La nonviolenza e' in cammino. 1429



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1429 del 25 settembre 2006

Sommario di questo numero:
1. Come e' possibile?
2. Domenico Gallo: Il muro di gomma di Nassiriya
3. Maria Felicia Schepis: La comunita' in divenire. Dal principio dialogico
di Martin Buber
4. La "Carta" del Movimento Nonviolento
5. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE: COME E' POSSIBILE?

Come e' possibile tacere dinanzi all'orrore della guerra afgana?
Come e' possibile tacere dinanzi alle stragi compiute dalla Nato?
Come e' possibile tacere dinanzi alla illegale e criminale partecipazione
militare italiana alla guerra?
Come e' possibile tacere dinanzi a una politica assassina che avalla ed
alimenta il terrorismo?
*
Se in Italia vi e' qualcuno che ha a cuore la pace e rivendica il diritto
alla vita di tutti gli esseri umani, cosa aspetta a chiedere l'immediata
cessazione della partecipazione italiana alla guerra?
Cosa aspetta a chiedere che lo stato italiano contesti e denunci i crimini
della Nato, alleanza di cui fa parte?
Cosa aspetta a chiedere che la politica internazionale del nostro paese
inverta la rotta rispetto a quella seguita dal 1991 ad oggi, e torni al
rispetto della Costituzione, e si impegni quindi per costruire la pace con
mezzi di pace, per contrastare tutti i terrorismi, per il disarmo, per la
smilitarizzazione dei conflitti, per la cooperazione e la solidarieta' tra
gli ordinamenti giuridici, i popoli e le persone?
L'opposizione alla guerra e' il compito dell'ora.
La nonviolenza e' la via.

2. RIFLESSIONE. DOMENICO GALLO: IL MURO DI GOMMA DI NASSIRIYA
[Dal quotidiano "Liberazione" del 20 settembre 2006. Una sola osservazione
sul capoverso conclusivo: ovviamente e' frutto di scrittura frettolosa e non
meditata sostenere che il mentire sia piu' grave dell'uccidere esseri umani;
nulla e' piu' grave dell'uccisione di esseri umani (p. s.). Domenico Gallo
(per contatti: domenico.gallo at tiscali.it), illustre giurista, e' nato ad
Avellino nel 1952, magistrato ed acuto saggista, gia' parlamentare, tra gli
animatore dell'Associazione nazionale giuristi democratici; tra i suoi
scritti segnaliamo particolarmente: Dal dovere di obbedienza al diritto di
resistenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia 1985;
Millenovecentonovantacinque, Edizioni Associate, Roma 1999; (a cura di, con
Corrado Veneziano), Se dici guerra umanitaria. Guerra e informazione. Guerra
all'informazione, Besa, 2005; (a cura di, con Franco Ippolito), Salviamo la
Costituzione, Chimienti, Taranto 2006. Vari suoi scritti sono disponibili
nel sito www.domenicogallo.it]

Nel 1991 un coraggioso film di Marco Risi, Il muro di gomma, denunciava i
silenzi, gli ostacoli e i depistaggi operati dai vertici militari per
impedire l'emergere della verita' in ordine alle responsabilita' per la
sciagura del Dc9 dell'Itavia, abbattuto da "ignoti" sui cieli di Ustica il
27 giugno 1980. All'epoca sembrava che si potessero aprire delle crepe, ma
il muro di gomma ha tenuto e la vicenda di Ustica si e' conclusa con
l'impossibilita' di accertare la verita' e di punire i responsabili del suo
occultamento.
Fatte le dovute proporzioni, un'altra strage di innocenti ha turbato la
coscienza felice del nostro paese: si tratta della strage dell'ambulanza di
Nassiriya, fatta esplodere dai militari italiani durante la seconda
battaglia dei ponti, nella notte fra il 5 ed il 6 agosto 2004, provocando la
morte di una partoriente, con il bambino, e di tre suoi familiari.
*
Se c'e' un'azione disonorevole, anche durante una guerra, questa e'
indubbiamente quella di aprire il fuoco contro i feriti, i malati, le
partorienti o i mezzi di soccorso che li trasportano, tanto che
l'espressione "sparare sulla Croce Rossa" e' diventata una metafora per
indicare un comportamento vigliacco ed ingiustificabile.
Questo evento, cosi' drammatico ma non inusitato in un teatro di guerra,
dove le truppe americane hanno sparato piu' volte sulle ambulanze, rischiava
di incrinare, imbrattandolo con uno schizzo di sangue indelebile, il mito
della missione di pace. Una missione dettata da una politica di mero
servilismo nei confronti dell'alleato americano che il governo Berlusconi
aveva venduto all'opinione pubblica italiana, poco incline alle imprese
guerresche, come una impresa umanitaria, volta a portare aiuti alla
popolazione civile e ad aiutare la ricostruzione del paese.
Quel mito doveva essere difeso contro ogni evidenza, tanto che dopo la prima
battaglia dei ponti, il 6 aprile 2004, il ministro della difesa, Martino
aveva dichiarato al Parlamento che "la nostra e' una missione di pace. Chi
parla di coinvolgimento dei nostri militari in una guerra stravolge la
realta'".
A questo punto ci mancava solo l'uccisione di una partoriente con il bambino
per rovinare definitivamente "l'immagine" della missione dei nostri soldati
in Iraq.
*
La soluzione a questo problema - politico, umano e militare - e' stata
trovata immediatamente, rispolverando il "metodo Ustica", che cosi' bene
aveva funzionato in passato.
Poiche' nella civilta' della comunicazione la realta' e' la comunicazione,
gli eventi reali possono anche essere cancellati, basta fornire false
comunicazioni ed impedire che i fatti veri entrino nel circuito della
comunicazione. Cosi' e' capitato che il portavoce del contingente militare
italiano, il capitano Ettore Sarli, abbia trasformato - con un comunicato
stampa - l'ambulanza in una "autobomba", che i militari italiani hanno
giustamente fatto esplodere, sventando un insidioso tentativo d'attacco. In
fondo e' elementare: basta qualificare come terroristi la partoriente ed i
suoi parenti ed ecco che un'ambulanza si trasforma in un'autobomba. Per
completare questa trasfigurazione dell'evento e' intervenuto addirittura il
comandante del contingente, il generale Corrado Dalzini, il quale, il 28
agosto 2004, ha consegnato un encomio al lagunare che ha avuto l'ordine di
sparare contro l'ambulanza, perche' "con il suo coraggioso ed esemplare
comportamento, contribuiva a conferire ulteriore lustro e prestigio al Corpo
di appartenenza ed alla forza armata in ambito multinazionale".
E' inutile dire che questa coraggiosa operazione di trasfigurazione
dell'evento ha trovato la massima comprensione nel governo Berlusconi,
tant'e' vero che il 27 agosto del 2004, in occasione di una seduta delle
Commissioni riunite esteri e difesa della Camera e del Senato il ministro
degli esteri Frattini (con la complicita' del ministro della difesa Martino)
ha respinto, con indignazione, ogni addebito relativo alla vicenda
dell'ambulanza, dichiarando che la notizia era completamente falsa.
Testualmente: "E' sbagliato ed ingiusto asserire che i nostri militari hanno
sparato contro un'ambulanza con una donna incinta a bordo. Semplicemente non
e' vero".
Evidentemente il Ministro Frattini pensava di mettere il coperchio sulla
pentola di Nassiriya, confidando sulla sua autorita', ispirandosi al
principio del diritto romano secondo cui Auctoritas facit veritatem
(l'autorita' fa la verita'). Ma i fatti sono duri a morire e la verita',
anche quando viene sommersa da un diluvio di menzogne, poi ritorna quasi
sempre a galla.
*
In effetti tutto sarebbe filato liscio, se non si fosse messo di mezzo il
fato cinico e baro. In questo caso il fato e' rappresentato dalla presenza,
al campo italiano, di un giornalista americano ficcanaso, Micah Garen, il
quale non si e' bevuto la verita' ufficiale e si e' preso la briga di fare
una sua inchiesta personale, intervistando l'autista dell'ambulanza,
miracolosamente sopravvissuto, raccogliendo testimonianze e filmando il
veicolo spacciato per autobomba. Micah Garen ci ha raccontato i fatti di cui
e' stato testimone, attraverso un libro, American hostage, pubblicato negli
Stati Uniti nell'ottobre 2005. Ma quello che e' veramente interessante, e'
che adesso i fatti li accertera' l'autorita' giudiziaria, in modo
incontrovertibile, demolendo il muro di gomma, poiche' e' di pubblico
dominio che la procura militare di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di
tre militari italiani con l'imputazione di aver sparato contro l'ambulanza.
Purtroppo questa notizia non ha avuto il rilievo che meritava. Da un punto
di vista politico-istituzionale, la gravita' di questa vicenda non sta nel
fatto in se', malgrado la sua drammaticita', poiche' in un teatro bellico
puo' capitare anche questo: che per paura o per stupidita' si apra il fuoco
contro un'ambulanza. La gravita' - e quindi la vera notizia - sta nel fatto
che i vertici militari abbiano tentato di nascondere l'evento, proprio come
e' accaduto ad Ustica, e che i vertici politici (il governo Berlusconi)
abbiano mentito spudoratamente al parlamento, mostrandosi complici del
disegno di nascondere la verita' di una strage. E' questo comportamento -
piu' che gli spari - cio' che veramente disonora il nostro paese.

3. RIFLESSIONE. MARIA FELICIA SCHEPIS: LA COMUNITA' IN DIVENIRE. DAL
PRINCIPIO DIALOGICO DI MARTIN BUBER
[Dal sito della Societa' italiana di filosofia politica (www.sifp.it)
riprendiamo il seguente saggio di Maria Felicia Schepis, "La comunita' in
divenire. Dal principio dialogico di Martin Buber", il cui testo,
parzialmente modificato, e' tratto dal volume Confini di sabbia.
Un'ermeneutica simbolica dell'esodo, Giappichelli, Torino 2005. La Societa'
italiana di filosofia politica "ringrazia la casa editrice Giappichelli per
aver autorizzato la pubblicazione".
Maria Felicia Schepis insegna ermeneutica del linguaggio politico
all'Universita' di Messina. Opere di Maria Felicia Schepis: Confini di
sabbia. Un'ermeneutica simbolica dell'esodo, Giappichelli, Torino 2005.
Martin Buber, filosofo, educatore, scrittore e straordinario uomo di pace,
e' nato a Vienna nel 1878 ed e' deceduto a Gerusalemme nel 1965. Per almeno
tre ragioni Martin Buber e' uno dei nostri maestri piu' grandi: per essere
il grande filosofo del principio dialogico, che pone alla base del nostro
esserci la relazione io-tu; per essere il grande uomo di pace che sempre
oppose la civilta' e la comprensione alla violenza e alla chiusura; per
essere il grande amorevole ricercatore delle tradizioni e delle memorie dei
pii, degli umili e dei dimenticati. Opere di Martin Buber: tra le sue opere
segnaliamo Il principio dialogico, Comunita', Milano 1958 (contiene anche il
saggio Ich und Du); Il problema dell'uomo, Patron, Bologna 1972; Sentieri
iin utopia, Comunita', Milano 1967; Immagini del bene e del male, Comunita',
Milano 1965; L'eclissi di Dio, Comunita', Milano 1965; Sette discorsi
sull'ebraismo, Israel, Firenze 1923, Carucci, Assisi-Roma 1976; Israele. Un
popolo e un paese, Garzanti, Milano 1964; Gog e Magog, Bompiani, Milano
1964; La leggenda del Baal-Schem, Israel, Firenze 1925; I racconti dei
chassidim, Longanesi, Milano 1962, 1978, Garzanti, Milano 1979; La regalita'
di Dio, Marietti, Casale Monferrato 1989; La fede dei profeti, Marietti,
Casale Monferrato 1985; Mose', Marietti, Casale Monferrato 1983. Cfr. anche,
con Franz Rosenzweig, Prigioniero di Dio, Studium, Roma 1989; e il dibattito
con Gandhi, in M. K. Gandhi, M. Buber, J. L. Magnes, Devono gli Ebrei farsi
massacrare?, in "MicroMega" n. 2 del 1991 (pp. 137-184). Opere su Martin
Buber: per un'introduzione cfr. Clara Levi Coen, Martin Buber, Edizioni
cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1991]

1. Il Due e' all'origine

"La dualita' tiene insieme le alternative"
(S. Levi Della Torre, Zone di turbolenza)

Due indici protesi uno verso l'altro quasi si toccano, intervallati da un
brevissimo spazio che demarca la "distante prossimita'" (1) tra il Creatore
e la sua creatura, tra Dio e Adamo, l'uno di fronte all'altro nella loro
assoluta differenza. Questo particolare della Creazione, nel suggestivo
affresco dipinto sulla volta della Cappella Sistina, si presta come
raffigurazione emblematica di un'apertura relazionale. Un'apertura che
l'uomo sembra dover sopportare come costitutiva del suo essere al mondo.
All'inizio e' infatti la dualita', non l'unita', ricorda la tradizione
rabbinica, una dualita' simboleggiata dalla bet, la seconda lettera
dell'alfabeto ebraico, con valore numerico due, iniziale di bere'sit ("In
principio"), parola inaugurale della Torah (2).
Le riflessioni di Martin Buber muovono a partire da questa prospettiva. Nel
tempo di crisi di ogni certezza il filosofo ebreo suggerisce di ricominciare
dall'inizio. Di ricominciare proprio dall'uomo. Non come individuo,
tuttavia, ma nella sua noita' originaria. Lungi dal riferirsi ad un'entita'
unitaria indifferenziata, egli parla del noi come di una dualita'. Pensa
cioe' il fondamento del reale come una struttura relazionale raccolta nella
parola io-tu (3): una dicotomia intrinseca, io e tu, un'antinomia
insolubile. Come quella tra Dio e Adamo nella Creazione michelangiolesca,
assicurata dal breve spazio tra i loro indici rivolti l'uno verso l'altro.
Chi tenta di pensare una sintesi, afferma Buber, "distrugge il senso della
situazione" dell'uomo (4). Il noi e' una realta' eterogenea: ognuno non
riceve l'altro che per restare altro da lui. Un con-essere ontologico,
dunque, senza fusione, ma nella relazione. Scrive infatti: "Solo la visione
dell'ente che mondanamente mi e' di fronte nella pienezza della sua presenza
e nei confronti del quale io stesso, presente nell'interezza della mia
persona, mi sono posto in relazione, mi da' veramente il mondo come
totalita' e unita'" (5).
Questo orientamento supera il principio individualistico, di cui il cogito
cartesiano era stato vessillo, secondo cui l'io e' autosufficiente e in
opposizione negativa e inconciliabile con cio' che e' fuori di esso.
Oltrepassa cioe' la prospettiva della solitaria essenza stabile e chiusa per
sostenere l'esistenza (existieren) dell'io in direzione del tu: non vi e'
"alcun io in se', ma solo l'io della parola fondamentale io-tu", afferma
Buber (6).
D'altro lato si discosta pure dal punto di vista di coloro che, come
Heidegger, pur intuendo l'impossibilita' di un ego che non sia gia' da
sempre un noi (dasein), pensano ad un indifferenziato "si impersonale" (7),
ovvero rifiutano l'idea che l'altro stia di fronte all'uno in un rapporto di
necessaria separazione, intervallato dal fra, garanzia contro qualunque
forma di pensiero totalitario.
Buber constata che tuttavia la nostra epoca - "epoca senza casa
(Hauslosigkeit)" (8) - ha dimenticato il fondamento relazionale, riducendo
il tu che da sempre ci accompagna all'esso, a oggetto da conoscere, da
manipolare, da considerare come "macchina adatta ai molteplici usi" (9).
Allo stesso modo, circondato da "contenuti", anche l'io e' diventato
fissita'. Incapace di presente egli si e' pietrificato come il passato,
poiche' il presente nasce "solo attraverso il farsi presenza del tu" (10).
Invero, riflette, "in tempi malati succede che il mondo dell'esso, non piu'
percorso e fecondato dal mondo del tu che vi affluisce come una corrente
vitale, separato e arenato, come un immenso fantasma palustre, prevale
sull'uomo" (11).
Per cacciare l'"immenso fantasma", ossia per superare la tendenza verso
l'esperienza oggettivante dell'essita' che rende anche l'uomo cosa, Buber
ritiene necessario ripronunziare il tu. Unilaterale, egoico, spaesato,
solamente nell'incontrarsi con l'altro l'io puo' far ritorno alla realta'
autentica da cui si e' allontanato.
Posta nei termini buberiani la domanda "che ne e' dell'uomo?", lungi dal
condurre verso soluzioni solipsiste, si capovolge dunque in un'altra
domanda: "che ne e' della comunita'?". Che ne e' dell'unico spazio possibile
dell'uomo con l'uomo? Per recuperarne le tracce bisogna chiarire
innanzitutto il significato di relazione, a partire dalla quale solamente,
per Buber, la comunita' puo' essere ricostruita.
Relazione e' certamente "reciprocita'" (Gegenseitigkeit), ma non
"reversibilita'": la risposta del tu cioe', spiega il filosofo, "non e'
semplicemente un'eco della parola dell'io che rimbalza sul tu", poiche' il
tu non e' identico all'io (12). Ciascuno non e' una copia come quella
prodotta dal Demiurgo greco, bensi' un originale, come Adamo, ad immagine e
somiglianza di Dio e degli altri uomini, ma non identico ad essi (13).
Reciprocita', dunque, nella piu' radicale differenza: se il tu non e'
riducibile ad oggetto, neppure e' riconducibile a duplicazione, ad alter ego
dell'io. Per Buber insomma tra l'io e il tu deve esistere un intervallo che
nel separare distingua, ma che nel distinguere sia anche area di contatto.
Parlare di differenza non vuol dire invito a prendere le distanze -
atteggiamento tipico della tendenza individualistica all'altruicidio.
Differenza significa, invece, allo stesso tempo, distacco - necessario ad
impedire la confusione in una totalita' indistinta - e legame tra le diverse
parti di una realta'. Parti che stanno una di fronte all'altra, legate tra
loro senza scopo alcuno. Partecipazione dunque, e' la forma dello stare in
relazione: "Chi e' nella relazione e' parte di una realta', cioe' di un
essere che non e' semplicemente in lui, ne' semplicemente fuori di lui. Ogni
realta' e' un effetto di cui sono parte senza poterlo far mio" (14).
Un relazionarsi senza nessuno scopo conoscitivo, senza "alcun fine, alcun
desiderio, alcuna anticipazione" (15). Quanto piu' la relazione al tu e'
immediata, tanto piu' la partecipazione si compie.
Partecipazione che rende l'io consapevole di non essere individuo ma
persona. Mentre l'individuo, infatti, non e' partecipe di alcuna realta',
argomenta Buber, la persona e' in un legame costitutivo con gli altri, si
delinea nella relazione. Questa distinzione terminologica e' ancora piu'
convincente se si pensa che persona e' etimo latino di maschera, che per sua
natura richiama la  proiezione verso l'esterno, evoca l'essere-per-l'altro
(16).
Relazione e' dunque reciproco prender parte della stessa realta'. Ma e' solo
nel suo dispiegarsi dialogico che essa puo' venire pienamente compresa,
poiche' "i momenti della relazione sono uniti dall'elemento del linguaggio
in cui sono immessi" (17).
*
2. L'apertura dialogica
"Conosco tre specie di dialogo: quello autentico - non importa se parlato o
silenzioso - in cui ciascuno dei partecipanti intende l'altro o gli altri
nella loro esistenza e particolarita' e si rivolge loro con l'intenzione di
far nascere tra loro una vivente reciprocita'; quello tecnico, proposto solo
dal bisogno dell'intesa oggettiva; e il monologo travestito da dialogo, in
cui due o piu' uomini riuniti in un luogo, in modo stranamente contorto e
indiretto, parlano solo con se stessi" (18).
Nel dialogo le differenze trovano una comune abitazione. Dia-logos, non
logos. Buber infatti respinge le valenze totalitarie del logos ereditato
dalla grecita', che, anche nella pretesa di funzionare come dialogo, era
soprattutto tecnica argomentativa per giustificare, dimostrare, motivare
cio' che veniva affermato come verita' da racchiudere nell'indiscutibilita'
di un concetto. Logos che, ispirando il sapere scientifico della modernita',
si e' tradotto in un linguaggio che inchioda nelle sue formule ogni fonema.
Un linguaggio "proposto solo dal bisogno dell'intesa oggettiva" (19) che
finisce per risuonare monologo, fissita', che fa esistere l'altro soltanto
come esperienza, fino a sopprimere lo spazio in cui ogni relazione possa
avvenire. A vivere nel monologo - riflette Buber - "e' colui che non e'
capace di rendere sostanzialmente reale la societa' all'interno della quale
(...) si muove". Infatti, rimarca, "l'esistenza monologica" non percepisce
nulla "al di la' dei limiti del proprio io" (20). Testimone diretto della
crisi occidentale, egli considera questo parlare senza in-tendere
responsabile dello sfibramento dei legami sociali. Percio' ritiene
essenziale riscoprire il potere dialogico della parola. Quel potere
intimamente vitale nelle valenze del dabar della cultura ebraica, alla quale
pure egli appartiene, che l'Occidente e' ormai incapace di riconoscere.
Influenzato proprio dall'ebraismo che svaluta l'immobilita' (21), il
filosofo pensa infatti il linguaggio in termini di movimento. Non il
movimento fondamentale del monologo che e'  il ripiegarsi, cioe' "il
sottrarsi all'accettazione dell'essere di un'altra persona", bensi' il
movimento fondamentale del dialogo, il rivolgersi, che "significa
accettazione dell'alterita'" (22).
Dialogo e' dunque il medium che impedisce che io e tu dileguino nella
reciproca indifferenza. Segnala l'io come presenza e riconosce la presenza
autonoma dell'altro come essere unico con un "nome proprio" (23). E'
apertura, cammino verso cio' che e' distante, verso cio' che rimane nella
sua incolmabile distanza. E' esodo, sforzo verso una meta, attesa
inesauribile di pienezza. E' attraversamento della distanza, ponte,
prossimita'. Prossimita' senza fusione, ma piuttosto "carezza", come direbbe
Levinas, contatto che non profana (24). Percio' la "reciprocita'" di cui
parla il filosofo implica la reciproca rinunzia al totale assoggettamento
dell'altro alla propria conoscenza, lasciando che l'altro resti irriducibile
ad un sapere che incorpora. Un margine di silenzio - "il silenzio di ogni
linguaggio" - scrive Buber, "lascia libero il tu", lo distanzia
abbracciandolo, e' con lui, impedisce che si trasformi in esso (25).
Nella reciprocita' dialogica la parola e' domanda dell'io rivolta al tu, ma
e' anche risposta, responsabilita' (respondere) nei confronti di chi
interpella: Responsabilita' presuppone uno che mi appella primariamente, da
una regione indipendente da me, al quale io debbo rendere conto (...).
Questa e' la realta' della responsabilita': rendere conto di qualcosa che ci
e' stato affidato da un essere che ci da' fiducia (...). Dove nessun appello
primario mi puo' toccare, perche' tutto e' 'mia proprieta'', la
responsabilita' e' diventata un'ombra. E contemporaneamente si dissolve il
carattere reciproco della vita. Chi non da' piu' risposta, non percepisce
piu' la parola" (26).
Responsabilita' e' capacita' di rispondere a colui che "mi appella", a colui
al quale "debbo render conto" poiche' chiamandomi mi si affida, mi da'
fiducia, a colui che mi "presta attenzione" (27). Responsabilita' che dal
punto di vista relazionale implica corresponsabilita', una sinergia
reciproca, un flusso dialogico che va e viene dall'io al tu. Se cessa tale
flusso la relazione, cristallizzandosi, si spegne. Certamente l'ex-posizione
e' un rischio, avverte il filosofo, poiche' la domanda puo' rimanere senza
risposta e il dialogo puo' morire sul nascere. Ma se la reciprocita' si
realizza, allora l'interumano fiorisce nel dialogo autentico (28).
Nel tempo in cui sembra salvifico solamente arroccarsi nell'unita', il
richiamo di Buber al dialogo responsabile, attraversato da espliciti toni
etici, puo' essere inteso come invito a scardinare la monoliticita' della
soggettivita', a deporre la pretesa dell'io alla sovranita', ad incamminarsi
verso la comunita'.
*
3. Verso la comunita'
La comunita' e' per Buber la soluzione al problema dell'uomo. Ma cosa
intende il filosofo per comunita'? Egli non pensa alla comunita' naturale,
in cui i rapporti sono determinati da vincoli di sangue o dalla terra,
piuttosto che cercati attraverso la tensione e l'impegno personale (29). E
non pensa  neppure alla massa, in cui l'uomo "e' come un fuscello stretto in
un fascio che galleggia sull'acqua in balia della corrente" (30), senza
capacita' di movimento autonomo, ottusamente perduto in essa. Specifica
inoltre che comunita' non e' da scambiare con alcuna forma di collettivismo
verso cui pare incline la modernita': "la conduzione dei gruppi, soprattutto
nell'ultimo scorcio della storia umana - scrive infatti - e' piu' incline a
reprimere l'elemento della relazione personale a favore di quello puramente
collettivo". "L'uomo - continua - si sente sorretto dalla collettivita', che
lo solleva dalla solitudine, dall'angoscia del mondo, dallo smarrimento", ma
in realta' limita "l'inclinazione al rapporto personale (...), come se
coloro che sono riuniti nel gruppo dovessero insieme essere rivolti
principalmente solo all'opera del gruppo" (31). Tutte quelle collettivita'
composite sono "affastellamento": gli individui stanno "impacchettati
insieme", uno vicino all'altro, perduti in una soffocante totalita' che
tende a rimuovere, in chi ne e' parte, persino la capacita' di porsi il
problema di se', nell'illusione di vivere in una societa' tecnicizzata
perfettamente controllabile (32). Percio' - conclude - mentre il collettivo
diventa cio' che ha esistenza vera, la persona non e' che un'esistenza
derivata, cui non compete nemmeno piu' la piena responsabilita' (33). In
fondo il collettivismo per il filosofo non e' che "l'atteggiamento
complementare e susseguente all'individualismo" (34), nasce anzi proprio
dallo scacco strutturale di quest'ultimo, che provoca come reazione
"l'immersione e la dispersione nella struttura anonima del gruppo" (35).
Alternativa sia all'individualismo che al collettivismo, la comunita' e' per
Buber un sistema di relazioni interpersonali connesse con un centro.
Affinche' si realizzi, due condizioni appaiono necessarie.
Prima condizione. La comunita' "consiste nel non essere piu' semplicemente
uno vicino all'altro, ma nell'essere uno presso l'altro di una molteplicita'
di persone che (...) ovunque fa esperienza di una reciprocita', di un
dinamico essere di fronte" (36). Comunita' cioe' non e' da intendersi come
un essere comune, come l'heideggeriano "si impersonale", bensi' come un
essere in comune, che prevede al suo interno il pluralismo, reso possibile
dal riconoscimento reciproco dei singoli componenti: "il fondamento
dell'essere uomo-con-l'uomo", afferma invero Buber, consiste nel "desiderio
di ogni uomo di essere confermato per cio' che e' (...) e la capacita'
innata dell'uomo di confermare allo stesso modo gli uomini come lui" (37).
La comunita' nasce dunque da eventi d'incontro. Eventi che possono accadere
solamente nella "dimensione pubblica" (38), quella "struttura fondamentale
dell'alterita'", in cui ciascuno si sente legato, promesso, all'altro.
Alcuni atteggiamenti tuttavia, avverte Buber, possono deformare il senso
della dimensione pubblica facendo cosi' scivolare l'evento relazionale dalla
sua piattaforma essenziale. Ad esempio l'entusiasmo per il momento storico
che come una sorta di "estasi" conduce verso la massificazione: "la
trasfigurazione della massa e' cosi' abbagliante - scrive - da oscurare ogni
alterita' e la persona, sopraffatta da un'estasi inebriante, scompare nel
movimento della vita pubblica". Un altro atteggiamento, opposto al
precedente, e' dato dalla passivita', dalla fusionalita', dall'omologazione:
"e' l'usuale 'stare dalla parte' dell'opinione pubblica e del pubblico
'prendere posizione'". Atteggiamento che mina il terreno del confronto,
cancella i segni dell'alterita' e convince "che l'uniformita' e' la
realta'". Queste distorsioni sono sconosciute da colui che, invece, vivendo
con la dimensione pubblica senza affidarsi ciecamente ad alcuno, decide da
solo. Poiche' "la dimensione pubblica non e' affastellamento, ma legame", in
essa il tu e' "cercato, incontrato, tratto dalla massa" come persona (39).
Seconda condizione. Per Buber si puo' parlare di comunita' se i
prolungamenti delle linee degli incontri io-tu convergono verso il centro,
se, in altri termini, si realizza cio' che egli definisce conversione. Con
l'espressione "conversione" (Umkehr) Buber intende la capacita' di superare
l'atteggiamento centrifugo dell'individuo per volgersi-di-nuovo verso il
punto da cui si diparte l'onda di ogni sfera di relazione. Conversione e' un
cambiar direzione, o meglio un ritornare dalla non-direzione alla direzione,
alla "via" (40).
Chi abita il centro? Per Buber e' il Tu divino, "il custode della sepolta
potenza della relazione" (41), colui che  puo' avvertirsi come "soffio" ad
ogni incontro con il tu, colui che, definito il "totalmente Altro" (42), e'
anche il "totalmente Presente", colui che, "mysterium tremendum" (43), e'
anche "il mistero di cio' che e' ovvio". La possibilita' di relazionarsi con
la centralita' di Dio, scrive il filosofo, "abbraccia e comprende la
possibilita' di relazione con ogni alterita'" (44).
Ma nel nostro tempo Dio e' stato eclissato (45). Scomparso dal cielo del
mondo, la sua centralita' viene ereditata dall'uomo da quando il processo di
secolarizzazione, facendo cadere nell'oblio la memoria della relazione
originaria col "vero centro in cui si dispongono le molteplici relazioni",
ha finito con lo svuotare la dimensione comunitaria della sua anima.
Cosicche' oggigiorno il mondo e' affollato da diverse comunita' di interessi
che tuttavia appaiono sistemi chiusi, comunita' solo di nome.
Buber avverte la necessita' di riscoprire la relazione verticale (io-Tu),
rispondendo a "Colui che silenziosamente invoca" (46) attraverso la
relazione orizzontale (io-tu). Avverte in altri termini la necessita' di far
ritorno al senso del sacro che possa rendere all'uomo la forza di aprirsi
ancora ad una possibilita' d'uscita, la forza di attendere che il parlare
fatto di domande ottenga un'ultima risposta. La forza di attendere, certo,
poiche' il tu non e' che traccia. Se infatti in tempi di disincanto con il
"tu sulle labbra" si e' riconsegnati al mondo, tuttavia, constata lo stesso
Buber, il mistero - cio' "in cui, da cui e verso cui viviamo" - rimane cio'
che era, esso si fa semplicemente "presente a noi", annunziandosi "come
salvezza", ma  non ci dice ancora nulla, non si svela, resta quel silenzio
che accompagna ogni suono. Apre una domanda sul senso ultimo che, rimasto
inespresso, attende una risposta semplicemente possibile. Il margine di
inafferrabilita' del mistero non deve pero' essere interpretato come
sconfitta, come il muro invalicabile di fronte al quale le possibilita'
gnoseologiche dell'uomo si arrestano. Tale margine, invero, come ogni limite
segnala un oltre, invita a sporgersi al di la'. La mancanza di una risposta
definitiva, infatti, alimentando continuamente la domanda, e' apertura
soteriologica, movimento che spezza la chiusura della totalita'. Se il
pensiero logocentrico ci ha abituati a pretendere una verita' compiuta
attraverso risposte certe ed evidenti, l'ebraismo, filtrato dal pensiero di
Buber, puo' condurci a pensare che il vero senso si da' nel silenzio, alla
soglia del linguaggio. Nella reciprocita' dialogica dell'incontro io-tu,
infatti, l'uomo non riceve un "contenuto", ma una "forza", la forza di
comprendere che il senso "non ha formula o immagine e tuttavia diviene
certezza". Non puo' essere sperimentato, ma puo' essere attuato (47).
Cosi', mentre il logos greco si mostra insufficiente a spiegare il
significato che sfugge a questa tempo "non piu' sostenuto dalla speranza"
(48), Buber propone l'idea cronologica di "conversione": l'azione dell'uomo
puo' mutare il corso della storia. Il mutamento storico per il filosofo non
e' evoluzione, progresso, come voleva il positivismo, bensi' rottura della
linearita', attimo senza durata, evento (49).
"La malattia della nostra epoca (...) e' una discesa nelle spirali del
sottomondo spirituale, (...) dove non c'e' piu' un avanti e un indietro,
solo l'inaudita conversione" (50).
La comunita' si edifica quindi solamente se l'uomo lo decide. Decisione che
davanti al "varco" (51) e' brivido di estraniazione e il mondo "mette
angoscia" (52), "come quando, nel mezzo di una triste notte, tu giaci
tormentato tra il sonno e la veglia (...) e in mezzo al tormento ti viene in
mente: 'C'e' ancora vita, devo solo farmi strada verso di lei; ma come,
come?'. Cosi' e' l'uomo nell'ora della riflessione, rabbrividisce, soppesa,
non sa dove andare. E tuttavia (...) forse la strada la conosce, e' la
direzione della conversione" (53).
L'ora del varco, l'ora della pura liberta', la liberta' di poter essere
altrimenti, "e' il fecondo punto zero (...), e' la rincorsa per il salto"
(54). Pertanto e' anche il tempo dell'angoscia, il "tormento di una triste
notte". "Tormento" che oggi puo' assumere il benefico valore di un elemento
dirompente, denunciante, rivitalizzante. E' l'inquietudine necessaria a
vedere oltre il buio della "notte", per comprendere che i luoghi del comune
abitare sono diventati sempre piu' somma di individui.
L'ora della liberta', il tempo dell'angoscia, e' anche il tempo della
solitudine, reputata essenziale da Buber ai fini della decisione (55). Non
nel senso tuttavia in cui l'ha intesa un'intera epoca, come ideale modus
vivendi per la realizzazione dell'individuo, bensi' come condizione che
dispone favorevolmente affinche' una questione trovi risposta. La solitudine
nel contesto buberiano e' in altri termini da intendersi come l'effetto di
un momento di crisi di chi sente opprimente la chiusura nei rapporti di
sperimentazione e utilizzazione delle cose. Un momento di crisi decisivo che
orienta alla scelta, che da' occasione affinche' l'uomo affronti in modo
autentico il problema di se'. Se la solitudine e' la condizione per porre la
domanda, la risposta deve essere invece, per il filosofo, il superamento
della solitudine stessa: la comunita' (56).
Dalla sorda chiusura della solitudine, allora, alla capacita' di dare
"ascolto" (57). L'ascolto rinvia infatti alla dimensione pubblica in quanto
misura della capacita' di relazionarsi, della capacita' di prestare orecchio
persino alla sofferenza, condividendola. Non solo la sofferenza che abita la
citta' attuale (che forse non e' cosi' felice come l'Occidente si e'
sforzato di far credere) (58),  ma anche quella procurata dall'attesa che
l'autentica comunita' si compia.
Sta dunque all'uomo decidersi. L'atto della decisione nella sua ultima
ascesa, fa notare Buber, nella lingua ebraica antica si chiama teshuvah. Ed
e' significativo che questo termine indichi contemporaneamente sia la
conversione che l'attivita' di ascolto (59).
Se oggi fare comunita' sembra impossibile perche' non se ne vede piu' il
senso, se anzi l'opacizzazione del senso e' la vera questione, il pensiero
di Buber suggerisce che paradossalmente la comunita' puo' essere riedificata
sulla coscienza di tale opacita', a partire dalla condivisione dell'attuale
impossibilita' di senso, dall'umile comunione di questa impotenza. Comunita'
insomma puo' voler dire comune disponibilita' ad attendere che il silenzioso
non-detto che sottende il dialogare si apra ad una possibile comprensione.
Percio' quella di Buber e' "comunita' in divenire" (60): premessa
dell'autentica esistenza dell'uomo, essa si pone anche come promessa,
destinazione, attesa di compimento.
*
In margine
La comunita' descritta da Martin Buber e' libera da accenti sentimentali o
romantici: "non nasce dal fatto che le persone nutrano sentimenti reciproci"
(61) o dalla "simpatia" (62). Lontana dall'essere pensabile come
un'istituzione che offra "sicurezza", essa dunque e' solo una possibilita'.
Una possibilita' che spetta all'uomo cogliere come alternativa agli
atteggiamenti annichilenti dell'individualismo e del collettivismo. "E' solo
una possibilita' - scrive il filosofo - ma non esiste altro che questa"
(63).
Condividere un dialogo che rinunci alla pienezza della verita', accettare di
nominare il tu lasciandolo esistere nella sua inafferrabilita', disporsi al
mistero cui allude: puo' essere proprio questo in fondo il significato puro
di comunita', luogo di apertura salvifica piuttosto che di mortifera
chiusura. Il dialogo, intervallato da zone di silenzio, rappresenta infatti
il limite della comunita', ma anche la possibilita' del superamento del
limite stesso. La consapevolezza di essere immersi in un linguaggio
inesauribile - sembra volerci dire Buber - rappresenta la grande malinconia,
ma anche la vera forza che alimenta la speranza, che da' energia allo sforzo
verso cio' che salva. In fondo persino Mose' - insegna la tradizione
rabbinica - non poteva aprire che quarantanove porte della conoscenza, la
cinquantesima gli era stata interdetta!
Certo l'invito del filosofo a fare parte di questa comunita' dialogica non
e' indolore. Accettare di aprirsi di nuovo alla comunita' come alla propria
originaria dimora vuol dire abbandonare l'abitudine alla scorza protettiva
di una conclusa totalita'. Significa lacerare la quiete per catapultarsi
all'esterno. Significa esporsi nudi al mondo, donarsi senza riserve
fidandosi dell'altro o, meglio, affidandosi all'altro come ad uno
sconosciuto. Sporgersi verso il tu, riscoprirlo come essenziale al proprio
io, eppure dovervi rinunciare: tutto questo puo' sembrare vertigine. Ma e'
davvero possibile vivere fuori dal luogo comune? Non e' forse piu' rischioso
per l'uomo definire i margini della propria esistenza dentro una monade
senza porte e finestre, dove il proprio monologo consuma ogni possibilita'
di parola a venire?
*
Note
1. P. Stefani, Le radici bibliche della cultura occidentale, Mondadori,
Milano 2004, p. 60.
2. In ebraico i numeri si scrivono con le lettere dell'alfabeto, ogni parola
e' quindi dotata di valore numerico. La gematriyya, tecnica ermeneutica
legata alla tradizione rabbinica, ricava la somma dei valori numerici
relativi alle lettere di uno o piu' termini con lo scopo di interpretare il
testo delle Sacre Scritture. L'uso di studiare il senso di una parola a
partire dal suo valore numerico e' conosciuto anche dai babilonesi, dai
greci - in particolare dai pitagorici -, dagli egiziani. Questa pratica e'
stata introdotta in Israele all'epoca del Secondo Tempio. Sulla tecnica
della gematriyya si veda, tra gli altri, per esempio Giulio Busi e Elena
Loewenthal (a cura di), Mistica ebraica, Einaudi, Torino 1999, in
particolare Introduzione, pp. XXXIII-XXXV; anche P. Stefani, La letteratura
rabbinica, in P. Reinach Sabbadini (a cura di), La cultura ebraica, Einaudi,
Torino 2000, p. 333; inoltre G. Stemberger, Einleitung in Talmud und
Midrasch (1992), trad. it., Introduzione al Talmud e al Midrash, Citta'
Nuova, Roma 1995, p. 48.
3. Cfr. M. Buber, Io e tu, cit., p. 59. La dualita' per Buber e' inscritta
nella natura stessa dell'uomo: "la parola fondamentale io-tu" scaturisce
cioe' "dal legame naturale (...). Infatti - continua - nel linguaggio mitico
ebraico si dice che nel grembo materno l'uomo conosce l'universo, e lo
dimentica alla nascita. E questo legame gli rimane impresso, come misteriosa
immagine di desiderio (...). Come ogni essere che sta per venire al mondo,
ogni figlio d'uomo riposa nel grembo della Grande Madre, di quell'indiviso
mondo originario che precede la forma. Sciogliendosene, si apre alla vita
personale (...), al figlio dell'uomo e' dato il tempo per passare dal legame
naturale che va perdendo al legame spirituale col mondo, cioe' alla
relazione" (ibidem, pp. 76-77).
4. Ibidem, p. 128.
5. M. Buber, Urdistanz und Beziehung (1950), trad. it. A. M. Pastore,
Distanza originaria e relazione, in Il principio dialogico e altri saggi,
cit., p. 283.
6. M. Buber, Io e tu, cit., p. 59. In Recht und Unrecht Buber compie una
distinzione fra i verbi tedeschi vorhandensein ed existieren. Entrambi i
verbi, sostanzialmente indistinguibili nel lessico italiano, si traducono
con "esistere". Tuttavia, mette in rilievo l'autore (come gia' Heidegger in
Essere e tempo), in senso letterale il primo vorhandensein, essere
autocosciente, e' il mero essere presente di chi ritiene che la misura della
vita dipenda dall'Io, di chi non vuole realizzare cio' a cui si e'
"destinati". Mentre existieren e' l'"esistenza autentica e piena", di chi
concepisce l'esistere come "ex-sistere", cioe' uno "stare" che non ha in se'
il proprio centro e punto di equilibrio, ma nell'"ex", fuori di se'. Si veda
M. Buber, Recht und Unrecht (1952), trad. it. T. Franzoni, Il cammino del
giusto, Gribaudi, Milano 1999, pp. 5, 19 e 78.
7. Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), trad. it., Essere e tempo, Utet,
Torino 1969, pp. 214-217.
8. A. Poma, Introduzione, in M. Buber, Il principio dialogico ed altri
saggi, cit., p. 11.
9. M. Buber, Io e tu,  cit., p. 107. Andrea Poma precisa che "non c'e' in
Buber condanna assoluta del mondo dell'esso, della cultura, della scienza,
della tecnica, delle istituzioni, ecc. Tale mondo viene invece riconosciuto
non solo come inevitabile, ma come necessario per dare continuita' e durata
ai frutti della relazione. Cio' che Buber considera come negativo e' il
prevalere del mondo dell'esso sino al punto di sopprimere lo spazio in cui
la relazione possa sempre di nuovo avvenire" (cfr. ibidem, p. 91, nota 20).
10. Ibidem, p. 67.
11. Ibidem, p. 97.
12. Cfr. ibidem, p. 64, nota 6.
13. Su questo aspetto si veda anche la discussione di G. Limone, Il sacro
come la contraddizione rubata, Jovene, Napoli 2000, in particolare p. 270.
14. M. Buber, Io e tu,  cit., p. 103.
15. Ibidem, p. 67.
16. Cfr. ibidem, pp. 103-105. Sul rapporto tra maschera e persona si veda
per esempio C. Bonvecchio, L'uomo e la maschera, Franco Angeli, Milano 2002,
in particolare p. 23. Cfr. anche G. Limone, Il sacro come la contraddizione
rubata, cit., p. 8.
17. M. Buber, Io e tu, cit., pp. 132-134.
18. M. Buber, Dialogo, cit., p. 205.
19. Ivi.
20. Ibidem, p. 206.
21. Significativa la distinzione che in Discorsi sull'ebraismo Buber compie
tra l'uomo ebreo, che definisce "uomo motorio", e l'uomo greco, che
definisce "uomo sensorio".  "Ambedue - egli scrive - sono uomini che sentono
e che agiscono: ma l'uno sente in movimento, l'altro agisce in immagini
(...). Se il Greco vuole dominare il mondo l'Ebreo vuole compierlo; per il
Greco esso e', per l'Ebreo sara'". L'Ebreo ha cioe' bisogno di muoversi
verso "l'unita' che non e' ancora" (cfr. M. Buber, Reden ueber das Judentum
(1923), trad. it. D. Lattes e M. Beilinson, Discorsi sull'ebraismo,
Gribaudi, Milano 1996, p. 60).
22. M. Buber, Distanza originaria e relazione, cit., p. 289; cfr. anche Id.,
Dialogo, cit., pp. 208-209. La cultura ebraica indica nell'episodio biblico
di Caino e Abele un esempio di scacco della relazione, causato dalla
mancanza del reciproco rivolgersi la parola: il dialogo tra i due fratelli
infatti non si stabilisce e i tentativi compiuti si traducono in fratricidio
(cfr A. Neher, L'exil de la parole. Du silence biblique au silence
d'Auschwitz (1970), trad. it. G. Cestari, L'esilio della parola. Dal
silenzio biblico ad silenzio di Auschwitz, Marietti, Genova 1997, p. 107).
Tuttavia - come osserva Domenica Mazzu' - e' proprio nell'eliminare Abele,
ovvero il suo altro, la sua regola, il suo limite naturale, che Caino prende
coscienza del "problema fondamentale della sua identita'" (cfr. D. Mazzu',
Il complesso dell'usurpatore, Giuffre', Milano 1999, p. 33).
23. M. Buber, Elemente des Zwischenmenschlichen (1954), trad. it. A. M.
Pastore, Elementi dell'interumano, in Il principio dialogico e altri saggi,
cit., p. 304.
24. Cfr. E. Levinas, Totalite' et infini. Essais sur l'exteriorite' (1961),
trad. it. A. Dell'Asta, Totalita' e infinito. Saggio sull'esteriorita', Jaca
Book, Milano 1986, pp. 265-266.
25. M. Buber, Io e tu, cit., p. 86.
26. M. Buber, Die Frage an den Einzelnen (1936), trad. it. A. M. Pastore, La
domanda rivolta al singolo, in Il principio dialogico, cit., p. 234.
27. M. Buber, Dialogo, cit., p. 202. Andrea Poma sottolinea che il nesso tra
"responsabilita'" e "risposta", presente come si vede anche nella lingua
latina, e' reso immediatamente evidente da Buber in lingua tedesca,
utilizzando rispettivamente Antwort e Verantwortung, che trovano nel termine
"parola" (wort) il loro legame (cfr. M. Buber, Dialogo, cit., p. 201, nota
8).
28. Cfr. M. Buber, Elementi dell'interumano, cit., p. 306.
29. Cfr. G. Bon, La filosofia dialogale di Martin Buber, Rosini, Firenze
1998,  p. 80.
30. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 255.
31. M. Buber, Elementi dell'interumano, cit., p. 296.
32. Cfr. M. Buber, Dialogo, cit., p. 218; cfr. anche A. Poma, Introduzione,
in M. Buber, Il principio dialogico, cit.,  pp. 14-15.
33. Cfr. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 274.
34. Cfr. M. Buber, Io e tu, cit., p. 105, nota 26.
35. Cfr. G. Bon, op. cit., p. 65.
36. M. Buber, Dialogo, cit., p. 218.
37. M. Buber, Distanza originaria e relazione, cit., p. 288.
38. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 274.
39. Cfr. ibidem, pp. 252-256.
40. M. Buber, Io e tu, cit., p. 132, anche nota 48.
41. Cfr. ivi.
42. Ibidem, p. 116. L'autore richiama l'espressione di Barth (cfr. K. Barth,
Der Roemerbrief (1922), trad. it. G. Miegge, Lettera ai Romani, Feltrinelli,
Milano 2002).
43. Cfr. M. Buber, Io e tu, cit., p. 116. Buber riprende qui la definizione
di Otto (cfr. R. Otto, Das Heilige (1917), trad. it. E. Buonaiuti, Il sacro.
L'irrazionale nell'idea del divino e la sua relazione al razionale,
Feltrinelli, Milano 1992).
44. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 256. Purche' tuttavia,
 mette in rilievo Buber, nello scoprire la relazione con il Tu divino non si
abbandoni il rapporto con il mondo. Il filosofo si riferisce in particolare
a Kierkegaard, con il pensiero del quale si confronta spesso. Se da un lato
saluta favorevolmente la categoria kierkegaardiana di singolo nel suo
significato di "diventare per qualcosa", cioe' "entrare in relazione",
d'altro lato le muove critica per il fatto di alludere ad una relazione
esclusiva con Dio sacrificando il legame con il mondo. La rinuncia personale
di Kierkegaard al matrimonio con Regina Olsen, simbolo della rinuncia alla
relazione con il tu mondano, sembra a Buber un'ulteriore conferma che il
filosofo danese ha frainteso il significato di singolo appena conquistato
(cfr. ibidem, pp. 240-248). Afferma infatti Buber: "il singolo realizza
l'immagine di Dio (...) quando con tutto il suo essere dice tu agli esseri
che vivono intorno a lui" (ibidem, p. 247), la relazione cioe' non puo'
prescindere dalla "dimensione pubblica" (ibidem, p. 251).
45. L'eclissi di Dio e' titolo di un'opera di M. Buber: Gottesfinsternis.
Betrachtungen zur Beziehung zwischen Religion und Philosophie (1952), trad.
it. U. Schinabel, L'eclissi di Dio, Passigli, Firenze 2001.
46. M. Buber, Sull'educativo, cit., p. 182. E' importante sottolineare che
Buber con il suo richiamo alla centralita' del Tu divino non intende
alludere ad una concezione politica teocratica. Egli rifiuta espressamente
lo Stato religioso, consapevole che "Dio e' 'oltre', e che pertanto lo Stato
non e' Dio" (cfr. M. Buber, Profezia e politica, cit., p. 8). La religione
invece rappresenta per il filosofo una garanzia della stessa politica, ne
costituisce il "limite critico" in quanto richiamo ad una sfera di mete e di
mezzi che sta sempre oltre ogni realizzazione storica (cfr. ibidem, pp.
20-21).
47. Cfr. M. Buber, Io e tu, cit., pp. 139-140.
48. Si veda a tal proposito anche Sergio Quinzio, Radici ebraiche del
moderno, cit., p. 128.
49. Cfr. M. Buber, Io e tu, cit., p. 146. Tale prospettiva evoca, in termini
biblici, il tempo messianico, il cui evento, per Buber, dipende unicamente
dalla decisione dell'uomo a convertirsi (cfr. M. Buber, Discorsi
sull'ebraismo, cit., p. 61).
50. M. Buber, Io e tu, cit., p. 98.
51. Ivi.
52. Ibidem, p. 110.
53. Ibidem, p. 109.
54. M. Buber, Sull'educativo, cit., p. 170. I richiami al linguaggio
kierkegaardiano sono evidenti.
55. M. Buber, Io e tu, cit.,  p. 134.
56. Cfr. A. Poma, Introduzione, in M. Buber, Il principio dialogico, cit.,
pp. 13-14.
57. M. Buber, Io e tu, cit., p. 106.
58. Diversi studiosi mettono in rilievo come la nostra societa', attraverso
le rassicurazioni della tecnica "operatrice di salvezza", abbia intrapreso
una politica di rimozione del dolore (cfr. per esempio F. Riva, op. cit., p.
68).
59. M. Buber, Discorsi sull'ebraismo, cit., p. 61. Cfr. anche R. Panattoni,
La comunita'. La sua legge, la sua giustizia, Il Poligrafo, Padova 2000, p.
125.
60. M. Buber, Dialogo, cit., p. 218.
61. M. Buber, Io e tu, cit.,  p. 90.
62. M. Buber, Elementi dell'interumano, cit., p. 297. Un concetto rimarcato
esplicitamente anche in Sentieri e utopia: "Dall'idea di comunita' (...)
bisogna tener lontana ogni sentimentalita', ogni esagerazione ed
esaltazione. La comunita' non e' mai stato d'animo e, anche dove e'
sentimento, e' sempre il sentimento di una costituzione. Essa e' la
costituzione interna di una vita comune (...). E' comunanza del bisogno e,
di qui, comunanza dello spirito; comunanza della fatica e, di qui, comunanza
della salvezza" (M. Buber, Pfade in Utopia (1950), trad. it. A. Guadagnin,
Sentieri in Utopia, Edizioni di Comunita', Milano 1981, p. 169).
63. M. Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 262. Per Buber
"l'ossatura della societa' non e' data ne' dai singoli (individualismo
atomistico), ne' dallo Stato, ma dall'associazione volontaria" (cfr. M.
Buber, Profezia e politica, cit., p. 13). Egli sostiene che tra Stato e
societa' debba sussistere una linea di demarcazione che impedisca alla
societa' di servirsi dello Stato per fini di utilita' di parte e allo Stato
di occupare la societa' annullandone il pluralismo consociativo. Buber
cioe', se non cede all'utopia anarchica dell'estinzione dello Stato -
ritenendo anzi che lo Stato e la politica siano realta' perpetuamente
necessarie per la vita associata - pensa tuttavia che sia compito dello
Stato predisporre le condizioni che permettano alle diverse associazioni la
realizzazione armonica e collaborativa delle loro proprie finalita' (cfr.
ibidem, p. 17; anche Id, Sentieri in utopia, cit., pp. 170-172).

4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

5. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1429 del 25 settembre 2006

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