famiglie intere che abbandonano le proprie case. Da molte delle finestre dei
coloni si possono vedere i resti di alcune delle case di palestinesi che i
soldati 'umanitari' hanno distrutto negli ultimi anni. Circa trentamila
palestinesi hanno assistito alla distruzione delle proprie case".
Certo, l'evacuazione di Gaza, e' una piccola vittoria dei palestinesi, dopo
le sofferenza e le angherie che hanno subito negli ultimi 60 anni; ed una
piccola vittoria di tutti coloro che hanno denunciato la follia di voler
cancellare la questione palestinese con la forza.
Ma se al ritiro di Gaza non seguono gli altri indispensabili ritiri, il
rischio e' che non si crei un vero stato di Palestina, ma una sorta di
singoli insediamenti palestinesi a pelle di leopardo.
Dovrebbe essere chiaro che la causa palestinese pesa storicamente sulla
coscienza di tutto il mondo, perche' poco e' stato fatto per sorreggerla.
Pesa anche sulle nostre spalle, non solo su quelle dei governi
dell'Occidente che hanno abbondato in promesse poi non mantenute, di chi
come noi crede nel dialogo nonviolento tra questi due popoli.
Perche' la situazione e' e resta drammatica, come testimonia Ali Rashid
(primo segretario della Delegazione palestinese in Italia): "Quanto tempo,
vite umane, innocenze e coscienze dobbiamo ancora perdere per capire che
siamo giunti a dimensioni che non permettono scorciatoie, che il senso di
responsabilita' non e' semplicemente l'astuzia di un capo senza scrupoli,
che la vita precede lo stato e che la barbarie chiama altra barbarie?... La
nostra e' una realta' di morte, perche' promette solo guerra e morte e mette
una speranza contro un'altra speranza. E' ora di leggere l'unita' del nostro
destino tenendo in vista l'uomo vivo e non la realta' morta".

5. MAESTRE. EDOARDA MASI: CONOSCERE, SAPERE
[Da Edoarda Masi, Il libro da nascondere, Marietti, Casale Monferrato (Al)
1985, p. 121. Edoarda Masi e' nata a Roma nel 1927, intellettuale della
sinistra critica, di straordinaria lucidita', bibliotecaria nelle
biblioteche nazionali di Firenze, Roma e Milano, ha insegnato letteratura
cinese nell'Istituto Universitario Orientale di Napoli; ha vissuto a Pechino
e a Shangai, dove ha insegnato lingua italiana all'Istituto Universitario di
Lingue Straniere. Ha collaborato a numerose riviste, italiane e straniere,
tra cui "Quaderni rossi", "Quaderni piacentini", "Kursbuch", "Les temps
modernes". Tra le opere di Edoarda Masi: La contestazione cinese, Einaudi,
Torino 1968; Per la Cina, Mondadori, Milano 1978; Breve storia della Cina
contemporanea, Laterza, Bari 1979; Il libro da nascondere, Marietti, Casale
Monferrato 1985; Cento trame di capolavori della letteratura cinese,
Rizzoli, Milano 1991. Tra le sue traduzioni dal cinese in italiano: Cao
Xuequin, Il sogno della camera rossa, Utet, Torino 1964; una raccolta di
saggi di Lu Xun, La falsa liberta', Einaudi, Torino 1968; e Confucio, I
dialoghi, Rizzoli, Milano 1989]

Conoscere la morte significa sapere che la vita e' anche resistenza. la
resistenza richiede impegno e forza assai piu' della violenza. Nello stesso
tempo, e' l'antitesi della violenza.

6. RIFLESSIONE. ROBERTO CICCARELLI: "GUERRA AL TERRORISMO" E BARBARIE
GIURIDICA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 agosto 2005. Roberto Ciccarelli (Bari,
1973) svolge attivita' di ricerca presso l'Istituto Universitario Orientale
di Napoli; e' autore di vari saggi. Tra le sue pubblicazioni: con Marino
Centrone, Pensare la differenza, Levante, Bari 1999; (a cura di),
Inoperosita' della politica, DeriveApprodi, Roma 1999]

La guerra totale contro la pirateria del XXI secolo e' iniziata da tempo. In
Italia ce ne siamo accorti quando il Gip milanese Guido Salvini ha scritto
che il 17 febbraio 2003 almeno 13 agenti della Cia hanno rapito Abu Omar,
l'imam della moschea di via Quaranta a Milano, e lo hanno deportato in
Egitto. Nelle 105 pagine dell'ordinanza che chiede l'arresto per terrorismo
internazionale Salvini ne descrive almeno uno degli aspetti fondamentali. La
pratica del rapimento e della deportazione "nella giurisprudenza
anglo-americana - scrive Salvini - e' nota come forcible abduction, cioe'
prelevamento forzato". Tale pratica, continua Salvini, "consiste
nell'aggiramento delle procedure di estradizione quando essa non sia stata
chiesta o non sia possibile, mediante il diretto e violento prelevamento di
un soggetto nel territorio di uno Stato da parte di agenti, ufficiali o no,
dello Stato che effettua l'abduction e senza il consenso dello Stato che
ospita la persona".
Quello che in Italia abbiamo scoperto con il rapimento di Abu Omar (un ex
agente della Cia secondo il "Chicago Tribune"), e con la sua deportazione in
Egitto, dove si dice sia detenuto da due anni in condizioni disperate e, a
seguito di torture, abbia addirittura perso una parte della sua autonomia
motoria, negli Stati Uniti e' stato rivelato nel 2002 da due inchieste
apparse sul "Washington Post". Era il momento, ricorda Bruno Cartosio in
Piu' temuti che amati. Gli Stati Uniti nel nuovo secolo (Shake, pp. 220,
euro 16: del volume ha scritto su queste pagine Ferdinando Fasce il 17
luglio del 2005) in cui Dan Rather, l'autorevole giornalista televisivo
della Cbs, diceva: "Bush e' il presidente, vuole che mi allinei: mi dica
dove devo mettermi". Quella fu la prima, clamorosa, manifestazione del
consenso patriottico trasversale che univa i media di destra e liberal.
Scatto' anche un riflesso contrario: uno stillicidio quotidiano di
indiscrezioni e di memorandum segreti messi a disposizione della stampa da
una serie nutrita di gole profonde che, come sempre, si annidano nell'Fbi e
guardano di traverso l'operato della Cia, proprio come ai tempi del
Watergate.
*
L'ultimo memorandum di una lunga serie e' stato pubblicato su "Newsweek"
dell'8 agosto, vi si apprende che tre anni fa, il 27 novembre 2002, un
agente dell'Fbi avverti' i suoi superiori dell'esistenza di un programma
segreto che autorizzava il rapimento e la deportazione di sospetti
terroristi in paesi che praticano la tortura.
Dopo avere denunciato l'illegalita' di tecniche come quelle dell'uso dei
cani per intimorire i detenuti o dell'uso dell'acqua "per indurli
all'insensibilita'" (come e' accaduto ad Abu Grahib in Iraq), l'agente
discute il piano di deportazione dei detenuti in paesi come la Giordania o
l'Egitto per continuare gli interrogatori. "Lo scopo di questa categoria [la
"extraordinary rendition", "consegna straordinaria"] e' di utilizzare, fuori
dagli Stati Uniti, tecniche di interrogatorio che potrebbero violare [le
leggi degli Stati Uniti. Se commessi negli Stati Uniti, questi abusi
sarebbero in se' delle violazioni dello Statuto americano sulla tortura"
scrisse l'agente. Alla luce dei memorandum ad uso interno compilati tra il
2002 e il 2003 il timore di questo solerte funzionario risulta piu' reale
della realta' e parte di un piu' vasto programma di guerra peraltro
dichiarata apertamente dalla Casa Bianca.
Si era aperto cosi' un insospettabile fronte interno contro la guerra al
terrorismo nello stesso momento in cui sfilavano i grandi movimenti di massa
e Michael Moore, premiato con l'Oscar nel 2003 per Fahrenheit 9/11,
raccoglieva il dissenso tra gli stessi soldati al fronte in nome di un
"patriottismo repubblicano" contro le scelte della Casa Bianca (le lettere
inviategli sono raccolte oggi in Michael Moore, Ingannati e traditi. Lettere
dal fronte, Mondadori, pp. 220, euro 15).
*
Non e' stato facile per l'ex ministro della giustizia Ashcroft imporre la
categoria di "nemico combattente" al sistema penale americano. La prima
sentenza a lui favorevole fu quella della corte d'appello federale della
Virginia l'8 gennaio 2003. Nonostante la resistenza del collegio, Yasser
Esam Hamdi, l'americano-saudita catturato in Afghanistan dall'alleanza del
Nord, venne definito un "nemico combattente". Questa definizione di
"combattente nemico illegale" esprime due caratteristiche essenziali di tale
status: l'extraterritorialita' e l'agire contro le leggi di guerra. Il
potere d'accusa e' detenuto in maniera esclusiva dal Presidente degli Stati
Uniti e dall'inizio del 2002 e' stato usato decine di volte da Bush.
Alla fine del 2001, un piccolo gruppo di avvocati politicizzati del
Consiglio giuridico del Dipartimento della giustizia e dell'ufficio del
consigliere giuridico Alberto Gonzales (oggi ministro della giustizia)
sollecito' Bush con una serie di memorandum ad assumere delle misure per
aggirare la convenzione di Ginevra (la quarta, quella che garantisce un
processo giusto che impone una pena conforme all'ordinamento vigente).
Il memorandum dimostra tutto il suo interesse quando ripercorre la storia
della categoria di "nemico combattente". Questa definizione e' stata coniata
nel 1942 dalla Corte Suprema americana ed e' stata raccolta da Roosevelt in
una sua dichiarazione (la numero 2561): "Sono nemici combattenti quelle
persone che sono cittadini o residenti in ogni nazione in guerra con gli
Stati Uniti... Chiunque entri nel nostro territorio e compia atti di
sabotaggio, ostilita' o di guerra e viola la legge di guerra". Non e' piu'
necessario dunque che il nemico appartenga ad uno stato in guerra. La guerra
oggi si fa contro le "entita' non statali" e la dichiara esclusivamente il
presidente. Fino al 2002, questo potere e' stato usato solo due volte:
contro una squadra di sabotatori tedeschi sorpresi negli Usa durante la
seconda guerra mondiale e contro un italo-americano arruolatosi con i
fascisti per combattere gli americani sbarcati in Sicilia.
Dopo l'11 settembre questa accusa e' stata rivolta contro cittadini
americani (il caso piu' noto e' quello di Jose' Padilla) ed ha lo scopo di
slegare lo status di queste persone dall'appartenenza ad una nazione. Oggi
tutti i sospettati di terrorismo vengono considerati come delle "entita' non
statali" che bisogna affrontare senza ricorrere alle Convenzioni di Ginevra,
aggirando anche le procedure di estradizione firmate dagli Stati Uniti.
"Perche' e' cosi' difficile per la gente capire che esiste una categoria di
comportamenti che non vengono coperti dal sistema legale?", ha detto in una
recente intervista al "New Yorker" John Yoo, l'intellettuale conservatore a
cui molti attribuiscono la creazione della categoria di "combattente nemico
illegale". "Che cos'erano i pirati? Non combattevano per nessuna nazione. E
cos'erano i trafficanti di schiavi? Storicamente erano persone che agivano
al di fuori di ogni legge. Non esisteva alcun provvedimento specifico per
sottoporli a processo o metterli in una prigione. Se sei un combattente
illegale, non meriti la protezione delle leggi di guerra".
Yoo ha poi aggiunto anche che la Costituzione americana riconosce al
presidente il potere di superare la convenzione contro la tortura dell'Onu
quando si tratta della sicurezza nazionale. Anche il Congresso, ha
proseguito Yoo, "non puo' legare le mani del Presidente rispetto alla
tortura intesa come tecnica di interrogatorio dei sospetti di terrorismo".
"E' uno dei poteri principali del nostro comandante in capo. Il Congresso
non puo' vietare al Presidente di ordinare la tortura".
*
Il "prelevamento forzato" fu originariamente autorizzato da Bill Clinton per
contrastare la crescita della rete di Al Qaeda. Michael Scheuer era il capo
dell'Alec, l'unita' della Cia che dal 1996 si e' occupata direttamente di
bin Laden. Il suo lavoro consisteva nell'"investigare, sradicare e
smantellare" le operazioni terroristiche. Dal 1997, spiega nel suo libro
L'arroganza dell'Impero. Perche' l'Occidente perdera' la guerra al
terrorismo (Marco Tropea editore, pp. 382, euro 18,50), gli venne assegnato
l'incarico di procedere all'arresto di Bin Laden e degli affiliati alla rete
di Al Qaeda. Allora spuntarono i primi problemi.
Nel caso di arresto, infatti, e poi del processo, nessuna corte americana
avrebbe riconosciuto le circostanze "eccezionali" in cui l'azione sarebbe
avvenuta. Non solo, ma nessun governo straniero avrebbe autorizzato
un'operazione segreta targata Cia sul proprio territorio e comunque avrebbe
rinunciato a testimoniare in una corte americana per timore di ripercussioni
interne (si tratta pur sempre di paesi a maggioranza musulmana). "Stavamo
diventando dei voyeurs - ricorda Scheuer - Sapevamo dove si trovava questa
gente, ma non potevamo agire perche' non avremmo potuto portarli da nessuna
parte".
Dopo l'11 settembre, il numero dei rapimenti e' aumentato. Si calcola che
siano oltre cento le persone detenute in carceri come quelle di Guantanamo.
Scheuer mostra oggi piu' di qualche dubbio sull'uso della extraordinary
rendition: "Ci terremo per sempre queste persone? - si chiede Scheuer - Una
volta che hai violato i diritti fondamentali di queste persone non e' piu'
possibile reimmetterle in un procedimento penale e non si possono nemmeno
uccidere. Quello che abbiamo creato e' un incubo".
Un altro modo per braccare lo status virtuale di un terrorista nella notte
del diritto e' l'uso eterodosso di una legge del 1984, quella sui "testimoni
materiali" (Material Witness). L'estensione di questa legge risponde infatti
all'esigenza di definire il sospetto terrorista come "persona informata" di
un reato associativo di stampo terrorista. Il testo era stato elaborato per
contrastare il crimine organizzato, la mafia in primo luogo. Se un tribunale
ritiene che un individuo disponga di informazioni essenziali per un'indagine
su un'organizzazione criminale e con ogni probabilita' fuggira' sottraendosi
alla deposizione, puo' decidere di arrestarlo finche' non avra' reso la sua
testimonianza.
*
"Dopo l'11 settembre - si legge nel rapporto di Human Rights Watch
pubblicato a fine giugno in collaborazione con l'associazione americano in
difesa delle liberta' civili (American Civil Liberties Union, Aclu) - il
Dipartimento della giustizia ha usato deliberatamente questa legge in
un'ottica completamente diversa: per assicurare la detenzione illimitata di
coloro che considerava sospetti di attivita' terroristiche. Ha rifiutato di
rispettare i diritti fondamentali delle persone e la Costituzione che
riconosce ai detenuti il diritto della notifica delle accuse, il diritto ad
un avvocato, quello di visionare le prove e di essere in grado di contestare
l'accusa e le ragioni della  propria detenzione".
Questo rapporto di 101 pagine, intitolato "Testimoni di abuso: gli abusi sui
diritti dell'uomo nella legge sul testimone materiale dall'11 settembre",
compie una dettagliata ricognizione dell'impressionante documentazione
giornalistica prodotta negli ultimi quattro anni sui casi sino ad oggi
conosciuti. Ufficialmente sono almeno 70 i casi di detenzioni arbitrarie; 42
persone sono state rilasciate, 20 gli accusati di crimini non collegati ad
attivita' terroristiche, e due i "nemici combattenti" affidati al
Dipartimento della difesa. Salvo un'eccezione, tutti i detenuti sono di
confessione musulmana. "Molti non sono stati informati delle ragioni del
loro arresto - si legge nel rapporto -, non hanno avuto la possibilita' di
incontrare immediatamente un avvocato e non hanno l'autorizzazione a
visionare le prove a carico. I processi nei tribunali sono stati condotti in
segreto e tutti i documenti sono stati secretati... Numerosi testimoni
materiali sono stati arrestati e incarcerati con prove che non sarebbero
state mai sufficienti per giustificare una simile detenzione preventiva".
*
"Quando non esistono prove - precisa il rapporto - il Dipartimento della
giustizia prolunga semplicemente l'arresto fino a quando non sono piu'
d'alcuna utilita' e un giudice decida finalmente di liberarli".
I terroristi, o i sospetti tali, non sono "nemici", justi hostes, ma puri e
semplici criminali da perseguire al di fuori della convenzioni
internazionali e delle legislazioni penali vigenti. L'impegno degli
intellettuali conservatori ha oggi uno scopo: quello di normare il ricorso
alle leggi di emergenza utilizzando la Costituzione americana. La loro
intenzione e' di dimostrare come le linee direttive pseudo-legali impartite
dai due Patriot Act e dalla National Security Strategy pur aggirando
l'habeas corpus rispettino i principi costituzionali letti unilateralmente
in chiave di sicurezza nazionale.
Difficile pensare, come invece fa il giurista americano progressista Bruce
Ackerman (La Costituzione d'emergenza, Meltemi, pp. 96, euro 11. Per una
analisi puntuale delle sue tesi, il rinvio e' al testo di Giuseppe Bronzini
apparso su queste pagine il 6 luglio 2005), che il ricorso a norme
eccezionali da parte del presidente renda tali norme provvisorie e
circoscritte allo scopo della lotta al terrorismo. Contro un "nemico
assoluto", contro l'imprevedibilita' della sua minaccia, non sembra esistere
alcun vincolo esterno o interno, internazionale o costituzionale, che limiti
l'azione della "messa in sicurezza" di una societa' sotto attacco. Le
torture, i rapimenti e le deportazioni vengono cosi' intese come il "male
minore" rispetto all'immensita' di una minaccia tanto polivalente quanto
oscura.
*
Su questa base vanno uniformandosi anche le politiche europee
anti-terrorismo: il "pacchetto Pisanu" entrato in vigore il 2 agosto scorso,
oppure il piano in "dodici punti" presentato da Tony Blair il successivo 5
agosto. L'attenzione preferenziale alla gestione dell'immigrazione, e in
particolare alle espulsioni immediate di "predicatori di violenza" (l'Imam
Bakri, Abu Qatada "l'ambasciatore di Al Qaeda in Europa" e altre dieci
persone), alla carcerazione preventiva (sino a sei mesi) dei sospetti
terroristi, apre in Gran Bretagna, e in tutta Europa, uno scenario
"americano". Human Rights Watch cita infatti un rapporto del giugno 2003
circolato nel Dipartimento di Giustizia in cui si denunciava il trattamento
di 762 immigrati incarcerati illegalmente negli Stati Uniti nelle settimane
immediatamente successive all'11 Settembre. Aspettiamo la pubblicazione di
un altro rapporto sull'Europa. Non tardera'. Forse.
*
Postilla bibliografico-documentaria
Alla fine del 2002 un agente dell'Fbi distaccato a Guantanamo invia una mail
ad un collega lamentandosi delle "tattiche coercitive" adottate per ottenere
informazioni dai "nemici combattenti". Da allora il "New York Times",
"Newsweek", il "Whashington Post" e il "Wall Street Journal" hanno portato
alla luce una serie di memorandum che mostrano come gli avvocati
dell'amministrazione Bush Jr. hanno cercato di occultare la rilevanza penale
di questi maltrattamenti e di queste torture (la storia di queste inchieste
e' sul sito www.nytimes.com/ref/international/24MEMO-GUIDE.html).
Fondamentale per un'inchiesta sul programma segreto dei "prelevamenti
forzati" e' la documentazione raccolta nel rapporto "Witness To Abuse. Human
Rights Abuses under the Material Witness Law since September 11" pubblicato
da Human Rights Watch (hrw.org/reports/2005/us0605/).
Per conoscere le politiche americane contro il terrorismo si possono leggere
Michael Scheuer, L'arroganza dell'Impero. Perche' l'Occidente perdera' la
guerra al terrorismo (Marco Tropea); Richard A. Clarke, Contro tutti i
nemici (Longanesi); Robert Baer, Dormire con il diavolo. Come Washington ha
venduto l'anima per il petrolio dell'Arabia Saudita (Piemme). Per avere
un'idea del retroterra di questa storia va letto il libro di Steve Coll, uno
dei direttori del "Whashington Post", La guerra segreta della Cia (Rizzoli).
Una ricognizione sul clima politico, e giuridico, degli Usa post 11
settembre sta in Bruno Cartosio, Piu' temuti che amati. Gli Stati Uniti nel
nuovo secolo (Shake); Bruce Ackerman, La Costituzione d'emergenza (Meltemi);
Noam Chomsky, Egemonia o sopravvivenza. I rischi del dominio globale
americano (Marco Tropea), e Michael Moore Ingannati e traditi. Lettere dal
fronte (Mondadori).

7. LETTURE. HEINRICH BOELL: PRIGIONIERO A PARIGI E ALTRI RACCONTI
Heinrich Boell, Prigioniero a Parigi e altri racconti, Mondadori, Milano
2005, pp. 176, euro 7,40. Una recente raccolta postuma di racconti e versi
del 1946-'47 restati inediti. Ma di Boell (1917-1985, uno dei nostri piu'
grandi e piu' amati maestri) bisogna ovviamente aver letto le opere
maggiori; e non solo i folgoranti racconti, alcuni romanzi indimenticabili,
ma anche l'opera saggistica (tuttora scarsamente tradotta in italiano) di
militante - morale, quindi politico - contro ogni oppressione e contro ogni
menzogna, e innanzitutto contro la guerra, infamia delle infamie e crimine
dei crimini.

8. LETTURE. MARIO LANCISI: NO ALLA GUERRA!
Mario Lancisi, No alla guerra!, Piemme, Casale Monferrato (Al) 2005, pp.
208, euro 12,50. Ancora un bel saggio di Mario Lancisi, benemerito studioso
milaniano, su "L'obbedienza non e' piu' una virtu' di don Lorenzo Milani e
il movimento per la pace e la nonviolenza"; arricchiscono il libro una serie
di interviste a (e testimonianze di) Massimo Cacciari, Loris Capovilla,
Franco Cardini, Giancarlo Caselli, Luigi Ciotti, Tonio Dell'Olio, Fabrizio
Fabbrini, Francesco Gesualdi, Michele Gesualdi, Gad Lerner, Pietro Pinna,
Adriano Sofri, Gino Strada, Alex Zanotelli, chiamati da Lancisi a raccontare
del loro incontro con l'opera e la figura (e in alcuni casi la viva persona
nella plenitudine della condivisione di un tratto del cammino della vita)
del priore di Barbiana; con una pagina conclusiva di  Tiziano Terzani, e
alcune proposte di iniziativa.

9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

10. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1035 del 27 agosto 2005

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