Nonviolenza. Femminile plurale. 69



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 69 del 22 giugno 2006

In questo numero:
1. Anita Sonego: No
2. Silvia Vegetti Finzi: Il linguaggio del corpo. Un colloquio
3. Elena Loewenthal presenta "Il golem" di Moshe Idel

1. EDITORIALE. ANITA SONEGO: NO
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente appello. Anita Sonego
e' la presidente della Libera Universita' delle Donne di Milano; nata nel
1945 in provincia di Treviso studia e si laurea alla Cattolica a Milano dove
nel '68 partecipa al movimento degli studenti entrando, quindi, nel gruppo
del "Manifesto"; iscritta alla Cgil-scuola insegna nelle scuole medie
dell'hinterland e successivamente alle 150 ore; lascia poi la militanza
partitica partecipando al movimento delle donne; nel 1987 fonda, assieme ad
altre, la Libera Universita' delle Donne di cui e' presidente dal 1998; nel
1996 ha dato vita al gruppo "Soggettivita' lesbica"]

Carissime,
e' con estrema preoccupazione che scrivo questa lettera a tutte le socie e
amiche della Libera Universita' delle Donne.
Domenica 25 e lunedi' 26 giugno andremo a votare su una proposta di
cambiamento della nostra Carta Costituzionale. Questa proposta si
caratterizza, tra l'altro, per due gravissimi aspetti:
1. un grande accentramento dei poteri nelle mani del Presidente del
Consiglio che contrasta con ogni richiesta di diffusione delle forme della
partecipazione e dell'allargamento degli spazi democratici;
2. La dissoluzione (attraverso la cosiddetta "devolution") del concetto di
convivenza e comune cittadinanza, di uguale dignita' e diritti di tutti e
tutte.
Se ogni Regione potra' decidere del proprio sistema scolastico e sanitario
dove andra' a finire quell'uguaglianza di diritti che noi donne abbiamo
considerato la base per la dignita' e la liberta' non solo nostra ma di
tutti gli esseri umani discriminati e ai quali viene impedito l'accesso
paritario all'istruzione, alla salute, al lavoro?
Le donne lottano da molti anni per una maggiore partecipazione alla vita
politica e per una societa' in cui la liberta' femminile abbia come
presupposto la parita' dei diritti. Per questo questa riforma costituzionale
riguarda moltissimo anche le donne.
E' la prima volta che, quale presidente, mi assumo la responsabilita' di
chiedere a socie e amiche di schierarsi.
In questo caso non si tratta di opzioni partitiche ma di una scelta politica
che tiene conto di tutta la nostra storia e delle lotte di tutto il
movimento delle donne per la liberta' e l'emancipazione.
Per questo, con la consapevolezza dell'importanza di questo referendum e dei
suoi esiti, ti chiedo di votare "no" allo stravolgimento autoritario ed
egoistico della nostra Costituzione...
Un saluto cordialissimo,
Anita Sonego

2. RIFLESSIONE. SILVIA VEGETTI FINZI: IL LINGUAGGIO DEL CORPO. UN COLLOQUIO
[Dal sito www.emsf.rai.it riprendiamo il seguente colloquio tenuto il 10
marzo 1999 da Silvia Vegetti Finzi con le studentesse e gli studenti del
Liceo classico "Michelangiolo" di Firenze e trasmesso dalla Rai il 16
novembre 1999 nel programma "Il Grillo". Su Silvia Vegetti Finzi dal sito
dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche (www.emsf.rai.it)
riprendiamo la seguente notizia biografica: "Silvia Vegetti Finzi e' nata a
Brescia il 5 ottobre 1938. Laureatasi in pedagogia, si e' specializzata in
psicologia clinica presso l'Istituto di psicologia dell'Universita'
cattolica di Milano. All'inizio degli anni '70 ha partecipato a una vasta
ricerca internazionale, progettata dalle Associazioni Iard e Van Leer, sulle
cause del disadattamento scolastico. Inoltre ha lavorato come psicoterapeuta
dell'infanzia e della famiglia nelle istituzioni pubbliche. Dal 1975 e'
entrata a far parte del Dipartimento di Filosofia dell'Universita' di Pavia
ove attualmente insegna psicologia dinamica. Dagli anni '80 partecipa al
movimento femminista, collaborando con l'Universita' delle donne 'Virginia
Woolf' di Roma e con il Centro documentazione donne di Firenze. Nel 1990 e'
tra i fondatori della Consulta (laica) di bioetica. Dal 1986 e' pubblicista
del 'Corriere della Sera' e successivamente anche di 'Io donna' e di
'Insieme"' Fa parte del comitato scientifico delle riviste: 'Bio-logica',
'Adultita'', 'Imago ricercae', nonche' dell'Istituto Gramsci di Roma, della
'Casa della cultura' di Milano, della 'Libera universita'
dell'autobiografia' di Anghiari. Collabora inoltre con le riviste
filosofiche 'Aut Aut' e 'Iride'. Molti suoi scritti sono stati tradotti in
francese, inglese, tedesco e spagnolo. E' membro dell'Osservatorio nazionale
per l'infanzia e l'adolescenza, della Societa' italiana di psicologia; della
Societe' internationale d'histoire de la psychoanalyse. Nel 1998 ha
ricevuto, per i suoi scritti di psicoanalisi, il premio nazionale 'Cesare
Musatti', e per quelli di bioetica il premio nazionale 'Giuseppina Teodori'.
Sposata con lo storico della filosofia antica Mario Vegetti, ha due figli
adulti, Valentina e Matteo. Gli interessi di Silvia Vegetti Finzi seguono
quattro filoni: il primo e' volto a ricostruire una genealogia della
psicoanalisi da Freud ai giorni nostri, intesa non solo come storia del
movimento psicoanalitico ma anche come storia della cultura; il secondo, una
archelogia dell'immaginario femminile, intende recuperare nell'inconscio
individuale e nella storia delle espressioni culturali, elementi di
identita' femminile e materna cancellati dal prevalere delle forme
simboliche maschili: a questo scopo ha analizzato i sogni e i sintomi delle
bambine, i miti delle origini, i riti di iniziazione femminile nella Grecia
classica, le metafore della scienza, l'iconografia delle Grandi Madri; il
terzo delinea uno sviluppo psicologico, dall'infanzia all'adolescenza, che
tenga conto anche degli apporti psicoanalitici. Si propone inoltre di
mettere a disposizione, tramite una corretta divulgazione, la sensibilita' e
il sapere delle discipline psicologiche ai genitori e agli insegnanti; il
quarto, infine, si interroga sulla maternita' e sugli effetti delle
biotecnologie, cercando di dar voce all'esperienza e alla sapienza delle
donne in ordine al generare". Tra le opere di Silvia Vegetti Finzi: (a cura
di), Il bambino nella psicoanalisi, Zanichelli, Bologna 1976; (con L.
Bellomo), Bambini a tempo pieno, Il Mulino, Bologna 1978; (con altri), Verso
il luogo delle origini, La Tartaruga, Milano 1982; Storia della
psicoanalisi, Mondadori, Milano 1986; La ricerca delle donne (1987);
Bioetica, 1989; Il bambino della notte. Divenire donna, divenire madre,
Mondadori, Milano 1990; (a cura di), Psicoanalisi al femminile, Laterza,
Roma-Bari 1992; Il romanzo della famiglia. Passioni e ragioni del vivere
insieme, Mondadori, Milano 1992; (con altri), Questioni di Bioetica,
Laterza, Roma-Bari 1993; (con Anna Maria Battistin), A piccoli passi. La
psicologia dei bambini dall'attesa ai cinque anni, Mondadori, Milano 1994;
Freud e la nascita della psicoanalisi, 1994; (con Marina Catenazzi),
Psicoanalisi ed educazione sessuale, Laterza, Roma-Bari 1995; (con altri),
Psicoanalisi ed identita' di genere, Laterza, Roma-Bari 1995; (con Anna
Maria Battistin), I bambini sono cambiati. La psicologia dei bambini dai
cinque ai dieci anni, Mondadori, Milano 1996; (con Silvia Lagorio, Lella
Ravasi), Se noi siamo la terra. Identita' femminile e negazione della
maternita', Il Saggiatore, Milano 1996; (con altri), Il respiro delle donne,
Il Saggiatore, Milano 1996; Volere un figlio. La nuova maternita' fra natura
e scienza, Mondadori, Milano 1997; (con altri), Storia delle passioni,
Laterza, Roma-Bari 1997; Il fantasma del patriarcato, Alma Edizioni, 1997;
(con altri), Fedi e violenze, Rosenberg & Sellier, 1997; (con Anna Maria
Battistin), L'eta' incerta. I nuovi adolescenti, Mondadori, Milano, 2000;
Parlar d'amore, Rizzoli, Milano 2003; Silvia Vegetti Finzi dialoga con le
mamme, Fabbri, Milano 2004; Quando i genitori si dividono, Mondadori, Milano
2005]

- Silvia Vegetti Finzi: Sono Silvia Vegetti Finzi, vivo a Milano e insegno
psicologia dinamica all'Universita' di Pavia. Durante la mia ricerca ho
avuto piu' volte a che fare con esperienze relative al linguaggio del corpo:
la prima volta che mi sono imbattuta nell'argomento e' stato quando ho
scritto una storia della psicoanalisi.
Come ben saprete - soprattutto se avete confidenza con i film di Woody
Allen - durante la terapia lo psicanalista invita il paziente a stendersi
sul lettino in modo che i loro sguardi non si incrocino e i loro gesti
rimangano nascosti l'uno all'altro. Questa pratica mette "tra parentesi" il
corpo e le sue capacita' espressive a favore della parola. Nella storia
delle passioni, il silenzio cui vengono costretti i linguaggi prettamente
corporei indica una concezione particolare: la passione viene intesa come un
qualcosa di costantemente "recitato" e caratterizzato da gesti plateali,
mentre il sentimento e' visto come un qualcosa di sussurrato e flebile, che
si rivolge piu' che altro alla comprensione del mondo interiore.
Prima di cominciare a trattare l'argomento, vediamo la scheda filmata che
hanno preparato per noi.
*
Scheda: Nel Gargantua di Rabelais, Pantagruel sostiene che con i gesti si
producono meno equivoci che con le parole. Secondo Pantagruel il linguaggio
dei gesti non e' convenzionale alla stessa stregua quello delle parole. A
dimostrazione di cio', racconta a Panurge la seguente storia: "Tiridate, re
d'Armenia, ai tempi di Nerone visito' Roma, e fu ricevuto con solenni onori
e magnifiche pompe, al fine di intrattenerlo in sempiterna amicizia col
Senato e col popolo romano. E non ci fu cosa memorabile della citta' che non
gli fosse mostrata e spiegata. Alla sua partenza l'imperatore gli fece doni
grandi e strabocchevoli e inoltre gli concesse quello che gli piacesse di
piu' in Roma, con la promessa e il giuramento di non negarglielo qualunque
cosa domandasse. E quello domando' solamente un attore di farse che aveva
visto a teatro - perche', senza intendere quello che diceva recitando, lui
aveva capito tutto ugualmente per mezzo dei suoi segni e gesti -, allegando
che sotto il suo dominio vivevano popoli di diversi linguaggi, per
rispondere e parlare ai quali gli erano necessari numerosi interpreti, ma
che quello li', da solo, sarebbe bastato per tutti, perche' eccelleva
talmente nell'arte di significare quei gesti, che sembrava che parlasse con
le dita".
Veramente, come affermava il re d'Armenia, il linguaggio del corpo e'
universale e identico in tutte le culture? Oppure anch'esso, come ogni
sistema di segni, nasce dall'uso ed e' quindi, al pari delle lingue, diverso
secondo le civilta'? Oltretutto al giorno d'oggi alle diverse lingue
corrispondono quasi sempre degli Stati differenti. Un comune linguaggio del
corpo non potrebbe indicare un'area culturale comune che non coincide con
l'identificazione moderna di lingua e stato nazionale?
*
- Studentessa: Vorrei iniziare la discussione prendendo in esame l'oggetto
che abbiamo scelto come simbolo della trasmissione: una camicia di forza,
con riferimento al "fenomeno delle isteriche" dell'Ottocento e degli inizi
del Novecento. Le "isteriche" erano donne che tentavano di uscire dalle
costrizioni imposte loro dalla societa' tramite una gestualita' molto
forte - a volte eccessiva - e attraverso un uso massiccio del linguaggio
corporeo. La camicia di forza rappresenta la reazione della societa' a tali
comportamenti: le isteriche venivano internate alla Salpetriere e la' i
medici tentavano di curarle e analizzarle come potevano. Ma la camicia di
forza potrebbe assumere un qualche significato anche nei confronti del
linguaggio del corpo in generale, il quale, nella nostra cultura, viene
sempre piu' svalutato: nel teatro contemporaneo, ad esempio, si e' partiti
da una forte fisicita' per arrivare al teatro borghese di Ibsen, in cui la
stessa fisicita', se proprio non scompare, viene di molto ridimensionata.
Inoltre la camicia di forza vuole rappresentare il modo in cui i medici si
rapportavano alle pazienti: essi tentavano di classificare e di rinchiudere
entro schemi ben prefissati i diversi significati che le isteriche
intendevano dare ai loro gesti. Secondo il metodo delle "attitudini
professionali", ad ogni movimento corrispondeva invariabilmente un preciso
significato, scelto in base ad un criterio prettamente razionale. In
realta', il tentativo di comunicare di queste donne agiva attraverso un
processo inconscio, e le loro movenze potevano variare di significato in
relazione al contesto e alla persona con cui avevano a che fare. A cosa e'
dovuto questo tentativo di annullare la gestualita', di privarla del suo
significato piu' profondo, di sminuire le sue componenti inconsce e,
conseguentemente, di rinchiuderla entro schemi eccessivamente razionali che
non le permettono di esprimersi in maniera autonoma?
- Silvia Vegetti Finzi: La domanda si riferisce a un luogo ben preciso: la
Salpetriere di Parigi, una grande clinica psichiatrica che nella seconda
meta' dell'Ottocento ospitava circa diecimila ricoverati. Tra questi si
contavano quattromila donne, di cui parecchie erano isteriche. L'isteria si
manifestava soprattutto in ragazze molto giovani, provenienti da ambienti
poveri e degradati, e veniva diagnosticata dopo che la donna aveva dato in
escandescenze in vari modi. Dapprincipio tali sintomi furono stimati come un
problema di ordine pubblico da risolversi con il carcere, in seguito
l'atteggiamento verso queste persone si fece molto piu' moderato e l'isteria
venne classificata come anomalia psichica. Le donne colpite da isteria
potevano dar fuoco alla propria casa o camminare sui cornicioni: la famosa
figura della sonnambula, ad esempio, e' un personaggio che nasce proprio in
questi anni. Ben si capisce come comportamenti del genere potessero
risultare problematici per la collettivita'. E' per tale motivo che - da una
certa data in poi - il malessere, il disagio e l'insofferenza rappresentata
da queste donne venne descritta come una malattia: le istituzioni trovarono
subito una modalita' per tradurre il fenomeno nei loro codici, e fu cosi'
che una delle "cure" adottate nei confronti delle isteriche fu la camicia di
forza, o camicia di contenzione. Questo strumento venne talmente
interiorizzato dalle malate che a volte, non appena sentivano il
sopravvenire di una crisi, erano loro stesse a richiederlo. Oltre alla
camicia furono adottate altre terapie, che attualmente appaiono quanto meno
fantasiose: il suono del diapason e del tamburo, i bagni freddi, le scosse
elettriche, l'uso di droghe di ogni genere dagli effetti non ben conosciuti.
Si compivano delle prove: era un campo sperimentale di dominio e di
controllo del corpo. Al giorno d'oggi la camicia di forza - un tipo di
contenzione troppo plateale - e' sparita dalle cliniche psichiatriche, cio'
non di meno essa viene spesso sostituita dalla contenzione chimica, un tipo
di controllo piu' subdolo praticato tramite gli psicofarmaci. Risulta ben
evidente, quindi, come anche la storia delle cliniche psichiatriche
occidentali sia una storia di progressiva contenzione e regolazione del
corpo.
*
- Studentessa: La contenzione del corpo, pero', non avviene solo nelle
cliniche psichiatriche: come lei ha detto in precedenza, la stessa terapia
analitica tende a nascondere le espressioni corporee, tanto del paziente
quanto dell'analista.
- Silvia Vegetti Finzi: La nostra e' una societa' che privilegia la parola e
gli scambi simbolici a discapito del corpo, che ne risulta quasi
"rattrappito". Il mal di schiena, ad esempio, e' un dolore di cui tutti -
chi piu' chi meno - hanno sofferto, proprio perche' si tratta di una
contrazione fisica cui corrisponde anche una contrazione mentale. Nel
continuo passaggio dalle passioni ai sentimenti, la nostra interiorita' si
e' devitalizzata: le passioni mirano a cambiare il mondo, mentre i
sentimenti vogliono mutare innanzitutto la nostra intimita', i piu' stretti
rapporti privati, la nostra economia psichica.
A questo proposito sarebbe bene vedere una seconda scheda.
*
Scheda
a) Da Le supplici di Eschilo:
- Voce (d'uomo): Le vesti non sono greche
- Voce (d'altro uomo): I vetri e le bende che li adornano sono stranieri!
b) Da Casa di bambola di Ibsen:
- Voce (di donna): No! Nessuno, e' naturale, non puo' venire nessuno nel
giorno di Natale! E neanche due! Forse...
- Voce (della stessa donna): Non c'e' niente. Non puo' essere che egli
faccia sul serio. E' impossibile! Ho tre bambini!
*
- Silvia Vegetti Finzi: Dal confronto tra una tragedia del teatro classico -
Le supplici di Eschilo - e una dramma contemporaneo - Casa di bambola di
Ibsen -, emerge la differenza nell'uso del corpo e del linguaggio
considerato come gesto. Nelle tragedie greche e' presente una sorta di
"urlo": il corpo si lancia in una contesa radicale, in una passione
incontenibile che lo porta a vivere o a morire. Nella tragedia intimistica
borghese, invece, sono in gioco i sentimenti ed e' messo in scena il disagio
piu' che la sopravvivenza. In Casa di bambola, Nora - la protagonista - se
ne va perche' non riesce a far comprendere le sue esigenze in seno alla
famiglia e a mutare la sua situazione interna: sente di non avere piu' la
forza per cambiare il mondo. Questa forza, invece, e' ben presente nelle
tragedie greche: dopo che la vicenda si e' conclusa, nulla rimane uguale a
prima, tutti i rapporti di forza sono messi in discussione. Da questa
constatazione pare che la capacita' di imporsi del soggetto moderno risulti
indebolita rispetto al soggetto antico, il quale continua ad esercitare
potere su di se' e sul mondo.
*
- Studentessa: In precedenza ha affermato che nella societa' contemporanea
il linguaggio parlato risulta preponderante rispetto a quello gestuale: non
e' forse possibile che, nell'Ottocento, le isteriche reagissero ad una
comunicazione essenzialmente razionale tramite un linguaggio del corpo a
base inconscia? Viste in quest'ottica, tali donne non risulterebbero piu'
malate, ma semplicemente divergenti rispetto alla pratica comunicativa
maggiormente utilizzata.
- Silvia Vegetti Finzi: Quello di malattia e' un concetto molto vago e
duttile che cambia in relazione alle epoche storiche e ai contesti. Per cio'
che concerne le isteriche, bisogna innanzitutto evidenziare che erano delle
donne, ovvero dei soggetti che tradizionalmente sono stati legati alla casa
e che per molto tempo non hanno avuto accesso alla cultura e alla
socializzazione allo stesso modo degli uomini. In qualche maniera, all'epoca
le donne costituivano dei "residui storici". Nel momento in cui si sviluppo'
l'enorme processo di industrializzazione della citta' di Parigi - che
proprio nel corso dell'Ottocento divenne una grande metropoli e si connoto'
come un polo d'attrazione per le campagne, rendendo possibile
l'industrializzazione su larga scala e le catene di montaggio -, vi fu una
sempre maggiore richiesta di mano d'opera duttile e divento' necessario che
anche le donne si inserissero nelle fabbriche. All'interno dell'industria
tessile, ad esempio, lavorarono quasi esclusivamente donne e bambini; in
proposito Marx affermo': "Servono delle membra molto sottili per introdursi
negli ingranaggi". Le donne, pero', dovevano essere recuperate a livello di
mano d'opera tramite delle rapidissime forme di "disciplinamento". Quale
forma risulta migliore del definire dei gesti anomali come malattia? Essendo
il gesto dichiarato patologico a livello di cultura generale, esso venne
repentinamente a rattrappirsi. Il corpo divento' duttile e si arrese alla
meccanizzazione della gestualita' in vista del rendimento. Si tratto' di una
grave perdita: se si osservano le fotografie delle isteriche conservate
nell'archivio della Salpetriere, si puo' notare come queste donne avessero
un repertorio gestuale estremamente ricco, quasi che tutta la storia della
cultura si fosse concentrata nelle loro membra. Alcune posture sembra siano
tratte dalle rappresentazioni sacre, dalle icone religiose o dalla
gestualita' forense. Tutte queste forme comunicative, che per diversi motivi
si erano manifestate nelle pazienti della Salpetriere, furono catalogate
attraverso la strana espressione di "attitudini passionali" - una locuzione
utilizzata per le statue barocche -, considerate patologiche e archiviate:
in tal modo vennero celebrati i funerali della gestualita' tradizionale. Le
attuali esperienze teatrali - dopo la parentesi del teatro borghese, in cui
viene messa in scena una fisicita' "rattrappita" - tentano di recuperare il
gesto e di drammatizzarlo in vari modi, ad esempio attraverso i mimi.
*
- Studentessa: A me pare che il diverso atteggiamento dell'eroe greco nei
confronti della gestualita' manifesti anche un diverso rapporto con la
realta': egli e' tutto proiettato verso l'esterno in maniera "oggettiva" e
propositiva, mentre il protagonista contemporaneo tende all'intimismo e alla
chiusura in se stesso. Qual e' la sua opinione in proposito?
- Silvia Vegetti Finzi: Mi sembra che lei ci abbia fornito un'indicazione
molto utile sul senso difensivo della rinuncia al gesto. In proposito
Wilhelm Reich - uno dei maggiori psicoanalisti mai esistiti - parlo' di
"corazza caratteriale" e affermo' che: "il corpo e' chiuso a guscio su se
stesso. Abbiamo sempre i muscoli e le vertebre contratti perche' l'aspetto
difensivo della corporeita' prevale su quello propositivo e su quello
espressivo". Forse abbiamo perduto fiducia e speranza nella possibilita' di
com-prenderci nel senso etimologico del termine, ossia di prenderci l'uno
dentro l'altro. E' venuta meno l'empatia, quel tipo di relazione che risulta
cosi' forte tra madre e neonato: quest'ultimo, infatti, comunica
essenzialmente con il pianto e con la gestualita' e non utilizza dei
linguaggi strutturati, ciononostante la madre non fatica a comprendere
quello di cui lui ha bisogno. Tale fiducia - che, fortunatamente, ancora
sussiste nel primo rapporto tra madre e figlio - non e' piu' cosi'
riscontrabile e in alcuni casi viene perfino considerata sconveniente. Se
una persona gesticola troppo puo' essere giudicata fastidiosa, se non
addirittura brutta e ignorante. Non dimentichiamo che l'inquadratura
dominante nei notiziari televisivi e' il mezzo busto: ogni minimo gesto
dello speaker viene valutato e analizzato. Posture del genere sono
emblematiche di un corpo irrigidito e stanco. Una delle espressioni piu'
brutte che la nostra capacita' di rappresentazione abbia mai creato, ad
esempio, e' la foto-tessera, ciononostante la societa' vuole proprio che noi
ci comportiamo come se stessimo sempre per fare una foto-tessera: l'ideale
e' quello della staticita', della rigidita'.
*
- Studente: Finora si e' operata la distinzione tra linguaggio verbale -
razionale e codificato - e linguaggio gestuale - principalmente basato
sull'irrazionalita' -. Esiste una grammatica del linguaggio gestuale, una
sorta di "razionalita' irrazionale" che serva a codificarlo?
- Silvia Vegetti Finzi: Sicuramente: si tratta di un codice, di una retorica
del linguaggio gestuale. "Fare le corna", ad esempio, e' un gesto
comprensibilissimo con forte significato emotivo che in un'altra cultura
potrebbe non assumere alcun significato. Cio' che veicola il gesto e' una
potente passionalita', tanto che se abbiamo intenzione di offendere qualcuno
ci riesce molto piu' facile farlo a gesti piuttosto che a parole: questo
avviene perche' la gestualita' ha un'immediatezza che il linguaggio verbale
non conosce. E' proprio per tale motivo che il gesto provoca tanto timore e
deve essere costantemente disciplinato. Fin da bambini - soprattutto se si
e' femmine - veniamo intimati a non muoverci in questo o in quell'altro
modo, e a scuola dobbiamo mantenere le braccia conserte e osservare la
lavagna: veniamo costretti a guardare nella stessa direzione e ad assumere
un'identica postura. Nei convitti religiosi nell'Ottocento, le ragazze
dovevano trattenere dei coperchi sotto le ascelle quando si sedevano a
tavola per mangiare, in modo che i gomiti restassero vicini al busto e non
si allargassero in maniera sconveniente. In tali casi viene elaborata una
sorta di "ortopedia del corpo", che non tarda a coincidere anche con una
"ortopedia della mente", dato che compiere gesti inconsulti significa anche
mostrare in modo eccessivo le proprie emozioni. Penso che tutti noi
conosciamo abbastanza bene esortazioni come "trattieniti", "controllati",
"non piangere, "non ridere troppo": nel caso delle bambine alla lista va
aggiunto "stai composta", perche' il corpo femminile deve rappresentare il
controllo di se' al massimo grado, mentre ai maschi si concede piu'
disinvoltura. La preparazione del corpo maschile e femminile obbediscono a
codici diversi. Il corpo maschile e' stato tradizionalmente perfezionato
attraverso l'esercizio delle armi - sebbene al giorno d'oggi questo elemento
non sia piu' cosi' importante -: durante il servizio militare si impara a
fare il saluto, a battere i tacchi, a stare sull'attenti e a rapportarsi ad
un mondo estremamente gerarchizzato. L'uomo deve imparare a muoversi
all'interno di una gerarchia precisa, a comportarsi in un certo modo con i
superiori e in un altro con gli inferiori. Viceversa, il corpo femminile e'
stato addestrato attraverso la danza, grazie alla quale la donna esprime
bellezza, grazia e la capacita' di seguire la guida del suo cavaliere: la
brava danzatrice e' quella che ben accondiscende alle manovre di colui che
la conduce. Nel walzer, ad esempio, e' l'uomo che tiene il passo, e alla
donna non resta che arrendersi alla volonta' di lui. Attraverso le suddette
forme di educazione - che sono molto potenti - avviene cio' che Foucault
chiamo' la "sterilizzazione di se'": si tratta di pratiche indirette che in
un primo momento non appaiono come educative, ma che riescono a plasmarci in
maniera forte e duratura, a decidere cio' che siamo e cio' che non siamo
piu'.
*
- Studentessa: Il linguaggio del corpo muta da cultura a cultura?
- Silvia Vegetti Finzi: Naturalmente si'. In precedenza abbiamo portato
l'esempio delle "corna", ma si potrebbe anche prendere in considerazione il
bacio, che non e' identico e non ha lo stesso significato nelle differenti
culture. Esistono comunque dei codici che si rivelano universali: se una
persona ferita si rotola per terra in preda al dolore, non possiamo non
comprendere la sua gestualita'. Alcuni gesti, dunque, risultano maggiormente
legati al fatto che siamo uomini e vengono da noi condivisi con altri
animali, ad esempio con le scimmie superiori. Grattarsi, accovacciarsi o
sdraiarsi, non sono dei movimenti esclusivamente umani, mentre il sorridere
e' una prerogativa della nostra specie. Allo stesso modo, vi sono dei gesti
che appartengono a tutte le culture, e ve ne sono altri che sono stati
codificati con precisione e fanno parte di un repertorio culturale
specifico.
*
- Studentessa: Lei crede che la concezione dell'Io cosi' come fu formulata
da Freud - un Io scarsamente autonomo e fortemente condizionato da altri
fattori - possa ben adattarsi all'uomo contemporaneo?
- Silvia Vegetti Finzi: Sigmund Freud - come tutti i grandi intellettuali -
recepi' le esigenze di un'epoca. Quando si reco' alla Salpetriere comprese
che vi dimorava il bisogno di controllare il corpo e, in un certo senso,
supero' tale necessita' affermando che: "il corpo puo' essere inteso come un
linguaggio". Si tratto' di un enorme passo avanti, perche' egli riusci' a
concepire la corporeita' non piu' come un mero sintomo o come un semplice
disturbo: la fisicita' adopera un linguaggio in grado di esprimere cio' che
le parole non possono comunicare perche' censurate. La persona che non puo'
dire cio' di cui vorrebbe parlare perche' la societa' non glielo permette,
regredisce a forme infantili di comunicazione esprimendosi attraverso il
corpo. Compito dell'analista e' operare una decodificazione per trasformare
il gesto in parola: il corpo viene inteso come un dialetto molto
specializzato che deve essere ricondotto a termini universali. Tramite tale
traslitterazione, il corpo perde la capacita' di assumere la parola in prima
persona - cedendola ad un altro codice - ma guadagna la possibilita' di
esprimersi, di comunicare qualcosa di suo. Si tratta di una grande
conquista, anche se cio' che ne risulta compromesso e' proprio la messa in
scena della corporeita'.
*
- Studentessa: In precedenza ha affermato che l'analista cerca di non
guardare mai il paziente e di eliminare qualsiasi rapporto fisico con lui,
mentre ora sostiene che compito dell'analista e' interpretare il linguaggio
del corpo di colui che ha in cura. Non ci trova una contraddizione?
- Silvia Vegetti Finzi: E' una bella domanda. Tra il gesto e il pensiero
esistono le immagini: in ultima istanza, il gesto da' visibilita' ed
espressione a delle immagini che si interpongono tra il pensiero e l'azione.
Cio' che la psicoanalisi si prefigge e' proprio di recuperare tali
immagini - dei "fantasmi" -, che non sono immediatamente recepibili dalla
mente cosciente perche' giacciono in uno stato di rimozione. Una volta che
le immagini hanno preso parola, non vi e' piu' necessita' di manifestare dei
sintomi. Prendiamo il caso di una paziente molto giovane che, mentre stava
assistendo il padre ammalato, venne colpita da una paresi alle gambe; in tal
caso, lo stato di paralisi poteva cessare quando, dopo una ricostruzione
dell'anamnesi della sua storia, la paziente si fosse avveduta che il
disturbo aveva avuto inizio nel momento in cui si erano manifestate due
volonta' contrapposte: da una parte il desiderio di assistere il genitore,
sia per motivi affettivi che etici, dall'altra la voglia di andare ad una
festa che si stava svolgendo nella casa vicina e da cui arrivava della
musica. Siccome la giovane non permetteva a se stessa neppure di pensare ad
un eventuale abbandono del padre malato, il suo corpo ne rimaneva
immobilizzato, in modo che le gambe non potessero neanche accennare un ballo
sul posto, come spesso capita. I suoi desideri le apparivano talmente
sconvenienti da farla paralizzare. Tale stato, pero', ebbe termine quando la
ragazza si rese conto del suo desiderio: l'immagine del ballo pote'
coscientemente essere recepita dalla sua mente senza che ci fosse il bisogno
di farla rientrare dalla finestra sotto forma di sintomo.
*
- Studentessa: A me pare che la psicoanalisi perda qualcosa
nell'interpretare il linguaggio del corpo, perche' tenta di darne una
spiegazione senza prima instaurare un rapporto con il paziente.
- Silvia Vegetti Finzi: In realta' tale rapporto esiste: viene chiamato
transfert-controtransfert e, nonostante sia veicolato dalla parola, si
rivela molto intenso. Non possiamo svalutare la parola fino a slegarla
completamente dal pensiero e sostenere che essa non produce una reale
comunicazione. L'analista, durante le sedute con il paziente, lo esorta a
dire tutto cio' che gli passa per la mente, senza selezionare nulla. In tal
modo le parole non risultano inserite all'interno di un'argomentazione e
diventano quasi dei "gesti verbali". Ovviamente non si tratta di gesti veri
e propri, perche' non si e' ancora trovato il modo per recuperare il corpo
all'interno della scena analitica. Qualcuno ci ha provato accarezzando i
pazienti, ma Freud pensava che una pratica del genere fosse molto
pericolosa: due corpi che si toccano ed entrano in relazione costituiscono
un terreno minato, specialmente all'interno di una situazione che resta
essenzialmente professionale.
*
- Studentessa: Forse per instaurare un rapporto basterebbe guardarsi negli
occhi.
- Silvia Vegetti Finzi: Guardarsi negli occhi e' un tipo di comunicazione
molto intenso, forse il piu' intenso in assoluto: gli animali si guardano
negli occhi solo quando vogliono sfidarsi perche', in generale, non amano
questo tipo di atto comunicativo, solitamente inteso come il preludio ad
un'azione aggressiva. Guardarsi negli occhi veicola un messaggio molto
specifico - "o tu o io" - e contiene sempre degli elementi di disturbo. E'
proprio per tale motivo che deve costantemente essere mediato dal
linguaggio, il quale riesce ad inserire un terzo soggetto, una terza
dimensione in grado di generalizzare, moderare e rendere comunicabili le
nostre passioni. Cio' avviene perche' nel momento in cui si parla, lo si fa
all'interno di codici condivisi, i quali stabiliscono che cio' che dico e'
gia' stato detto e sara' detto molte altre volte in futuro: in tal modo
riescono a moderare quell'atto comunicativo che ha raggiunto il massimo
grado di intensita' nello sguardo.
*
- Studentessa: Mentre si parla si compiono spesso dei movimenti
inconsapevoli che forse non possono essere ricondotti ad un linguaggio
gestuale "puro". Lei crede che tali gesti servano semplicemente ad aumentare
l'efficacia espressiva del discorso, o crede che possano assumere un qualche
valore anche sul piano del significato? Gli argomenti di cui parliamo
perderebbero di senso se non fossero accompagnati da determinati movimenti?
- Silvia Vegetti Finzi: Credo che tale gestualita' non costituisca solo
"un'aggiunta di pathos": spesso serve ad esprimere cio' che non puo' essere
detto altrimenti. Qualche tempo fa ho visto una fotografia che ritraeva una
madre algerina cui hanno ucciso ben otto figli: questa immagine riesce a
rappresentare meglio di mille parole cio' che ha significato la guerra
civile in Algeria, ed e' divenuta l'emblema piu' forte di un conflitto
atroce ed incomprensibile. Lo strazio, il dolore senza limiti rappresentato
dalla gestualita' immediata di questa figura di donna, e' riuscito a
comunicare cio' che le parole non sono state capaci di veicolare. A volte i
gesti non possono essere sostituiti.
*
- Studente: Spesso il linguaggio gestuale risulta piu' spontaneo e sincero
di quello verbale. Cio' accade perche' e' piu' difficile da controllare e da
sottoporre a degli schemi predefiniti o vi sono altre motivazioni?
- Silvia Vegetti Finzi: Come abbiamo gia' detto, il linguaggio gestuale
rappresenta il gradino meno evoluto della comunicazione: e' tipico di certi
animali e dei neonati ed e' caratterizzato da una maggiore immediatezza
rispetto ai linguaggi verbali. Oggigiorno si sono perduti molti codici di
regolazione, ed e' per tale motivo che, nel momento in cui ci abbandoniamo
ad un linguaggio gestuale, risultiamo forse piu' spontanei degli antichi
greci, i quali vivevano in un mondo dove tutto era gia' dotato di un suo
significato. Probabilmente il senso di alcune cose puo' essere riscoperto
proprio attraverso il gesto, un ambito che e' stato tradizionalmente
snobbato dalla nostra cultura e che, per tale motivo, puo' ben rappresentare
 una fonte di creativita'. Il teatro contemporaneo, ad esempio, e' molto
interessato al recupero del gesto, come se esso costituisse una zona franca
per rappresentare cio' che non e' ancora stato messo in scena. Anche in tal
caso vige una sorta di sfiducia nella parola, sfiducia che risulta ancora
piu' paradossale se si pensa che la nostra epoca appartiene alla parola in
grado massimo. Su internet si comunica quasi esclusivamente tramite il
linguaggio scritto e vi si prova addirittura una sorta di "ebbrezza della
scrittura": a chi ci chiede delucidazioni sulla nostra identita', infatti,
possiamo rispondere di essere maschi quando invece si e' femmine, di essere
giovani mentre in realta' si e' anziani e via discorrendo. La nostra
identita' riesce ad acquistare una vasta gamma di possibilita' espressive
tramite la messa fuori gioco del corpo. Certe verita', pero', non possono
essere negate se ci presentiamo con la nostra corporeita'.
*
- Studente: Il linguaggio gestuale, quindi, rappresenta una parte della
comunicazione che andrebbe rivalutata, apprezzata e maggiormente studiata?
- Silvia Vegetti Finzi: A mio avviso si'. Quando si analizza il linguaggio
gestuale, pero', e' molto difficile salvaguardarne la spontaneita', perche'
nello stesso momento in cui affermiamo che questo tipo di comunicazione
dovrebbe essere maggiormente studiato e apprezzato, non possiamo fare a meno
di introdurlo in un codice e riferirlo a schemi culturali ben definiti.
*
- Studente: Uno scrittore ha affermato che "quando si va in campagna con un
amico non bisognerebbe mai parlare". Lei non crede che sia la comunicazione
verbale, sia quella gestuale, implichino la mancanza di una completa intesa
con l'altra persona? Non ritiene che, al contrario, il silenzio possa essere
ritenuto il segno di un'intesa totale?
- Silvia Vegetti Finzi: Il silenzio implica una vasta gamma di espressioni:
vi e' il silenzio oppositivo - quello mantenuto dall'accusato che viene
interrogato dalla polizia, ad esempio -, il silenzio comunicativo - grazie
al quale si possono provare delle emozioni identiche a quelle della persona
che ci e' vicina -, e diversi altri modi di tacere. A rivelare il senso del
silenzio e' il contesto in cui di volta in volta ci troviamo e il suo valore
dipende dalle differenti situazioni comunicative. L'idea che anche il
silenzio possa essere una forma di comunicazione, pero', puo' rappresentare
una grande conquista. In televisione, ad esempio, vige una sorta di horror
vacui: vi e' il terrore che si possano presentare dei momenti di silenzio.
Gli intervistatori tendono a fare un numero infinito di domande e, se per
caso l'intervistato osa deglutire, cercano immediatamente di riempire il
vuoto che si e' creato con un altro intervento. Quello televisivo e' un
ambito saturato dalle parole: non ho mai visto una persona alzarsi in preda
all'ira o all'entusiasmo durante una trasmissione televisiva. In televisione
nessuno usa il corpo per comunicare perche' - anche nei momenti di maggior
tensione - tutti obbediscono a un codice non detto, in base al quale il
corpo deve essere immobilizzato a favore delle parole. Questo e',
sinteticamente, il messaggio televisivo: mostrare un corpo talmente
rattrappito da non lasciare nessuno spazio all'immaginazione. Dal canto suo,
invece, la radio ci lascia immaginare i gesti, perche' nulla appare alla
nostra vista.
*
- Studente: Quale tipo di messaggio potrebbero trasmettere agli spettatori
la negazione e l'immobilizzazione della corporeita'?
- Silvia Vegetti Finzi: La televisione e' sempre emblematica e tende a
trasmettere dei messaggi che fungono da modelli. E' proprio per tale motivo
che ha prodotto una omologazione culturale. Fino agli anni Cinquanta -
quando il mezzo televisivo non era ancora cosi' diffuso -, nei centri piu'
piccoli e periferici era possibile incontrare delle persone che comunicavano
tramite una gestualita' classica: le liti magari tra comari, gli ampi gesti
delle mani, il retrocedere e l'avanzare, erano simili ai movimenti che
abbiamo osservato nel grande teatro tragico. Si tratta di una messa in scena
ormai scomparsa, perche' la televisione, il cinema e i giornali ci hanno
portato ad agire tutti allo stesso modo.
*
- Studentessa: A volte uno sguardo puo' valere piu' di mille parole, ma non
sempre risulta cosi' diretto: come e' possibile che possa essere frainteso e
perdere il suo valore intrinseco?
- Silvia Vegetti Finzi: Lo sguardo e' tradizionalmente potentissimo:
pensiamo agli sguardi tra innamorati o al malocchio, ossia al fatto che
presso intere popolazioni si crede che uno sguardo possa recare gravi danni,
se non addirittura uccidere. Guardarsi negli occhi puo' esprimere tutto,
tanto da risultare inquietante e perturbante, perche' a volte corrisponde a
stati d'animo conflittuali, ambigui o contraddittori. Spesso si presenta il
bisogno di introdurvi la parola per moderare un messaggio eccessivo che
rischia di annullare la distanza necessaria all'atto comunicativo. Se la
giusta distanza viene a mancare, infatti, non vi puo' essere comunicazione:
ogni volta che interloquiamo con un'altra persona, abbiamo sempre paura di
esserle troppo vicini - tanto da esserne assorbiti - o troppo lontani-
quanto basta per non comprendersi -. Tale corretta distanza viene
difficilmente raggiunta attraverso lo sguardo, che di solito ci assorbe
completamente o ci distacca del tutto: e' proprio per tale motivo che esso
deve essere mediato dalla parola, anche se a volte puo' trattarsi di parola
poetica, vale a dire di un linguaggio verbale a carattere percettivo. Quando
si presentano determinati stati emotivi, infatti, e' possibile utilizzare un
linguaggio particolare che adopera i codici della visione piuttosto che
quelli simbolici e astratti. Tra il vedere troppo e il non vedere niente
esiste una vasta gamma di posizioni intermedie.
*
- Studente: Per quanto riguarda l'odierna navigazione in Internet, abbiamo
scelto delle pagine web su Charlie Chaplin, che e' considerato uno dei
maggiori maestri della comunicazione attraverso la corporeita'. Gia' verso
la meta' degli anni Trenta, egli anticipo' molte delle tematiche sul
rapporto tra uomo e macchina, e rappresento' tale relazione attraverso un
uso specifico della gestualita'.
- Silvia Vegetti Finzi: In Tempi moderni, Chaplin ha messo in scena - con
l'immediatezza e la brutalita' tipiche della creazione artistica - il
rapporto tra l'uomo e la macchina grandiosa e plateale della prima era
industriale. Attualmente tale rapporto trova una sua piu' congrua
realizzazione attraverso il computer: a volte viene da chiedersi se lo
strumento sia il computer o l'uomo e ci si domanda dove finisca l'uomo e
inizi la macchina. Osservazioni del genere aprono un altro ambito di
discussione e pongono le basi per una nuova definizione del corpo. Viviamo
nell'epoca dell'informatizzazione, della telematica, dei trapianti di organi
e delle protesi: il corpo non termina piu' con la superficie dell'epidermide
e il mondo esterno non e' piu' quello che inizia dove finisce la pelle. La
nostra fisicita' e' sempre maggiormente definita da elementi estranei,
tecnici e artificiosi.

3. LIBRI. ELENA LOEWENTHAL PRESENTA "IL GOLEM" DI MOSHE IDEL
Dal supplemento "Tuttolibri" del quotidiano "La stampa" del 13 maggio 2006
riprendiamo la seguente recensione del libro di Moshe Idel, Il Golem, trad.
di Antonella Salomoni, Einaudi, pp. XXVIII+314, euro 24, apparsa col titolo
Ripensare il Golem in tempi di biotecnologie.
Elena Loewenthal, limpida saggista e fine narratrice, acuta studiosa; nata a
Torino nel 1960, lavora da anni sui testi della tradizione ebraica e traduce
letteratura d'Israele, attivita' che le sono valse nel 1999 un premio
speciale da parte del Ministero dei beni culturali; collabora a "La stampa"
e a "Tuttolibri"; sovente i suoi scritti ti commuovono per il nitore e il
rigore, ma anche la tenerezza e l'amista' di cui sono impastati, e fragranti
e nutrienti ti vengono incontro. Nel 1997 e' stata insignita altresi' del
premio Andersen per un suo libro per ragazzi. Tra le opere di Elena
Loewenthal: segnaliamo particolarmente Gli ebrei questi sconosciuti, Baldini
& Castoldi, Milano 1996, 2002; L'Ebraismo spiegato ai miei figli, Bompiani,
Milano 2002; Lettera agli amici non ebrei, Bompiani, Milano 2003; Eva e le
altre. Letture bibliche al femminile, Bompiani, Milano 2005; con Giulio Busi
ha curato Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal
III al XVIII secolo, Einaudi, Torino 1995, 1999; per Adelphi sta curando
l'edizione italiana dei sette volumi de Le leggende degli ebrei, di Louis
Ginzberg.
Moshe Idel e' docente di pensiero ebraico alla Hebrew University di
Gerusalemme, e uno dei maggiori studiosi viventi della Qabbalah. Tra le
opere di Moshe Idel: L'esperienza mistica in Abraham Abulafia, Jaca Book,
1992; Cabala ed erotismo. Mimesis, 1993; Cabbala'. Nuove prospettive, La
Giuntina, 1996; (con Mauro Perani), Nahmanide esegeta e cabbalista. Studi e
testi, La Giuntina, 1998; Maimonide e la mistica ebraica, Il Nuovo
Melangolo, 2000; Mistici messianici, Adelphi, 2004; Il Golem, Einaudi, 2006]

Niente di nuovo sotto il sole, direbbe l'Ecclesiaste, il piu' disincantato e
umano fra i libri del codice biblico. La sua condanna (o forse era un
privilegio?) a non conoscere mai lo stupore non avrebbe il benche' minimo
cedimento davanti agli ultimi orizzonti dell'ingegneria genetica, alle
vertiginose prospettive della piu' avveniristica biotecnologia.
Se l'Ecclesiaste non e' piu' fra noi per esternare la sua invidiabile
lucidita', in fondo basta guardare il passato con un occhio un po'
particolare, per non stupire. O soltanto per incontrare puntualmente un
precedente anche per la storia che pare piu' inedita. E cosi', prima di
entrare in un qualsiasi girone della chirurgia estetica o strabiliare di
fronte alle provette di Dna, prima di preoccuparsi per le terrifiche sorti
che attendono un mondo divenuto vulnerabile preda delle manipolazioni
genetiche, vale la pena ripensare al Golem. Magari con il sussidio del
professor Moshe Idel e del suo studio ora pubblicato in italiano e dedicato
a "L'antropoide artificiale nelle tradizioni magiche e mistiche
dell'ebraismo".
Golem e' una parola dalla polivalenza assai interessante, in ebraico:
significa originariamente "bozzolo". Ma anche "embrione", essere non ancora
giunto allo stadio definitivo. Comunemente si usa per apostrofare una
persona non proprio geniale, un "tontolone" insomma. Ma il golem per
antonomasia e' naturalmente, per cosi' dire, quel gigante ingenuo costruito
a tavolino per vie magiche, che ha una lunga vita nella tradizione ebraica
ed e' l'antenato della creatura di Frankenstein ma anche dell'incredibile
Hulk (colore a parte).
A mezza strada fra l'imitatio Dei e la blasfemia piu' arrogante, l'idea di
un umanoide riproducibile attraverso la tecnica e l'umano ingegno e' in
fondo gia' suggerita nella narrazione della Genesi: qui infatti tutto e'
prodotto da Dio "soltanto" con la parola, in nome di un simultaneo "detto
fatto". Tutto tranne Adamo il quale, invece, e' ricavato da una terragna
materia prima con cui il Signore lo modella, prima di insufflargli la vita.
Protagonista di una ricca letteratura speculativa, magica e mistica che si
dispiega lungo circa millecinquecento anni, anche il golem e' un insieme di
sostanza umile e concreta (polvere e fango) e di afflato superiore. Quello
di Praga che, con la sua mole e la sua forza, salva la comunita' ebraica,
aveva incisa in fronte una parola in lingua sacra: Emet. Che significa
"verita'" ed e' una mirabile raffigurazione dell'essere, perche' inizia con
la prima lettera dell'alfabeto ebraico, termina con l'ultima e porta in
centro la consonante mediana. Questa parola miracolosa era l'afflato che
dava vita al golem: per placarlo non restava che espungere la lettera alef
ed emet diventava met, cioe' "morto".
Creatura mitica ma anche prefigurazione delle potenzialita' umane al
confronto con la sapienza divina (o, per dirla laicamente, con le frontiere
ancora inesplorate della scienza), il golem ha una ricca letteratura che
procede dalle istruzioni per l'uso alla speculazione piu' astratta. Questo
homunculus corpacciuto fa la sua comparsa, a partire dall'epoca tardoantica,
nei momenti di sogno e in quelli di disperazione. E' un essere insulso che
non sa ragionare ma ubbidisce ciecamente agli ordini del suo demiurgo,
sempre che qualcosa non vada per storto. Per secoli ha rappresentato un
traguardo metafisico ma anche il modesto apparato muscolare di un popolo
inerme cui era rimasta, se non altro, la licenza di vagheggiare il proprio
goffo superman fatto in casa, all'occorrenza.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 69 del 22 giugno 2006

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