La domenica della nonviolenza. 36



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 36 del 28 agosto 2005

In questo numero:
1. Margarete Durst: Mondo e mondi nella riflessione di Hannah Arendt
2. Marcello Cini: Idee per una vita sostenibile

1. RIFLESSIONE. MARGARETE DURST: MONDO E MONDI NELLA RIFLESSIONE DI HANNAH
ARENDT
[Dalla rivista on-line di critica filosofica "Kainos", n. 3/2003 (sito:
www.kainos.it) riprendiamo il seguente saggio di Margarete Durst.
Margarete Durst e' docente universitaria e saggista; tra i suoi temi di
ricerca degli ultimi anni: affettivita' e cognizione: paradigma dialogico e
comunicazione empatica; genealogie e generazioni nelle filosofie della
differenza di area femminista; e' autrice di numerosi saggi pubblicati in
volume e in rivista. Ha scritto del suo lavoro: "I miei studi si polarizzano
su due indirizzi tra loro convergenti: uno teoretico-epistemologico e uno
storiografico, entrambi caratterizzati da una spiccata apertura al rapporto
interdisciplinare tra filosofia e scienze umane, in particolare
psicologia/psicoanalisi. Per quanto riguarda la prima direttrice mi sono
concentrata soprattutto sull'interazione tra le forme della razionalita' e
quelle dell'affettivita', con particolare riferimento ai concetti di
narcisismo e di empatia, che sono alla base della comunicazione tacita e
degli assetti motivazionali profondi. Lungo la seconda direttrice ho
affrontato alcuni aspetti problematici della filosofia itialiana del
Novecento, inerenti in particolare all'attualismo gentiliano e ai suoi
sviluppi in alcuni seguaci di Gentile, in particolare in Guido Calogero. Il
mio interesse per l'interazione tra le forme della razionalita' e
dell'affettivita' e per l'incidenza che essa ha sul piano cognitivo,
motivazionale e relazionale, mi ha portato ad analizzare - avvalendomi dei
miei studi di area psicologico-psicoanalitica - gli aspetti dell'ideazione
creativa, dell'euristica scientifica e dell'orientamento etico-valoriale.
Sugli stessi temi mi sono inoltre confrontata con gli apporti teorici
provenienti dall'area femminista, anche indagando il piu' ampio territorio
dell'attivita' filosofica al femminile sotto il profilo sia epistemologico
che storiografico". Tra le opere di Margarete Durst: Dialettica e Bi-logica.
L'epistemologia di Ignacio Matte Blanco, Marzorati, Milano 1988; Gentile e
la filosofia nell'Enciclopedia italiana. L'idea e la regola, Pellicani,
Roma, 1998; Guido Calogerero. Dialogo, educazione, democrazia, Seam, Roma
2002.
Hannah Arendt e' nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva
di Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe
all'esilio, dapprima e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le
massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne
ripetutamente sulle questioni di attualita' da un punto di vista
rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori' a New York nel
1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti
tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l
'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione
originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951),
Comunita', Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen
(1959), Il Saggiatore, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti,
Milano; La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli,
Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita', Milano; postumo e incompiuto e'
apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di
brevi saggi di intervento politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano,
1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969.
Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra
amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975,
Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e' Archivio
Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2.
1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilita'
e giudizio, Einaudi, Torino 2004. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e' la
biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri,
Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt,
Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah
Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah
Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della
polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt,
Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su
Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah
Arendt, Giuntina, Firenze 2001. Per chi legge il tedesco due piacevoli
monografie divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono:
Wolfgang Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999;
Ingeborg Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000]

Che il mondo costituisca una categoria portante del pensiero di Arendt
risulta innanzitutto dagli scritti dell'autrice, in cui il termine assume
una rilevanza problematica estremamente significativa, dalla prima opera, la
tesi di dottorato su Il concetto d'amore in Agostino (1), all'ultima, La
vita della mente (2), edita postuma. Nel primo lavoro si attribuisce al
filosofo, uno dei piu' citati da Arendt, un dislocamento dell'amore dal
mondo a Dio e, di conseguenza, un disinvestimento d'interesse dalla terra,
abitata dalla pluralita' degli uomini, alla citta' celeste: la nuova
Gerusalemme. Nel secondo testo - avviato tanti anni dopo, con alle spalle,
oltre a un lungo e complesso itinerario di ricerca attraverso aree
disciplinari diverse (sempre limitrofe a quella filosofica), un'intensa
attivita' di pubblicista su questioni di forte attualita', accompagnata in
alcuni casi da un personale impegno pratico - il mondo, nel puntellare le
due parti compiute dedicate al pensiero e alla volonta', si configura in
maniera assai piu' articolata, rivelando una forte tensione alla
differenziazione. Young Bruehl ha sintetizzato questo percorso nel bel
titolo della sua biografia di Arendt, Per amore del mondo (3), che mi sembra
colga la continuita' di una riflessione tanto sfaccettata quale quella
arendtiana nel nucleo problematico del testo giovanile. Nucleo centrato su
quella che, anni dopo, la stessa Arendt ha chiamato la "passione di
pensare", cioe' sulla sete di significato, di senso, che non si soddisfa
delle risposte parcellizzate e di settore, e che l'autrice indirizza al
mondo quale dimora della pluralita' umana.
*
Va osservato che Remo Bodei nel suo libro su Agostino, Ordo amoris (4), nel
sottolineare la dimensione di universalita' che, nella prospettiva
agostiniana, acquista l'amore umano per contagio da quello divino, collega
un simile ampliamento di orizzonte non al distacco dal mondo, come fa
Arendt, bensi' a una ricomprensione innovativa dello stesso, tale da
rendercelo trasfigurato.
Temi, questi ultimi, che ritroviamo nei testi arendtiani ma collegati al
potere che hanno l'arte, la storia e la narrazione di edificare e di salvare
il mondo attingendo alla forza innovativa della natalita'. L'arte in
particolare, pur essendo al pari della storia e della narrazione "cosa di
pensiero" (5), pertanto aleatoria e fragile, mostra una "permanenza" che le
permette di rendere "trasparente la stabilita' del mondo" (6), e questa
capacita' e' indice di un aggancio estremamente intenso alle potenzialita'
creative offerte ad ogni uomo e donna da una dote tanto preziosa quanto
fragile quale e' la nascita. La natalita' e' appunto la forza creativa che
si trae dalla nascita, cioe' dal fatto elementare che si viene messi al
mondo da altri e che tale immissione, nell'introdurre nel mondo un
cambiamento irreversibile, offre ad ogni essere umano un potenziale
innovativo che sta a ciascuno/a di noi sfruttare allorche' ci si trova a
misurarsi con il mondo ricevuto in eredita' da altri (7). Nel rapporto tutto
immanente che l'uomo ha con il mondo si profila dunque una forma di
emergenza, si puo' dire di trascendenza assumendo il termine, come fa anche
la nostra autrice, nel senso, tipico della tradizione esistenzialista, di
apertura ad un'alterita' sempre mondana che dispone alla progettualita' e
all'esercizio della liberta' attraverso la scelta. Dove decidersi ed agire
significa esercitare la capacita' di pensare, cioe' di sapere cosa si sta
facendo.
*
Il mondo, come per intero la condizione umana, e' dunque segnato dalla
contingenza ed esposto al rischio dell'annullamento e della perdita proprio
perche' esiste, perche' e' una realta' fattuale e non gode di alcuna
assolutezza.
L'impatto della vita umana con il mondo risulta per tale verso strutturale e
il concetto di mondo acquista per tale via un fondamentale tratto
umanistico, senza che per questo l'essere umano venga investito di funzioni
prometeiche o demiurgiche. Infatti il mondo e' qualcosa che non si puo'
pensare di forgiare a proprio piacimento perche' lo si riceve in eredita'
con la nascita e come ogni eredita' richiede un'accoglienza e un
riconoscimento, cioe' una ricezione, le cui componenti passive non possono
essere ignorate, pena il misconoscimento della stessa condizione umana. Come
ogni ricezione anche questa non e', pero', mai del tutto passiva, anche nel
caso che non s'intenda fare fruttificare tale eredita' investendola in un
progetto d'azione per la salvaguardia e il rinnovamento del mondo ricevuto
in consegna.
Per altro verso anche il mondo si trova a dover accogliere e riconoscere il
nuovo che ogni essere umano, nascendo, introduce in esso, e che puo'
diversamente esprimersi a seconda delle modalita' in cui si viene accolti e
riconosciuti. Questa spiccata coloritura umanistica nell'assimilare il mondo
alla comunita' umana non pretende ignorare la componente naturale, quindi
animale, della vita umana, ma sottolinea come uomini e donne si
caratterizzano quali esseri biologici che "abitano la terra" forgiando
strumenti, elaborando tecniche, ideando progetti operativi e mettendoli in
pratica, in sintesi: trasformando il mondo in una dimora dove poter vivere
in base alla loro idea di vita nel mondo. Da qui anche lo scarto tra mondo
dato e mondo immaginato suscettibile di tradursi in conflitto tra diverse
idee di mondo e tra diversi mondi dati.
*
In questo approccio arendtiano al mondo, oltre che all'eco del pensiero
heideggeriano (su cui mi soffermero' piu' avanti), avverto delle risonanze
agostiniane legate soprattutto alla complessita' del nesso tra mondo dato e
mondo immaginato. Mondo, in questo secondo caso, del pensiero e del cuore (o
dell'anima intesa come sede degli affetti) perche' ideato e desiderato,
sempre pero' a partire da una situazione data che si pensa e vuole
"diversa". Rispetto ad Agostino rimane comunque la differenza che i mondi di
cui parla Arendt sono comunque terreni, "mondi di questo mondo", edificati,
immaginati, salvati da esseri umani in grado di agire e pensare in quanto le
loro vite hanno un inizio e una fine, e potranno quindi durare, al di la'
della morte, esclusivamente nel ricordo delle generazioni future.
Laura Boella, esaminando il rapporto di Arendt con Agostino, insiste molto,
e a ragione, su questo iato (8), ma ritengo che tale legame vada
ulteriormente indagato perche' - posto che per la filosofa, negatrice di
ogni dualismo, il mondo e' interamente dell'apparenza - il potere di pensare
un mondo diverso implica una capacita' trasfigurativa nei confronti del
mondo quale appare che postula un'esperienza di mondanita' "altra". In altri
termini, il carattere della mondanita' che e' costitutivo della condizione
umana, come si dimostra ne La condizione umana. Vita activa (tappa
fondamentale del discorso arendtiano sul mondo), risulta controverso per lo
scarto, gia' messo in luce, tra la datita' del mondo e i mondi possibili che
prospettano situazioni di vita diverse: non esperite ma esperibili, non
pensate ma pensabili.
D'altronde chi, come Arendt, ritiene che per dire di conoscere la giustizia
e il bene bisogna essersi imbattuti in almeno una persona giusta e buona, e
che per dire di amare l'umanita' occorre amare almeno una persona (9), non
e' possibile scindere pensiero ed esperienza, tanto piu' quando in questione
e' il mondo, cioe' una precondizione sia dell'uno che dell'altra.
*
Ci troviamo cosi' di fronte al paradosso di un mondo che e' e non e' per
intero il mondo che appare, e tale paradosso emerge dal contesto stesso
della condizione umana, i cui caratteri costitutivi si richiamano l'un
l'altro e trovano senso nel rapporto reciproco, investendo gli uomini e le
donne che abitano la terra di una problematicita' non risolvibile sul piano
meramente logico. L'individualita' plurale costitutiva di ogni essere umano
si riflette cosi' nell'unita'-molteplicita' del mondo, di cui e' segno
immediato il polimorfismo della terra (ispiratore di pagine divenute famose
de La vita della mente) (10), la varieta' delle situazioni storiche, degli
assetti sociali, dei modi della produzione, delle tradizioni culturali e
delle tipologie dell'azione e del discorso.
Il mondo quale terra abitata dagli uomini e' dunque prolifico di pluralita'
e, da qui, di diversita'; quella diversita' che da' al mondo la chance di
rinnovarsi e di durare, salvandosi dal dissolvimento cui lo esporrebbe tanto
la mera ripetizione quanto l'innovazione ad oltranza.
La pluralita', in tal senso, salvaguarda il mondo dalla distruzione perche'
e' comunque indicativa di una relazione che mette al riparo dalla caduta
nell'identico, nell'unicita' dell'uguale, in cui Arendt intravede sempre lo
spettro del totalitarismo. L'annullamento della distanza, che con la
vicinanza e' garanzia di ogni relazione, espone infatti l'essere umano - per
costituzione individuo al plurale - al pericolo della perdita di mondo (11),
che avanza nelle societa' contemporanee tramite l'omologazione indotta dai
comportamenti improntati al "si" conformistico (si dice, si fa, si pensa).
Proprio in quanto interrelata, la pluralita' impegna invece ad articolare i
rapporti e ad esercitare la pratica della disgiunzione e dell'associazione
per intessere trame connettive tra i vari mondi dell'universale mondo umano,
in grado di contrastare tanto le spinte centrifughe di tipo dissipativo, che
piu' espongono alla frammentazione, quanto le spinte centripete che sfociano
in assimilazioni agglutinanti delle diversita'.
*
Diversita' di mondi, dunque, che hanno bisogno, per essere riconosciuti come
mondi umani, di rimanere agganciati al mondo quale dimora dell'universale
comunita' umana. L'individualita'-plurale marca pertanto anche il mondo,
estromettendolo da qualsivoglia prospettiva ontologica e metafisica in cui
si adombri un'entita' per se' sussistente. Il mondo umano non e', inoltre,
parto di un Pensiero, Logos, Spirito, Idea o Ragione che dir si voglia, ma
ha le sue radici nella disposizione ad essere affetti, a provare, a sentire,
in una relazione d'alterita' pre-intenzionale di matrice corporea che ci
accomuna all'animalita', propria della vita come "zoe", manifestandosi in
noi in vita come "bios", intenzionalmente orientata (12).
Da qui il distacco, al di la' delle molteplici affinita', tra la concezione
del mondo di Arendt e quella di Heidegger. Distacco in cui gioca un ruolo
anche la riflessione condotta dalla prima sui testi dedicati da
Merleau-Ponty alla percezione, che sono alla base di una filosofia della
corporeita' ancora da svolgere ma indubbiamente centrata sul rapporto
uomo-mondo.
Diversa e' la valorizzazione del prelogico operata, sulla scia di Dilthey e
della sua filosofia della vita, da Heidegger, in quanto e' connessa
all'interazione tra precomprensione e comprensione che risulta meno centrata
sulla relazione uomo-mondo di quanto non appaia la valorizzazione arendtiana
della corporeita' sensibile-affettiva. E' comunque indubbio che anche
Heidegger riconosce al mondo una funzione di perno della condizione umana,
inoltre egli si rifa', al pari di Arendt, alla tradizione filosofica
kantiana che tende a riferire il termine fondamentalmente alla sintesi e
alla rappresentazione della totalita' delle cose finite. Determinante
rimane, pero', per lui lo sfondo di riferimento all'ente in quanto tale che
costituisce il tutto come l'oltre, che e' al di la' di ogni visione mondana.
Anche l'immagine heideggeriana di mondo quale "dispiegarsi della contrada",
che differendo dal mondo come orizzonte dei fenomeni apre lo spazio
dell'incontro, non riguarda l'incontro interumano, che piu' interessa ad
Arendt, bensi' quello con l'ente che trascende l'esperienza fenomenologica
del mondo legata alla rappresentazione; esperienza che per la nostra autrice
e' intrascendibile.
L'antica allieva di Heidegger pensa al mondo in termini segnatamente
umanistici, comunitari e politici e questo suo modo d'intendere il mondo, in
cui si avvertono echi agostiniani, e' associabile alla concezione espressa
da Kant nell'Antropologia dal punto di vista pragmatico, opera che proprio
per il fatto di non rientrare nell'ambito del trascendentale a priori, e di
essere pertanto poco concettuale e sistematica, e' stata sottovalutata dalla
tradizione filosofica novecentesca. Sempre a Kant, va inoltre collegata la
sua idea che il rapporto con il mondo postula l'arte del pensiero, ed in
specie quella capacita' di assumere diversi punti di vista che distingue chi
sa pensare in maniera allargata. Tale capacita' costituisce in politica una
virtu' epistemica ed e' quindi indispensabile a orientare la volonta' verso
azioni in grado di modificare l'ordine dato delle cose.
*
Va inoltre notato come la tripartizione dell'ente elaborata da Heidegger in
base all'analisi delle principali tappe della storia del concetto di mondo,
scandita sul materiale (la pietra) senza mondo (weltlos), l'animale povero
di mondo (weltarm), e l'uomo formatore di un mondo (weltbildend) (13),
riecheggia in tanti testi arendtiani, in particolare ne La condizione umana
e ne La vita della mente, deprivata dello spessore ontico che le riconosce
il filosofo. Ho trovato conforto alla tesi che nel mutuare gran parte della
terminologia heideggeriana, Arendt costruisca un discorso proprio sul mondo,
nel recente saggio l'Interpretazione neoparmenidea del concetto di mondo in
Heidegger cui faccio qui riferimento (14). Infatti, nel rimarcare come il
criterio discriminante di tale tripartizione ruoti intorno alla categoria di
vita e alla diversita' tra la dimensione del senza vita e quella della
vitalita' del vivente sia irrazionale che razionale, l'autore sottolinea il
ruolo fondante che "l'ente in quanto ente" ha nei confronti del mondo; dove
invece per Arendt non ha senso parlare di "ente in quanto ente", estraneo
all'orizzonte delle rappresentazioni fenomeniche. Il discorso heideggeriano
sia sul mondo come accessibilita' dell'ente, che sull'avere mondo come il
riferirsi, o il tenersi in rapporto, all'ente che si rende accessibile,
presuppone un "ente in totale" assente dalla riflessione arendtiana, sempre
centrata sulla pluralita' degli enti, cioe' degli esseri umani la cui dimora
e' la terra. D'altronde, se per accettare che il mondo e' l'"essere patente
dell'ente di volta in volta effettivamente aperto (offenbar), ossia
dell'ente che puo' diventare palese in un'evidenza che accade con l'ente
stesso" (15), declinassimo al plurale l'ente, snatureremmo l'approccio di
Heidegger al mondo, basato sull'asserto che "nell'evidenza dell'ente in
quanto tale in totale si fonda l'accessibilita' dell'ente in quanto tale"
(16).
*
Mentre Heidegger (che per Arendt resta sempre prototipo del filosofo puro)
parla del mondo in relazione ad una struttura ontologica determinata dalla
differenza tra essere ed ente, il che motiva quel differenziarsi nell'unita'
che egli chiama esserci in cui si mantiene l'unita' del tutto, Arendt non
menziona il tutto, in quanto attribuisce alla totalita' un significato
critico in senso negativo. Dove per Heidegger e' l'ente nella sua
totalita' - l'ente nel suo insieme (das Seiende im Ganzen) - all'origine
dell'esserci, in quanto da li' muove quell'oltrepassamento del tutto che
produce un mondo, per Arendt ogni origine e' legata all'esserci, cioe'
all'individualita' plurale; che significa alla pluralita' degli esseri umani
uniti da vincoli di similitudine e di differenza innestati nella portata di
evento che ha il fatto della nascita. Fatto che assurge ad evento per la
ri-configurazione del mondo che esso comporta da parte, innanzitutto, della
comunita' umana, che nel riconoscerlo se ne fa carico, quindi del/la nuovo/a
venuto/a che se ne riappropria, allorche' con il discorso e l'azione mette
al mondo se stesso manifestandosi come un nuovo "chi". Con questo termine
Arendt indica l'emergenza dell'individualita' plurale che ha saputo trarre
forza dalla vita ricevuta da altri, per affermarsi sulla scena mondana (17).
Per tale via "il chi" prospetta, a quanti lo ascoltano e assistono alla sua
azione, una capacita' d'intervento sul mondo che trasforma quegli spettatori
in testimoni di un evento, cioe' di un fatto che modifica l'ordine dato
delle cose, tanto da indurli a rendersene partecipi con azione e discorso
propri.
Si puo' allora parlare di una vivificazione, o di una rimessa in circolo,
delle caratteristiche salienti della condizione umana indotta per un
contagio di umanita' mutuato per via sensibile e affettiva, quindi
innanzitutto corporea. Chiunque subisce tale contagio e' stimolato ad
esprimersi davanti agli altri e a rivelare, "sulla scena del mondo",
l'identita' che ha saputo far fruttificare dalla ramificazione di relazioni
umane, avuta in sorte. Si profilano in tal modo molteplici immagini,
rappresentazioni e idee diverse di mondo: quella interiorizzata dal "chi",
quella che questi manifesta a se' e agli altri scoprendo aspetti della
propria identita' inaspettati, quella che risulta dai processi di
memorizzazione degli spettatori resisi testimoni, quella consegnata dalla
narrazione alla storia, quella innestata sull'elaborazione artistica
dell'evento. Ognuna di queste "visioni" di mondo puo', a sua volta,
stimolare un'attivita' immaginativa e ideativa in quanti/e ne subiscono
l'impatto, cosi' da far scattare un corto circuito nella disaffezione da
mondo, cui rende avvezzi l'anonimia delle societa' omologate.
*
Il mondo ha dunque a che fare anche con la meraviglia e lo stupore che
animano il pensiero e volgono alla filosofia, tant'e' che sia l'una che
l'altro ci dischiudono mondi in cui si desidera immettersi e addentrarsi per
scoprirne sempre nuovi aspetti. L'amore di mondo che circola nei testi di
Arendt e' pertanto multiforme, ma non traligna mai in brama di possesso ne'
in gelosia patologica, perche' muove dal paradosso vitale
dell'individualita' plurale che esclude la riduzione all'uno della comunita'
umana.
Non c'e' in Arendt alcun idea di umanita' e di mondo come un tutto assoluto,
un'interezza totale, come non c'e' l'idea di un entita' sopramondana cui, in
qualche modo, si riallacci l'esistenza del mondo. La contingenza fa del
mondo una cosa fragile, che di conseguenza richiede cura, ma il mondo sa
convertire tale fragilita' in forza quanto piu' non ha pretese totalizzanti
e assolutistiche, o non declina le proprie responsabilita' nei confronti
della sua stessa tutela - che significa tutela della condizione umana -
appellandosi alla perdita di un supposto fondamento originario.
In linea con questa impostazione, si puo' convenire con Heidegger quando
dice che e' l'esserci dell'uomo a formare il mondo e che la formazione del
mondo (die Weltbildung) accade nell'uomo tramite la struttura relazionale
(das Gefuege der Beziehung) propria dell'als (in quanto), successiva
all'evidenza dell'ente (18). Sempre pero' se si mantiene fermo che non
l'ente, o l'uomo al singolare, abita la terra, ma la pluralita' degli
uomini: enti finiti che vivono nel "fra", nello "Zwischen-sein",
nell'"in-between", cioe' in un luogo mai pienamente localizzabile, cui si
attaglia l'"in quanto" heideggeriano che sottolinea il peso della situazione
e, nel contempo, la crucialita', per la costituzione di un mondo, dell'atto
della scelta. Cosi' si puo' convenire con Heidegger quando collega il costit
uirsi del mondo alla progettualita' umana e all'atto, umano, di
frantumazione di un tutto indifferenziato, che nella riflessione di Arendt
corrisponde al totalitarismo.
Da rimarcare e' anche la convergenza di Arendt con l'idea heideggeriana che
il mondo costituisca l'insieme delle possibilita' in cui l'essere umano
esiste, per cui un mondo rappresenta un modello di possibili relazioni, un
sistema, una struttura referenziale.
Tutte queste convergenze ed assonanze non incidono, pero', su quella
distinzione pregiudiziale determinata dal riferimento o meno all'ente in
quanto tale, che, in un caso, allontanandoci dalla terra, fa dell'esserci
una deiezione e, nell'altro, radica gli esseri umani nella terra anche
quando la trasvolano librandosi nel cosmo.
Non a caso per Heidegger il rapporto determinante della terra e' con la
natura, non con il mondo, e con una "natura come tale", diversa da quella -
"svelata" - che appare all'essere umano. La terra infatti e' la natura che
l'esserci incontra all'interno del mondo, mentre la natura "come tale" non
e' intramondana (19), benche sia sempre presupposta come presente sullo
sfondo di quella mondana. Il rapporto tra terra e mondo finisce cosi' per
regolarsi in base all'andamento di quello della terra con la "natura in
quanto tale", inclinando di volta in volta o verso l'opposizione, o verso
l'apertura conflittuale, o verso il sostegno reciproco. In ogni caso c'e'
una disgiunzione tra terra e mondo che per Arendt e' lesiva della condizione
umana.
*
L'idea di mondo di Arendt affonda dunque le sue radici nella condizione
umana che ci fa tutti individui al plurale, in quanto esseri che vengono
messi al mondo con la nascita e che prima di lasciare il mondo con la morte
abitano il mondo, cercando di renderlo una dimora adeguata ai loro bisogni e
ai loro desideri, per consegnarlo quindi ai nuovi venuti che essi hanno il
compito di educare cosi' da permettergli di "rimetterlo in sesto" a modo
loro (20). Infatti, la tradizione non puo' pretendere di esercitare un ruolo
di dominio perche', inframezzata com'e' da tante fratture, non funge piu' da
cerniera tra una generazione e l'altra; per cui "i nuovi" (cosi' Arendt,
mutuando l'uso dal latino, chiama i giovani che entrano nell'eta' adulta),
attingendo a frammenti significativi di passato, possono trasformare il
presente avviando nuovi inizi. Lo scarto tra mondo dato e mondo immaginato
influenza dunque anche il rapporto con la tradizione e il legame tra le
diverse generazioni, valorizzandone le componenti di discontinuita'.
Analogamente a quanto accade in Kant, l'idea arendtiana di mondo scaturisce
dal fenomenico e lo oltrepassa sempre per riferirsi ad esso, per cui si puo'
dire che trascende il mondo dato solo in quanto la sua stessa idealita' le
conferisce un'autonomia rispetto alle effettive situazioni mondane.
Autonomia che e' propria del pensiero che fa sorgere la domanda: dove si sta
quando si pensa?, visto che ci si astrae dal corpo, dal tempo e dallo
spazio, che pure sono coordinate strutturali della condizione umana. Ma
anche l'anomalo mondo del pensiero, per quanto possa librarsi al di la' del
tempo e dello spazio, e' parte del mondo umano perche' tale congiunzione e'
inscritta nella condizione umana la cui intrinseca paradossalita' ci induce
sempre di nuovo a ri-pensare il mondo.
*
Da quanto detto consegue che, per parlare di mondo nel senso arendtiano del
termine, deve essere tutelata la condizione umana nella sua interezza,
quindi ognuna delle sue caratteristiche salienti: nascita, terra, morte,
pensiero, azione e discorso. Queste caratteristiche attengono ad ogni
individuo al plurale e un mondo che si arroga il diritto di mortificarle,
anche in un solo essere umano, non puo' chiamarsi mondo perche' infrange le
radici stesse della convivenza umana (21). Mondi che innalzano delle
barriere contro uomini e donne per estrometterli dalla comune appartenenza
umana sono solo dei sistemi di vita mortiferi, cui occorre contrapporre
l'immagine di un mondo diverso, in grado di far proliferare piu' mondi,
intesi quali differenti sistemi di vita accomunati dalla tutela della
condizione umana. L'immagine di un simile mondo non scaturisce dal nulla,
ne' germina da sola, pur quando sembra emergere dalla fantasia solitaria di
un singolo isolato dai rapporti sociali. In tutta una trama di frammenti di
mondi dissolti nel lungo corso della storia si riflette un'immagine
dell'universale mondo umano che ha il potere di stupire, affascinandolo,
chiunque si trovi a vederne anche un piccolo tassello.
*
Anche l'iter della biografia di Rahel Varnhagen, scritta da Arendt in eta'
giovanile e edita molti anni dopo, puo' esemplificare il complesso percorso
con cui la nostra autrice articola la sua concezione di mondo,
caratterizzandola in senso via via piu' politico, cioe' comunitario e
pubblico ma, nel contempo, sottolineandone la fragilita' e l'esposizione
alla rovina. Alla luce del fatto del totalitarismo, Arendt opera infatti una
storicizzazione del caso Rahel che la porta a collegare il destino di questa
donna alla sua incapacita' di giudicare il mondo considerandolo da diversi
punti di vista; segno questo di una mancanza di visione politica i cui
effetti tragici assumeranno portata universale nel XX secolo.
L'introspezione romantica tipica delle donne dei salotti mondani e' in tal
senso corresponsabile, per la sua tendenza ad estraniare dal politico, della
perdita o mancanza di mondo di cui la stessa Rahel e' vittima. Infatti,
tentando di contrastare l'esistenza impostale dalla sua ebraicita' con le
strategie tipiche della societa' del tempo (in cui il riconoscimento di una
donna passava attraverso il matrimonio) ella si vota all'insuccesso.
Come osserva S. Benhabib, dandosi all'uomo giusto Rahel sperava di ottenere
il "mondo" che le era negato come ebrea e come donna, ma "dove" stava il
mondo e da "chi" era composto? (22). Per rispondere a tale domanda Rahel
avrebbe dovuto esercitare quella capacita' di pensare con mente allargata
che dispone al giudizio e al giudizio politico. In questo modo avrebbe
potuto cogliere lo scarto tra il mondo umano e l'illusorio mondo dei salotti
mondani prima di patirlo sulla propria pelle; avrebbe cioe' capito che solo
il fragile spazio di apparenze che tiene unita l'universale comunita' umana
puo' dirsi propriamente mondo.
*
In controtendenza con la tradizione filosofica in cui si era formata, Arendt
assume il paradosso del mondo come uno stimolo per il pensiero e coglie
anche nell'affanno con cui uomini e donne cercano di affermarsi nel mondo,
con il seme di un autentico bisogno di appartenenza, il segno di un amore di
mondo che ha bisogno di esprimersi nel mondo stesso, altrimenti finisce con
l'alienarsi in mondi fittizi o con l'incapsularsi nell'io; leggiamo infatti:
"l'alienazione del mondo moderno - la sua duplice fuga dalla terra
all'universo e dal mondo all'io" (23). Questa prospettiva conduce la nostra
autrice ad assumere un atteggiamento critico verso alcuni comportamenti e
preferenze del mondo moderno ed in specie delle societa' contemporanee,
quali per un verso quella al narcisismo (fenomenologia psichica di cui non
coglie, accomunata in questo alla scuola di Francoforte, con l'eccezione di
Marcuse, il lato vitale e creativo) (24) e, per altro verso, quella al
sapere tecnologico altamente specialistico. Cio' puo' insinuare nella
riflessione arendtiana sul mondo, spesso modulata sui toni di un umanesimo
forte e talvolta audace, delle tonalita' malinconiche e nostalgiche (25).
Ma, a mio avviso, si tratta di coloriture che controbilanciano la visione di
un uomo "weltbildend", edificatore di un mondo, e che riconducono l'eroismo
dei personaggi omerici alla vita quotidiana, i cui protagonisti sono gli
uomini e le donne anonimi.
*
Arendt infatti guarda il mondo sia con occhio disincantato sia con occhio
rapito dallo stupore, e sfruttando questo sguardo duplice, opera una
continua rimessa a fuoco del mondo; si pone cosi' al riparo dal pericolo,
per inseguire visioni ideologizzate di mondo, di non vedere i fatti che
accadono sotto gli occhi di tutti. Quei fatti - per il buon senso innegabili
ma che l'intellettuale puo' illudersi o far finta di non vedere - che ci
costringono a rivedere i nostri sistemi teorici e ci ancorano al mondo:
dimora dell'universale comunita' umana.
*
Note
1. H. Arendt, Der Liebesbegriff bei Augustin. Versuch einer philosophischen
Intepretation, Springer, Berlin 1929; tr. it. di L. Boella, Il concetto
d'amore in Agostino, Milano, 1992 (cfr., tra gli studi recenti, L. Savarino,
"Quaestio mihi factus sum". Una lettura heideggeriana di "Il concetto
d'amore in Agostino", in Hannah Arendt, a cura di S. Forti, di seguito cit.,
pp. 249-269). Cfr. per ogni riferimento bibliografico S. Forti, Bibliografia
degli scritti su Hannah Arendt, in S. Forti, a cura di, Hannah Arendt, Bruno
Mondadori, Milano 1999, pp. 286-306.
2. H. Arendt, The Life of the Mind, ed. by M. McCarthy, Harcourt, Brace and
Jovanovich, New York-London 1978, tr. it. di A. dal Lago, La vita della
mente, Il Mulino, Bologna 1987.
3. E. Young-Bruehl, H. Arendt: For Love of the World, Yale University Press,
New Haven-London 1982, tr. it. di D. Mezzacapa, H. Arendt 1906-1975. Per
amore del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1990.
4. R. Bodei, Ordo Amoris, Conflitti terreni e felicita' terrestre, Il
Mulino, Bologna 1991.
5. Il pensiero e' "la sorgente delle opere d'arte", H. Arendt, The Human
Condition, University of Chicago Press, Chicago 1958 (ed. tedesca: Vita
activa oder von tatigen Leben, a cura di H. Arendt, Kohlhammer, Stuttgart
1960); tr. it. di S. Finzi, Vita activa. La condizione umana, Bompiani,
Milano 1964, II ed. 1988, IV ed. 1997 (da cui cito), p.
6. Ivi, pp. 120- 121.
7. Cfr. M. Durst, La forza della fragilita'. La nascita in Hannah Arendt, in
"Fenomenologia e societa'", n. 3/2001, a. XXIV, pp. 32-50 (con riferimenti
bibliografici); Ead., Birth and Natality in Hannah Arendt, in
"Phenomenological Inquiry", vol. XXV, 2001, pp. 72-84.
8. L. Boella, Introduzione a H. Arendt, Il concetto d'amore in Agostino,
cit. Cfr. anche L. Boella, Pensare politicamente, agire politicamente,
Feltrinelli, Milano 1995.
9. "Prima di formulare interrogazioni quali 'Che cos'e' la felicita'', 'Che
cos'e' la giustizia', 'Che cos'e' la conoscenza', e cosi' via, occorre avere
veduto persone felici o infelici, occorre aver assistito ad azioni giuste o
ingiuste, aver sperimentato il desiderio di sapere col suo esaudimento o la
sua frustrazione. E, inoltre, e' necessario che l'esperienza diretta sia
ripetuta nella mente dopo aver lasciato la scena in cui ebbe luogo" (H.
Arendt, La vita della mente, cit., parte I, Pensare, cap. II, Le attivita'
della mente in un mondo di apparenze, p. 170).
10. H. Arendt, La vita della mente, cit. (si avverte qui l'influenza del
modo in cui Heidegger lega la terra alla plurivocalita' della natura assunta
quale greca physis).
11. Cfr. H. Arendt, La condizione umana, cit., p. 25.
12. E' la tesi espressa da J. Kristeva (Hannah Arendt, Fayard, Paris1999, I
vol. della trilogia Le genie feminin. La vie, la folie, les mots. Hannah
Arendt, Melanie Klein, Colette). F. Collins (L'homme est-il devenu superflu?
Hannah Arendt, Odile Jacob, Paris 1999. p. 135) pur sottolineando come la
vita "zoe" trovi significato solo nella vita come "bios" (in quanto una vita
meramente naturale e' per l'uomo priva di senso e pone le basi del
naturalismo storico all'origine del totalitarismo), riconosce che il fatto
della nascita nella sua naturalita' costituisce il "dono" dell'inizio, per
cui si puo' parlare di un rapporto di implicazione reciproca tra le
dimensioni della vita.
13. Si fa riferimento al corso tenuto da Heidegger del semestre invernale
1929-1930 presso la Albert-Ludwigs Universitaet Freiburg: Grundbegriffe der
Metaphysik. Welt-Endlichkeit-Einsamkeit (cura di F. W. von Herrmann,
Klostermann, Frankfurt s. M. 1983, tr. it. di P.-L. Coriando, Concetti
fondamentali della metafisica, Mondo-finitezza-solitudine, Il Melangolo,
Genova 1992), il cui nucleo originario e' nella conferenza del 1929 Vom
Wesen des Grundes (in Wegmarken, cura di F. W. von Hermann, Klostermann,
Frankfurt s. M. 1976, tr. it. di F. Volpi, Dell'essenza del fondamento, in
Segnavia, Adelphi, Milano 1987.
14. L. Oliva, Interpretazione neoparmenidea del concetto di mondo in
Heidegger, in "Magazzini di filosofia", n. 7, 2002, pp. 168-177.
15. Ivi, p. 169.
16. Ibidem.
17. Nell'elaborazione del tema del "chi" la Arendt si confronta con il
pensiero di Agostino: il primo che "comprese perfettamente il problema" e
che "distinse le questioni del 'chi sono io?' e del 'che cosa sono io?': la
prima rivolta dall'uomo a se stesso ('E io mi rivolsi a me stesso e mi
dissi: tu chi sei tu? E io risposi: Un uomo...') e la seconda rivolta a Dio
('Che cosa sono dunque io, mio Dio? Qual e' la mia natura?')" (H. Arendt, La
condizione umana, cit., n. 2, I cap., p. 243). Agostino risolve pero' la
questione teologicamente, laddove per Arendt a questa domanda non si puo'
rispondere introducendo "il dio dei filosofi" o in maniera scientifica, e
nemmeno "le condizioni dell'esistenza umana - vita, natalita' e mortalita',
mondanita', pluralita' e terra - potranno mai 'spiegare' che cosa noi siamo
o rispondere alla domanda 'chi siamo noi?'" (Ivi, p. 10). A tale questione,
che non si puo' "spiegare", occorre pero' "pensare" come a "l'evento
stesso", a "l'inaspettato", che "costituisce il vero tessuto della realta'
nell'ambito delle cose umane" (Ivi, p. 223). Nel "chi" si esprime infatti
una creativita' che e' indipendentemente da quale sia l'azione intrapresa:
"chi si e' trascende in grandezza e in importanza qualsiasi cosa si possa
fare" (Ivi, p. 156), e cio' dipende dal pensiero perche' pensare significa
"edificare un mondo" con la forza dell'immaginazione, un mondo che
"trascende sia la mera funzionalita' delle cose prodotte per il consumo sia
la mera utilita' degli oggetti prodotti per l'uso" (Ivi, p. 125), in cui
puo' rivelarsi "sulla scena pubblica" "chi si e'", cioe' "l'identita' unica
e distinta dell'agente" (Ivi, p. 131).
18. M. Heidegger, I problemi fondamentali della metafisica, cit., riportato
da L. Oliva, op. cit., p. 169.
19. Ibidem.
20. H. Arendt, La crisi dell'istruzione, in Ead., Tra passato e futuro (ed.
or.1961), tr. it., Garzanti, Milano 1999, II ed., pp. 228-255.
21. Sul rapporto tra il dramma dell'esclusione e l'intervento della legge
quale condizione necessaria ma non sufficiente per offrire una "dimora
sicura", cfr. I. Possenti, L'apolide e il paria. Lo straniero nella
filosofia di Hannah Arendt, Carocci, Roma 2002.
22. Cfr. S. Benhabib, The Pariah and Her Shadow: Hannah Arendt's Biography
of Rahel Varnhagen, in Bonnie Honig, ed. by, Feminist Interpretations of
Hannah Arendt, Pennsylvanya State University Press, Philadelphia 1995, pp.
83-104, p. 92.
23. H. Arendt, La condizione umana, cit., p. 6.
24. Cfr. M. Durst, Il narcisismo: un capitale emotivo di riserva, in Ead., a
cura di, Tra filosofia e psicologia/psicoanalisi, (sezione del Dossier
Educazione e affettivita': una prospettiva interdisciplinare), in "Scuola
Democratica", n. 1/2, 1999, pp. 81-98.
25. Si pensi ad esempio al finale di La condizione umana in cui si prospetta
una sempre piu' diffusa assenza di pensiero.

2. RIFLESSIONE. MARCELLO CINI: IDEE PER UNA VITA SOSTENIBILE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 agosto 2005. Marcello Cini, nato a
Firenze nel 1923, e' docente universitario di fisica, e autorevole
ricercatore; ha partecipato attivamente alle discussioni degli ultimi
decenni sulla storia della scienza, i temi epistemologici, la critica della
scienza e della sua pretesa neutralita'; collabora al quotidiano "Il
manifesto". Opere di Marcello Cini: L'ape e l'architetto. Paradigmi
scientifici e materialismo storico, Feltrinelli, Milano 1976 (con G.
Ciccotti, M. de Maria, G. Jona-Lasinio); Il gioco delle regole, Feltrinelli,
Milano 1982 (con D. Mazzonis); Un paradiso perduto. Dall'universo delle
leggi naturali al mondo dei processi evolutivi, Feltrinelli, Milano 1994]

Con il passaggio dal XX al XXI secolo il capitalismo ha ancora una volta
cambiato forma. La conoscenza e' diventata capitale intellettuale. Ce la
spiega Thomas A. Stewart, editor della piu' importante rivista americana di
economia "Fortune", che e' stato uno dei primi al mondo a occuparsi di come
individuare, dispiegare in modo efficace, e sfruttare quella straordinaria
risorsa costituita dal "brainpower collettivo", cioe' da "tutto quel
materiale intellettuale - sapere, informazione, proprieta' intellettuale,
esperienza - che puo' essere messo a frutto per creare ricchezza". "Chi lo
trova e lo sfrutta - afferma categoricamente - vince". E continua: "Vince
perche' l'economia di oggi differisce radicalmente da quella di ieri. Noi
siamo cresciuti nell'era industriale. Ma questa e' tramontata, soppiantata
dall'era dell'informazione. Il mondo economico da cui stiamo uscendo era un
mondo in cui le principali forme di ricchezza erano concrete. Le cose che
compravamo e vendevamo erano, appunto, cose: si potevano toccare, odorare,
si potevano prendere a calci le gomme e quando si sbattevano le portiere si
sentiva un piacevole tonfo. Gli ingredienti a partire dai quali si creava
ricchezza erano la terra, le risorse naturali come il petrolio, il minerale
di ferro o l'energia, e il lavoro fisico umano e le macchine. Le
organizzazioni economiche concepite per attrarre capitali - capitali
finanziari - al fine di sviluppare e gestire quelle fonti di ricchezza ed
erano bravissime nel farlo. In questa nuova era, la ricchezza e' il prodotto
del sapere. Sapere e informazione - e non soltanto sapere scientifico, ma le
notizie, i consigli, l'intrattenimento, la comunicazione, i servizi - sono
diventati le principali materie prime dell'economia e i suoi prodotti piu'
importanti. Il sapere e' quel che compriamo e vendiamo. Non si puo' ne'
odorarlo ne' toccarlo; persino il piacevole tonfo che fa la portiera di
un'auto quando viene sbattuta e' probabilmente il risultato di un'abile
progettazione acustica. Il capitale fisso oggi necessario per creare
ricchezza non e' la terra, ne' il lavoro fisico ne' le macchine utensili ne'
gli stabilimenti: e' un capitale fatto di conoscenza".
*
I problemi sollevati dal passaggio dall'economia degli oggetti materiali
all'economia della conoscenza si intrecciano con quelli che derivano dalla
insostenibilita' dell'attuale processo produttivo di merci sia dal punto di
vista dei limiti della carrying capacity dell'ecosistema terrestre (persino
Bush e' arrivato ad ammettere che i mutamenti climatici possono essere
conseguenza dell'uso eccessivo delle fonti di energia non rinnovabili), sia
dal punto di vista dell'innegabile aumento delle disuguaglianze tra ricchi e
poveri, tanto a livello planetario quanto all'interno degli stessi paesi
economicamente sviluppati. Questi fenomeni hanno conseguenze sociali
dirompenti: dalle guerre per il possesso delle fonti di energia non
rinnovabili alle inarrestabili ondate migratorie, dalle crisi finanziarie
imprevedibili che mettono in ginocchio interi paesi alla crisi dei sistemi
di welfare faticosamente costruiti nei paesi industrializzati nel corso del
XX secolo.
Il nostro paese si trova in una situazione assai difficile. La produzione di
beni di consumo individuali nei settori industriali tradizionali e'
sottoposta a una concorrenza insostenibile da parte dei paesi di nuova
industrializzazione con manodopera a costi abissalmente inferiori a quelli
richiesti dal nostro sistema produttivo per il mantenimento di un dignitoso
livello di vita dei nostri lavoratori, e una adeguata protezione sociale dei
nostri cittadini. D'altro canto, la scelta di competere sul terreno della
produzione di beni a contenuto scientifico e tecnologico all'altezza della
ricerca mondiale di punta - ammesso e non concesso che fosse auspicabile, e
mi riferisco con questo inciso alle ragioni che sono alla base delle
contestazioni dei movimenti newglobal - e' manifestamente impossibile, salvo
qualche rara eccezione, per le ridotte dimensioni del nostro sistema
produttivo, soprattutto nelle condizioni di crescente degrado del sistema
della ricerca pubblica e privata italiana.
*
Il problema e' dunque di scendere dal piano delle ricette puramente
economiche a quello dei contenuti: cioe' della discussione dei settori su
cui investire le risorse pubbliche e private necessarie per sfuggire alla
tenaglia che ci stringe. Non si puo' piu' affermare che esista una economia
in astratto che non dipende da quello che si produce e si consuma. Politica
economica, politica fiscale, politica industriale e politica della ricerca
diventano un intreccio non separabile in campi distinti gestiti dai
rispettivi specialisti. Credo che sia arrivato il momento di riconoscere che
questo e' un punto fondamentale da affrontare e discutere all'interno della
sinistra, per riuscire a dare risposte credibili ed efficaci al compito di
restituire fiducia al paese e aprire una prospettiva di sviluppo fondata su
un miglioramento della qualita' della vita per tutti i cittadini.
*
La scelta di uno sviluppo sostenibile non e' una fissazione di ambientalisti
maniaci o di moralisti con la testa tra le nuvole da tacitare con qualche
elargizione soltanto in tempi di vacche grasse, ma e' la scelta di una
strada non solo compatibile con le "leggi dell'economia", ma una via
essenziale realisticamente percorribile per uscire dal pantano in cui stiamo
affondando.
I problemi della riqualificazione urbana e della difesa del suolo (centri
urbani degradati e alluvioni), con quelli connessi della mobilita' delle
merci e dei viaggiatori (traffico in tilt, reti ferroviarie insicure e
imprevedibili), sono anche intrecciati con quelli dello sfruttamento delle
fonti energetiche rinnovabili e dell'efficienza dei consumi energetici (lo
sviluppo del solare e dell'eolico e' un decimo rispetto alla Germania), e
con quelli dello smaltimento e del riciclaggio dei rifiuti (ecomafia e
industriali alleati in stretto connubio).
I problemi di una sanita' efficiente per tutti, della prevenzione delle
malattie, di una agricoltura di qualita' e di una alimentazione non
macdonaldizzata - connessi questi ultimi con la questione della tutela della
biodiversita' dell'ecosistema terrestre - sono anch'essi aspetti
strettamente legati alla qualita' della vita quotidiana della gran parte dei
cittadini.
Soprattutto, sono problemi che hanno il pregio di investire interessi
diffusi e locali che non possono essere affrontati importando merci a basso
costo dalla Cina o tecnologie raffinatissime dagli Stati Uniti. Sono anche
tutti - questo e' il punto piu' importante - problemi la cui soluzione apre
la possibilita' di impiegare una grande quantita' di lavoro qualificato,
promette ai giovani dotati di creativita' e di capacita' organizzative di
potersi costruire un futuro migliore di quello della fuga all'estero, e
attraverso l'investimento iniziale di ingenti risorse mirate e selezionate,
di innescare un circolo virtuoso di crescita economica di nuove imprese
competitive su un mercato internazionale che in questi settori non e' ancora
dominato dalle multinazionali.
*
La produzione della nuova conoscenza necessaria ad affrontare i problemi di
un'economia sostenibile non puo', in generale, essere lasciata interamente
al mercato. E' George Soros, un capitalista doc, che ce lo spiega: "Il
mercato e' amorale: permette di agire secondo il proprio interesse, ma non
esprime un giudizio morale sull'interesse medesimo... Ma la societa' non
puo' funzionare senza qualche distinzione tra giusto e sbagliato. Prendere
decisioni collettive su cosa vada permesso e cosa vietato e' compito della
politica".
In particolare, nel nostro paese la produzione di nuova conoscenza non puo'
essere lasciata al mercato anche a causa della debole struttura della sua
economia. Il capitale privato italiano abbandona la grande industria ed e'
ormai da un lato dominato da palazzinari, assicuratori e pubblicitari, dei
quali Berlusconi rappresenta il dominus in tutti i sensi, e dall'altro e'
spezzettato in una molteplice varieta' di piccole e medie industrie. Nessuno
investe in ricerca per ragioni evidenti. Le privatizzazioni delle industrie
di stato hanno soltanto privatizzato i profitti e socializzato le perdite,
sostituendo le tasche nelle quali entrano le rendite di monopolio. La
ricerca necessaria per aprire la via a un'economia sostenibile deve essere,
per lo meno in Italia, prevalentemente pubblica. Cosa significa pubblica?
Significa in primo luogo che deve anteporre gli interessi pubblici a quelli
privati. Per quanto riguarda i ricercatori, per esempio, occorre per prima
cosa riconoscere la differenza profonda esistente fra i dipendenti (o i
consulenti) di imprese private legati al segreto industriale e gli operatori
degli enti pubblici di ricerca che dovrebbero rispondere dei loro programmi
alla collettivita' che li finanzia, o per lo meno concordare con i suoi
rappresentanti le scale di priorita' da rispettare.
I primi hanno come dovere contrattuale quello di massimizzare i dividendi
dei propri azionisti mentre i secondi, per esempio, dovrebbero in primo
luogo esplorare a fondo le evidenze di rischio, non ancora divenute
certezze, ma gia' piu' solide delle congetture, che giustificherebbero
l'adozione di una sospensione precauzionale dell'immissione sul mercato dei
prodotti che sono frutto delle ricerche dei primi. Come si fa a non stupirsi
nel constatare che la elementare norma di correttezza civile, oltre che
giuridica, secondo la quale controllori e controllati non possono essere le
stesse persone, non vige all'interno della scienza? Oggi molti scienziati di
grido sono al tempo stesso consulenti delle multinazionali o addirittura
azionisti delle industrie di punta e al tempo stesso membri delle
commissioni governative che dovrebbero certificarne i prodotti dal punto di
vista dell'efficacia e della sicurezza. In secondo luogo, ricerca pubblica
significa ricerca che deve mettere i risultati ottenuti a disposizione di
tutti i privati che intendono investire capitali nella trasformazione di
questi risultati in prodotti vendibili sul mercato.
*
Le modalita' di questa messa a disposizione possono essere diverse, ma
l'importante e' che scopo della ricerca pubblica non puo' essere quello di
competere sullo stesso terreno di quella privata per il conseguimento di
brevetti di conoscenza confezionata in forma di merce da immettere sul
mercato. La conoscenza ottenuta con fondi pubblici deve essere fruibile da
tutti. E' ancora George Soros che scrive a questo proposito: "L'espressione
'proprieta' intellettuale' e' fuorviante, perche' si basa su una falsa
analogia con la proprieta' tangibile. Una caratteristica essenziale della
proprieta' tangibile e' che il suo valore deriva dall'uso che ne fa chi la
possiede, ma la proprieta' intellettuale trae il suo valore dall'uso che ne
fanno gli altri: gli scrittori vogliono che il loro lavoro sia letto e gli
inventori che sia utilizzato... L'istituzione di brevetti e diritti di
proprieta' intellettuale ha contribuito a trasformare l'attivita'
dell'ingegno in un affare, e naturalmente gli affari sono mossi dalla
prospettiva del profitto. E' lecito affermare che ci si e' spinti troppo
oltre. I brevetti servono a incoraggiare gli investimenti nella ricerca, ma
quando scienza, cultura e arte sono dominate dalla ricerca del profitto,
qualcosa va perduto".

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 36 del 28 agosto 2005