La nonviolenza e' in cammino. 1430



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1430 del 26 settembre 2006

Sommario di questo numero:
1. Luciano Bonfrate: La nonviolenza a meta'
2. Ancora una lettera provinciale
3. Ostalinda Maya Ovalle: Lottando per l'eguaglianza
4. Afif Sarhan: Cresce la violenza in Iraq
5. Enrico Peyretti: Giustizia, pace e verita'
6. Riletture: Franco Restaino, Adriana Cavarero, Le filosofie femministe
7. Riletture: Wanda Tommasi, I filosofi e le donne
8. Riletture: Chiara Zamboni, La filosofia donna
9. Crudelio D'Eucardio: Riduzione del danno
10. La "Carta" del Movimento Nonviolento
11. Per saperne di piu'

1. CONTRORIME. LUCIANO BONFRATE: LA NONVIOLENZA A META'

La nonviolenza a meta'
non e' nonviolenza, ma complicita'.

2. EDITORIALE. ANCORA UNA LETTERA PROVINCIALE

"et veggio 'l meglio, et al peggior m'appiglio"
(Petrarca, Canzoniere, CCLXIV, 136)

Signore,
capita sovente in questi ultimi mesi di leggere opinioni di persone gia'
impegnate per la pace che con il ritorno al governo di partiti sentiti
affini (o verso cui provano un sentimento di sudditanza, per i piu'
variegati motivi) di colpo hanno scoperto le profonde  virtu' della guerra
(cosi' profonde che gentaglia superficiale come chi scrive queste righe non
e' mai riuscita a vederle, e che Tirteo ci perdoni).
Beninteso, questi buoni ed onesti signori non sono cosi' ingenui o storditi
da esplicitamente sostenere che la guerra sia cosa buona (qui da noi e' da
tempo che solo certi letterati amanti del frastuono, e certi esili esteti
estenuati, si prestano ancora a vociferare, in pro dei terroristi di tutte
le risme e di tutte le livree, che la macelleria di carni umane sia un
onorevole mestiere e salvifica una missione); no, continuano a professare la
bonta' della pace, poi - ma proprio alla fine e quasi senza parere, tra un
sospirino ed una lacrimuccia - lasciano aperta una porticina, e da quella
porticina entra l'orco che tutto divora. Come quei signori che "io non sono
razzista, pero'", e naturalmente e' da quel piccolo "pero'" che la furia
razzista irrompe e dilaga. Conosciamo, ahinoi, la canzone.
*
Cosi' capita di leggere ragionamenti assai apprezzabili finche' svolgono
alate e talora acute considerazioni generali (e astratte) sul legno storto
dell'umanita', sulla fallibilita' che ci e' comune, sul dovere della mitezza
e la venusta' della comprensione reciproca, sulla differenza che di
necessita' intercorre tra quell'iperuranio da taluni sognato e questo basso
mondo che a tutti ci tocca qual magione, ed altre soavita' le piu' sapienti,
ma che poi da quelle universali meditazioni deducono conseguenze operative
(ovvero concrete) del tutto sconcertanti e inaccettabili, che di fatto si
riducono:
a) all'accettazione (e di fatto al sostegno) della partecipazione militare
italiana alla illegale e criminale guerra afgana;
b) all'accettazione (e di fatto al sostegno) degli interventi armati nei
conflitti ove occorrerebbero invece interventi non armati e nonviolenti di
aiuto alle vittime e di ricostruzione ad un tempo delle basi materiali e di
quelle sociali, culturali e politiche della convivenza; interventi armati
che ipso facto non promuovono la pace ma prolungano la guerra e
l'oppressione, laddove solo la smilitarizzazione dei conflitti e il disarmo
degli attori tutti apre la via al riconoscimento di umanita', alla
riconciliazione necessaria, alla civile convivenza;
c) all'accettazione (e di fatto al sostegno) della scellerata politica
militarista, riarmista e bellicista perseguita dall'attuale governo italiano
in assoluta continuita' con i governi precedenti (e per cio' stesso con un
consenso parlamentare pressoche' totale, anzi: pressoche' totalitario).
*
Non sara' allora inutile tornare a ripetere alcune banali osservazioni.
La nonviolenza o e' opposizione alla guerra e a tutte le uccisioni, agli
eserciti (statali e privati), alle armi, o non e' nulla. Nulla.
E un movimento per la pace che non si oppone alla guerra non e' un movimento
per la pace, e' un'altra cosa, quell'altra ignobile cosa.
Se non si esce dalla subalternita', si precipita - o si resta, magari assai
comodamente acquartierati - nella complicita'.
*
Gandhi (e lo citiamo non perche' sia per noi una auctoritas infallibile, ma
perche' - avendo nella sua vasta attivita' pubblicistica scritto testi che,
furbescamente sforbiciati e decontestualizzati, possono essere
strumentalizzati a sostegno di ogni tesi - viene oggi sovente evocato dagli
arresi alla guerra, perfidamente e ignobilmente sfigurandolo, finanche a
sostegno della liceita' dell'uccidere: con cio' tradendo fino al
capovolgimento il senso della sua esperienza e della sua proposta) dava
frequentemente buoni consigli di prudenza, era sempre straordinariamente
aperto all'ascolto delle ragioni altrui, agiva il conflitto sempre e solo
per perseguire buoni compromessi; ma non ha esitato a subire persecuzioni e
finanche a trascorrere lunghi periodi della sua vita in carcere pur di tener
ferma la sua opposizione alla violenza del potere: non ci auguriamo la
galera, ma dovendo scegliere tra essere complici delle stragi di stato (ed
ogni guerra consiste di stragi; e sono in verita' stragi di stato anche
quelle dei migranti assassinati nel canale di Sicilia o nelle campagne o
lungo le strade del Belpaese) o finire in galera, ebbene, preferiremmo
finire in galera. Come Gandhi.
Chi invece vuol essere complice della guerra, si accomodi pure, il
competente ministero non manchera' certo di apprezzare.

3. RIFLESSIONE. OSTALINDA MAYA OVALLE: LOTTANDO PER L'EGUAGLIANZA
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di
Ostalinda Maya Ovalle. Ostalinda Maya Ovalle e' una donna rom originaria
della Spagna; si e' laureata all'Universita' del Sussex in antropologia
sociale e cooperazione allo sviluppo; lavora al Centro europeo per i diritti
dei rom, dove dirige l'ufficio per i diritti umani delle donne]

I rom sono un gruppo etnico specifico sparso per il mondo. La mancanza di
dati attendibili rende difficoltoso stimare l'esatto numero della
popolazione globale rom. In Europa, dove i rom sono presenti in tutte le
nazioni con l'eccezione di Malta, ce ne sono approssimativamente 12 milioni.
Le origini dei rom, o zingari, risalgono all'India, ad oltre un migliaio di
anni fa. Attraverso i secoli, essi sono sopravvissuti alla schiavitu', alle
persecuzioni e a diversi tentativi di sterminio, durante il piu' recente dei
quali, l'Olocausto, molte migliaia di rom vennero uccisi dal regime nazista.
Al giorno d'oggi, i rom continuano a sperimentare un alto livello di
discriminazione in aree quali l'istruzione, l'accesso alla casa, all'impiego
e alle cure sanitarie. Il risultato e' che vivono una situazione di
marginalizzazione e poverta'. Il fardello piu' pesante e' sulle spalle delle
donne, un gruppo particolarmente svantaggiato all'interno di un gruppo
svantaggiato.
Verso la fine degli anni '60, i rom cominciarono ad organizzarsi per
migliorare la loro situazione. Le donne rom hanno sostenuto questa causa e
lottato al fianco degli uomini. Tuttavia, la marginalizzazione interna delle
donne nelle loro comunita' e famiglie, e le tradizioni patriarcali, si
riflettono ancora nel movimento rom per l'eguaglianza di diritti. All'inizio
i leader del movimento, in stragrande maggioranza uomini, hanno difeso
apertamente le tradizioni oppressive e le pratiche che pongono le donne rom
in una posizione inferiore rispetto agli uomini. Con il passare degli anni,
capirono che essere palesemente sessisti non guadagnava loro alcun consenso
e diversi leader maschi decisero di cambiare tecnica, e di rimanere
semplicemente in silenzio di fronte ai matrimoni precoci e combinati e
all'esame della verginita' della sposa.
Inutile dirlo, queste tradizioni stabiliscono regole che le donne devono
seguire, mentre gli uomini disegnano le politiche adatte ad assicurarsi che
le donne le seguano effettivamente. I difensori di tali pratiche argomentano
che le basi della "cultura rom" hanno il loro fondamento in esse. Essi
dicono che se le tradizioni cambiassero, la cultura rom e quindi i rom
stessi cesserebbero di esistere, e che chi osa criticare le pratiche
culturali sta criticando il significato dell'essere rom.
Ma queste tradizioni non sono i fondamenti della cultura rom: sono
semplicemente l'estensione della posizione subordinata delle donne nella
comunita' e nella societa'. Inoltre, si tratta di pratiche che mettono le
donne ad alto rischio di subire violazioni dei diritti umani. Solo per fare
un esempio, la richiesta del "test di verginita'" e' correlata all'abbandono
scolastico. Alcune famiglie decidono di togliere le figlie da scuola non
appena raggiungono la puberta', per assicurarsi che esse rimangano "pure"
sino alla notte di nozze. L'alto tasso di abbandono scolastico si collega
all'alto tasso di analfabetismo e riduce sensibilmente le possibilita' di
una donna rom di avere un lavoro.
L'analfabetismo rende le donne rom piu' vulnerabili all'abuso ed alla
discriminazione, poiche' indebolisce le loro capacita' di difendere i loro
diritti legali. Per esempio, le rende maggiormente soggette agli sgomberi
forzati, perche' le donne illetterate non sono in grado di leggere i
documenti con cui le polizie annunciano gli spostamenti. Sono poi piu'
vulnerabili a subire sterilizzazioni coercitive: prima del parto, quando la
donna e' gia' all'ultimo stadio del travaglio, a volte i medici compilano un
documento relativo ad un cesareo, che la donna non e' in grado di leggere,
ma deve firmare. Quando la donna rinviene dall'anestesia spesso scopre che
il documento scritto era una richiesta di sterilizzazione, che lei e' stata
in effetti operata, e non sara' piu' in grado di avere bambini.
I problemi specifici che le donne incontrano sono stati completamente
ignorati dai leader del movimento per i diritti dei rom. Ci si aspetta che
le donne rom lottino per l'eguaglianza dei diritti degli uomini rom, ma che
non chiedano nulla per se stesse. Tuttavia, il ruolo chiave che le donne
rivestono nelle comunita' ha reso assai difficile ai rappresentanti di sesso
maschile tenerle fuori dal movimento. Le donne rom hanno una posizione
duplice e paradossale all'interno della famiglia: da un lato, si suppone che
debbano essere subordinate ed obbedienti ai membri maschi della famiglia;
dall'altro lato devono essere attive e dinamiche, sia all'interno che
all'esterno della comunita', e occuparsi di tutto quello che concerne la
vita di ogni giorno, dalla cura dei figli al benessere dell'intera famiglia.
Percio' e' solo questione di tempo, nonostante l'opposizione dei leader
maschi, il fatto che le donne divengano ancora piu' attive all'interno del
movimento per i diritti dei rom.
Parlando dei problemi che affrontano come donne, hanno gia' spezzato la
barriera che separa la "sfera pubblica" (dove gli uomini concentrano di
preferenza la loro attenzione) e la "sfera privata", in cui il ruolo
subordinato delle donne viene giustificato e rinforzato tramite la
tradizione. In questo modo le donne rom hanno ridefinito ed allargato il
movimento. Non si tratta piu' del diritto del rom maschio all'interno delle
societa', ma dei diritti di ciascuno e ciascuna, dei diritti umani
universali. In piu', tramite l'inclusione dei contributi delle donne, i
diritti di altri sottogruppi svantaggiati all'interno della comunita' rom,
come i bambini, hanno acquisito peso e rilevanza.
Il movimento delle donne rom per i diritti umani e' molto sfaccettato,
giacche' riflette l'appartenenza a segmenti diversi interni alla comunita'
rom (le anziane, le giovani, le istruite, le analfabete). Spazia dal gruppo
di donne rom spagnole che si sono organizzate nella prima associazione
femminile rom, l'Asociacion de Mujeres Gitanas "Romi", con lo scopo di
ottenere licenze di guida per poter trasportare le loro merci da mercato a
mercato, al gruppo di donne rom studenti universitarie, riunite nel gruppo
"Romani Women's Initiative", che stanno portando avanti ricerche sulla
pratica dei "test di verginita'".
In qualunque campo le donne rom attiviste per i diritti umani decidano di
agire, e' un fatto assodato che il loro contributo rende il movimento piu'
inclusivo. La comunita' rom non raggiungera' l'eguaglianza di diritti sino a
che le donne rom non saranno viste come eguali, sia rispetto ai non-rom, sia
rispetto agli uomini.

4. MONDO. AFIF SARHAN: CRESCE LA VIOLENZA IN IRAQ
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di
Afif Sarhan apparso su "Irin News". Afif Sarhan e' giornalista
corrispondente dell'agenzia d'informazioni dell'Onu "Irin news"]

Baghdad, Iraq. La violenza e l'uso della tortura sono aumentati a livello
esponenziale, in Iraq, sin da quando inizio' l'occupazione guidata dagli Usa
nel 2003, dicono gli analisti politici locali.
"La violenza in Iraq ha distrutto l'integrita' e la struttura del paese.
Sviluppo e ricostruzione sono stati rallentati e in piu' lo stato dei
diritti umani, che doveva essere la ragione per l'invasione statunitense, e'
peggiorato se si paragona all'epoca del regime di Saddam Hussein", dice
Barak Ibrahim, politologo e docente all'Universita' Mustansiryiah.
Ibrahim ed altri specialisti dicono che la violenza in Iraq continuera'
nonostante i diversi piani di riconciliazione proposti, perche' l'insorgenza
e le azioni delle milizie sono collegate all'occupazione Usa. "Se
analizziamo in profondita' le cause che alimentano un tale livello di
violenza vedremo che alla fine e' in special modo la presenza delle truppe
statunitensi ad aver generato rivolte di ogni tipo, e solo quando esse
lasceranno il paese saremo in grado di cominciare a parlare di un
miglioramento delle condizioni di sicurezza", continua Ibrahim.
Gli analisti hanno fatto questi commenti a seguito dell'uscita, mercoledi'
scorso, del rapporto della Missione di assistenza Onu per l'Iraq (Unami),
che attesta la rapida crescita delle violazioni dei diritti umani in Iraq e
la preoccupante percentuale di decessi: "Le violazioni dei diritti umani, in
particolare il diritto alla vita ed all'integrita' personale, continuano ad
accadere con allarmante frequenza giornaliera in Iraq". Sempre secondo il
rapporto, i corpi che vengono inviati all'obitorio della capitale portano
abitualmente segni di gravi torture, incluse abrasioni provocate dall'acido,
bruciature dovute a sostanze chimiche, pelle mancante, ossa rotte (schiene,
mani e gambe), occhi e denti mancanti, e ferite causate da elettricita' e
chiodi. Le autorita' irachene confermano che i corpi trovati negli ultimi
sei mesi presentano questi segni di tortura.
"Sfortunatamente, le informazioni rilasciate dall'Unami nel suo rapporto
sono vere, e riflettono la realta' dell'Iraq odierno. Alcuni dei corpi erano
stati torturati al punto che la loro identificazione e' stata impossibile",
commenta il dottor Fa'aq Amin, direttore dell'Istituto di medicina legale al
Ministero della salute.
*
Il documento dell'Unami riporta che 3.590 civili sono stati uccisi nel
luglio 2006, e 3.009 in agosto. Il Ministero della salute iracheno dice che
dei decessi di luglio circa 1.855 sono dovuti a violenza settaria o
politica, e circa 1.583 a bombardamenti e sparatorie. Solo all'obitorio di
Baghdad sono arrivati 1.800 cadaveri in luglio, e 2.000 in agosto. "E'
possibile," aggiunge il dottor Amin, "che i numeri siano in realta' piu'
alti, perche' non tutti gli omicidi che avvengono nel paese sono poi
registrati da noi".
Piu' di 20.600 civili iracheni sono morti dall'inizio di quest'anno, secondo
l'Unami. Il conto fatto dall'ong "Iraq Body Count" stima fra i 43.269 e i
48.046 i civili uccisi dall'inizio dell'occupazione.
"Le violazioni dei diritti umani non sono solo crimini contro l'umanita', ma
anche la negazione della vita che gli iracheni avevano sognato durante il
regime di Saddam Hussein, e che ora non possono avere", commenta Khuman
Ahmed, consigliere al Ministero per i diritti umani.
Il rapporto Unami ha anche sottolineato il crescente numero di crimini
commessi contro le donne nel paese: "Nella lotta alla violenza
generalizzata, le autorita' locali, regionali e centrali dovrebbero fornire
maggior protezione alle donne rispetto ai crimini commessi all'interno della
famiglia, incluso ogni tipo di violenza agita contro le donne e le bambine
in nome dell''onore'".
"L'uccisione di una donna, in Iraq, non suscita la stessa attenzione, da
parte dei media, di quella di un uomo. I delitti d'onore sono un terrore che
le donne irachene stanno soffrendo e i responsabili dovrebbero essere
chiamati a risponderne", dice Nuha Salim, portavoce dell'Organizzazione per
la liberta' delle donne, ong con base a Baghdad.
*
L'uscita del rapporto Unami e' avvenuta il giorno prima del passaggio di
consegne dalle truppe inglesi e italiane alle forze di sicurezza irachene
nella provincia di Dhi Qar, nel sud dell'Iraq.
Si tratta della seconda provincia, su diciotto, a sperimentare il ritiro di
truppe straniere, la prima fu la confinante provincia di Muthanna nello
scorso luglio. Dhi Qar ha sofferto un numero minimo di attacchi sin dal
2003. Gli analisti sono tuttavia scettici sul fatto che il ritiro portera'
stabilita' a lungo termine. "Il passaggio di consegne a Dhi Qar e' un buon
inizio, ma non fara' alcuna differenza per gli insorgenti e le milizie. La
base e' ancora la', e i militari statunitensi non hanno la piu' pallida idea
di quando lasceranno il nostro paese. Ogni giorno la data del ritiro viene
posposta, causando piu' morti e piu' violenza", dice il professor Barak
Ibrahim.
Il governo Usa sostiene che non puo' ritirare le proprie forze sino a che
quelle irachene non siano sufficientemente addestrate a prendere il loro
posto. Nel suo discorso dell'11 settembre, il presidente Bush lo ha
ribadito: "Stiamo addestrando le truppe irachene perche' possano difendere
la loro nazione. Stiamo aiutando la forza di un governo unito a crescere e a
servire il proprio popolo. Non ce ne andremo sino a che questo lavoro non
sara' finito. Qualsiasi errore sia stato fatto in Iraq, il peggiore sarebbe
pensare che se ce ne andiamo i terroristi ci lasceranno in pace. Non lo
faranno. Ci seguiranno. La sicurezza dell'America dipende dal risultato
della battaglia che si svolge nelle strade di Baghdad".
Gli insorgenti rispondono che non cambiera' nulla sino a che le truppe della
coalizione non avranno lasciato il paese. "Solo quando vedremo gli americani
andarsene dall'Iraq butteremo le armi nella spazzatura", ha detto Abu
Khalifa, uno dei portavoce della milizia detta "Esercito di Muhammad".

5. DOCUMENTAZIONE. ENRICO PEYRETTI: GIUSTIZIA, PACE E VERITA'
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per averci
messo a disposizione il testo del suo intervento alla tavola rotonda del 10
settembre 2006 nell'ambito del convegno svoltosi a Pisa nel centenario della
nascita del satyagraha. Come e' evidente, la redazione di questo foglio non
condivide alcune opinioni espresse nella seconda parte di questo testo.
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei principali collaboratori di questo foglio,
ed uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; ha
insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e
diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora
regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno
Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e'
membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace
delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista
"Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro
Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e
del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie
prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei
Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e
politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e' disponibile
nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza
guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di
cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie
Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico
Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu' volte
riproposta anche su questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari
suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.info e
alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu'
ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731
del 15 novembre 2003 di questo notiziario]

A) Giustizia e pace
1. "Opus justitiae pax" (Isaia  32, 17): "la pace e' frutto della
giustizia". Prima la giustizia, poi potra' esserci la pace come suo frutto.
Non c'e' dubbio! Ma facilmente questa verita' diventa: prima la (mia)
giustizia - come la penso e la vedo io - poi la pace. Per la giustizia si fa
anche la guerra: tutte le guerre si dicono fatte per imporre la giustizia
(la nostra giustizia)! Percio': "no justice no peace", e siccome la
giustizia e' un orizzonte, un'idea regolativa, e sempre ne manca un po', e
la mia giustizia non e' la tua, e sempre qualcuno ne rivendica per se', e
sempre ci sono torti offese violenze da togliere e riparare, dunque non si
fa mai pace.
Proviamo a invertire: "Opus pacis justitia": "la giustizia e' frutto della
pace". Facciamo questo "esperimento con la verita'" analogo a uno di quelli
che fece Gandhi: egli sblocco' il vincolo violento che constatava tra una
"teo-logia" determinata e la verita', passando dal dire "Dio [come lo penso
io] e' verita'" - cioe': la mia cultura e' verita', la mia civilta', i miei
valori sono la verita' - al dire "la Verita' e' Dio", cioe' Dio (il massimo
valore, il massimo Bene) e' la' dove nessuno puo' dire di essere pienamente
arrivato: solo se tu fossi arrivato alla Verita' potresti dire che i tuoi
valori, la tua civilta', sono i valori tutti veri; ma la Verita' e' sempre
piu' avanti di tutti i passi umani pur veri in parte, percio' in parte falsi
o fallibili.
Cosi', noi proviamo a invertire il detto di Isaia: "la giustizia e' frutto
della pace": prima la pace, poi il suo frutto: la giustizia. Ma lo troviamo
anche nella Bibbia stessa: lettera di Giacomo 3, 18: "Il frutto della
giustizia e' seminato nella pace da coloro che operano nella pace".
Primo risultato: la giustizia non e' frutto della guerra, come il precedente
pensiero ci permetteva di illuderci. La guerra e' "l'antitesi del diritto"
(Bobbio), cioe' della giustizia; frutto della guerra e' solo la
sopraffazione del piu' forte, violento, spregiudicato; per puro caso puo'
accadere cha la maggior ragione sia dalla sua parte, ma e' merito del caso,
non della guerra.
Troviamo che anche il grande Erasmo ripete (nel Dulce bellum inexpertis e
nella Querela pacis): "Meglio una pace ingiusta di una guerra giusta". E la
Cassandra di Christa Wolf: "Tra uccidere e morire [tra vincere e perdere]
c'e' il vivere". E il film Wargames avvertiva: in questo gioco, l'unica
mossa vincente e' non giocare. E allo slogan ultraatlantico della guerra
fredda "meglio morti che rossi" era sensato opporre "meglio rossi che
morti", e dunque anche "meglio americani che morti" e oggi: "meglio
musulmani che morti", perche' finche' c'e' vita c'e' speranza.
Allora, noi dobbiamo dire oggi, non "la pace verra' dalla sicurezza" (dalla
guerra che pretende di sradicare il male che temiamo), ma "la sicurezza e'
un effetto della pace", e non la sua condizione. E dobbiamo dire non che ci
deve essere dappertutto la nostra democrazia perche' ci sia pace, ma
piuttosto che la pace favorira' dappertutto la difesa dei diritti umani.
Devo ad Armido Rizzi (vedi la sua relazione dal titolo: Dalla pace alla
giustizia: il perdono. Esperienza religiosa e educazione alla pace, in: AA.
VV., Pace, giustizia, salvaguardia del creato, Las, Roma 1998, pp. 31-48.
N. B. Il titolo stampato, sia nel corpus del libro sia nell'indice, e'
inspiegabilmente sbagliato: "Dalla giustizia alla pace..."!), questa
inversione, suggerita dalla logica evangelica: prima la riconciliazione
(dare e accettare pace), prima il perdono, poi la giustizia come frutto.
Leggiamo in Matteo (5, 23-24): "Se dunque presenti la tua offerta
sull'altare e li' ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te,
lascia li' il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il
tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono": il culto di Dio e' giusto,
ma il primo culto e la prima giustizia e' togliere la divisione tra te e il
tuo fratello. Anzitutto offrire la riconciliazione a chi ti e' avversario o
nemico, anche se tu non hai inimicizia verso di lui, ma c'e' tra voi il suo
risentimento, che impedisce una pace positiva (qualcosa di piu' del
cessate-il-fuoco)! La riconciliazione ha la precedenza sul culto, e' il
primo culto vitale, e' esercizio di "sacerdozio esistenziale" (Severino
Dianich, teologo), cioe' di esistenza in contatto col Bene.
Laicamente il culto e' la celebrazione, la consapevole esaltazione dei tuoi
valori di civilta', delle tue persuasioni profonde: questa valorizzazione e'
legittima e giusta, ma non deve precedere la ricerca di soluzione del
conflitto che ti divide e ti oppone all'Altro, allo straniero,
all'immigrato, al diverso per lingua, cultura, religione, costumi,
all'antipatico, al concorrente...
Se posponi la pace con lui all'esaltazione dei tuoi valori, a cio' che per
te e' la giustizia, e pretendi che lui li riconosca, allora il frutto della
pace non verra' mai. Tornare sul conflitto rimosso, per cercare
riconciliazione e' gestire attivamente il conflitto nonviolento,
costruttivo; e' nonviolenza all'opera.
*
2. Dunque, certamente, perche' ci sia pace occorre che ci sia giustizia,
cioe' assenza di violenza strutturale; dunque la parola di Isaia e' vera:
togliere l'ingiustizia e' condizione della pace; porre giustizia da' come
frutto la pace. Ma e' altrettanto vero che la giustizia e' frutto della
pace, cioe' si realizza la giustizia coi mezzi pacifici, nonviolenti; per
non confondere la giustizia con la volonta' egoista del piu' potente, del
prepotente, con la mia volonta' soggettiva, la giustizia va pensata nel
"diritto".
E il diritto in quale senso? Non solo nel senso dell'ordinamento giuridico,
del "governo delle leggi e non degli uomini", che e' lo stato di diritto e
la democrazia, non solo nel senso del sistema vigente di assegnazione e
distribuzione del potere, del diritto "positivo", le leggi vigenti di fatto;
ma, ancor piu', nel senso di "diritto" che compete in modo essenziale alla
persona, quello per cui Antonio Rosmini  diceva che la persona e' "diritto
sussistente", quella "legge non scritta", a cui fa appello Antigone. Cioe'
non una legge o un sistema giuridico, non il diritto di possedere questa o
quella cosa o di fare questa o quella azione, ma diritto nel senso di
dignita' inviolabile di ogni persona.
La giustizia come frutto della pace non e' soltanto la legalita', perche'
"giusto" non e' sempre l'ordine esistente, il diritto oggettivo, che puo'
essere il "disordine stabilito" (Emmanuel Mounier). Ma "giusto" e' il
comportamento di colui che, pur nei comuni limiti umani, riconosce,
rispetta, realizza il diritto-dignita' altrui, specialmente del povero, del
bisognoso, dell'oppresso, ed e' quindi "uomo giusto". E' giustizia frutto di
pace non l'ordine imposto dal piu' forte, ma la giustizia "resa" al povero,
all'ultimo, all'oppresso, alla vittima, quella cioe' che "restituisce"
qualcosa che era negato alla dignita' di una persona, o categoria di
persone.
Nei termini evangelici che abbiamo sentito, Dio vuole questo "culto"
esistenziale della dignita' del mio prossimo, prima del culto religioso reso
alla sua santita'. La pace produce giustizia perche' pace e' anzitutto
non-violare (ahimsa), non negare la vita e dignita' altrui (pace negativa);
e poi soprattutto e' cercare la positiva realizzazione del suo diritto (pace
positiva).
Si costruisce pace col "rendere" (non "prendere") giustizia; dal restituire
dignita' a ciascuno viene un ordine collettivo giusto e pacifico, dignitoso
e buono per tutti.
*
3. C'e' dunque questa circolarita': 1) la giustizia produce pace, perche'
riconoscere e dare il dovuto ottiene relazioni di reciproca soddisfazione,
senza rivendicazioni aspre  (la pace maggiore, per Raymond Aron e Norberto
Bobbio); 2)  la pace produce giustizia: cioe' la buona disposizione verso
l'altro, l'empatia, la rinuncia a violenza e dominio, la costruttivita'
favorevole verso la sua vita, la generosita' del perdono e riconciliazione,
rendono all'altro giustizia nel senso piu' pieno, di dignita' venerata, e
ottengono maggiore probabilita' di reciprocita' nella giustizia.
"Per avere pace bisogna dare pace" ha detto Moni Ovadia, l'attore e autore
ebreo, all'inizio della guerra di Israele al Libano. Cio' vale per questi
due popoli e vale sempre per tutti.
*
4. Bisogna essere giusti, piu' che forti e minacciosi, per avere
probabilita' di pace. La sicurezza viene dal dare sicurezza. Mettere paura,
minacciare, cercare potenza, e' gia' ingiustizia e suscita nell'altro
minacciosita', volonta' di potenza a sua volta. Parte l'inseguimento a
cercare pace nel farsi e sentirsi "maggiori" (Pat Patfoort): parte cosi'
l'escalation che in realta' allontana dalla giustizia e dalla pace.
Allora, la giustizia e' la vera sicurezza? E' la formula securitaria, in
luogo della potenza? No, non si e' giusti solo per stare tranquilli: questo
scopo non basta a sostenere nell'impegno di essere giusti. Inoltre, anche il
giusto (persona o popolo) puo' ricevere male. Il giusto puo' ricevere
ingiustizia. La malvagita' esiste. L'impulso di sopraffazione e ingiustizia
esiste. Motivi e nodi irrisolti di precedenti antiche ingiustizie, che
spingono alla violenza, esistono.
Trattare il violento (attuale o potenziale) con una giustizia superiore alla
sua, e' la garanzia non assoluta, ma la maggiore possibile, di potere
stabilire una pace con lui. Offrire pace preventiva, invece di minacciare e
fare guerra preventiva, ovviamente nella vigilanza e prudenza, e' la
probabilita' maggiore possibile di ottenere che esso ripensi e riduca le sue
intenzioni aggressive.
Ostilita' e minaccia non nascono improvvisamente da un uomo-diavolo, da una
cultura diabolica, come se prima di loro e fuori di loro tutto fosse giusto
e pacifico. Ogni violenza trova facilmente, se vuole, una sua
giustificazione: non solo quella tutta infondata del lupo della favola per
mangiare l'agnello (causa inesistente come le armi di distruzione di massa
in Iraq), ma qualche reale ingiustizia passata o presente: per esempio
essere una dittatura duramente repressiva, alla quale dunque si fa la guerra
del bene al male.
Di causa in causa si puo' risalire a Caino, e anche lui pensava di avere le
sue ragioni; cercare la giustizia come condizione preliminare alla pace, e
dunque sradicare ogni ingiustizia, e' opera infinita - guerra infinita per
la giustizia infinita (parole teologico-titaniche di Bush) - che non
raggiungera' mai la pace.
Questa pretesa di giustizia assoluta non solo allontana indefinitamente la
pace ma stabilisce la guerra sistematica, senza fine.
*
5. Il male dell'altro - violenza, ingiustizia, terrorismo - non rende mai
giusta una risposta analoga: un male non rende giusto un altro male. La
prima giustizia da rendere anche a chi non e' giusto - prima di qualunque
giustizia punitiva e correttiva, o rieducativa e risocializzante, di cui si
dovranno accuratamente vedere fondamento, limiti, effetti - e' trattarlo da
uomo: un uomo che sbaglia, ma un uomo; un uomo cattivo, ma non demonio, non
pura sostanza di cattiveria. Un uomo come noi, che abbiamo in noi qualcosa
di cio' che condanniamo in lui.
Percio', anche demonizzare Hitler e' sbagliato: lo si spinge a comportarsi
piu' che mai da demonio. Serve ad assolvere la nostra comune umanita' dalla
relativa corresponsabilita', remota o prossima, col male fatto da lui. Se e'
un demonio non e' un uomo, non abbiamo nulla a che fare con lui. Invece
abbiamo a che fare. E' un uomo violento e malvagio, non e' la violenza e la
malvagita' sussistenti. Non e' l'eccezione unica, ma un massimo del male di
cui siamo tutti capaci, delle ingiustizie che in qualche relativa misura noi
commettiamo.
Fatto demonio o bestia, il violento, il nemico, non e' piu' umano, non e'
piu' uno di noi, lo possiamo ammazzare, anzi dobbiamo ammazzarlo per
purificarci: ed ecco allora che, disumanizzato un umano a causa di un suo
errore, noi restiamo disumanizzati e commettiamo la stessa cosa disumana di
cui lo accusiamo e per cui lo condanniamo.
"Summum jus summa injuria": la pretesa di somma, assoluta, indiscutibile
giustizia produce la somma ingiustizia. Il frutto della giustizia somma, o
sommaria - giustizia infinita - e' ben altro che la pace: e' la guerra
infinita.
Se il violento e' un uomo ha la parola e la ragione, seppure dirette male da
un animo (un "cuore smarrito" dice Isaia) che ha smarrito il contatto vitale
con il resto dell'umanita', come una pianta sradicata dal terreno di cui
vive. Trattarlo con la parola e la ragione, anche solo per contrattare
l'utile e il conveniente ad entrambi, e' la maggiore probabilita' possibile
di riavvicinarlo all'umanita', di riguadagnarlo all'umanita'. Parlare,
trattare, contrattare e' sempre meglio, piu' giusto, piu' umano, meno
costoso, piu' vantaggioso, che scendere al confronto violento, e lasciar
decidere alla maggiore violenza, non alla maggiore ragione.
Percio', anche ai terroristi si parla, si deve parlare. Quanto meno essi
parlano un linguaggio umano, tanto piu' si deve noi parlare linguaggio
umano. Piu' essi ci trascinano al linguaggio ottuso della violenza, piu' ci
si deve rifiutare a questa contaminazione disumanizzante.
Se dicono le loro ragioni o i loro pretesti, si apre la possibilita' di
discuterne, in cio' che dobbiamo accettare, in cio' che dobbiamo contestare
e respingere. Liquidare, come si fa di solito, come "farneticanti" i loro
messaggi, per quanto effettivamente farneticanti, ottiene di confermarli
nella farneticazione, e di scavare irrimediabilmente la distanza.
E con cio' passiamo dal binomio giustizia e pace al binomio pace e verita'.
*
B) Pace e verita'
Questo tema mi pare piu' difficile dell'altro.
1. La verita' sta nella relazione giusta tra noi, piu' che nel "vedere"
(theorein), nello "scoprire" (aletheia, svelamento) le cose nella loro
totale ultima essenza.
Il "pensiero debole" dice: verita', evidenza, e' violenza, e' imposizione.
Ma intende una verita' schiacciante, estrinseca, metafisica, a cui reagisce
perche' e' "troppo" forte. Invece e' verita' il riconoscimento reciproco, la
giustizia, la buona relazione. La relazione buona e' rapportarsi con verita'
alla verita' dell'altro.
Si tratta di "fare verita'" della nostra vita, piu' che di registrare una
verita' che si impone al pensiero: la "filosofia prima" e' l'etica, non la
metafisica (Levinas); vivere la verita', vivere nella verita', piu' che
soltanto conoscerla e pensarla.
Percio' la costruzione attiva di relazioni giuste, per iniziativa mia, senza
porre la condizione che sia l'altro a stabilire la buona relazione. Il
vangelo suggerisce una regola attiva e creativa: "Date senza attendere
restituzione" (Luca 6, 35). Fare credito arricchisce l'insieme, la
relazione. Lasciar vivere (non fare violenza; ahimsa; non-violenza) e' bene;
far vivere, cioe' liberare, contribuire, aiutare, servire, donare, e'
meglio, ha piu' verita' (satyagraha). La prima delle due cose e'
"non-violenza", la seconda e' "nonviolenza", satyagraha, forza attiva della
verita' vissuta, non solo pensata e contemplata.
*
2. La verita' del satyagraha non e' l'inaccessibile verita' assoluta,
metafisica, non e' quella pretesa che il pensiero debole teme per la sua
violenza; e' invece la verita' vivente nell'altro (verita' della relazione)
e la verita' dei fatti come sono, belli o brutti (verita' dei fatti).
Grande esempio di pace e verita' e' stato il processo di "verita' e
riconciliazione" nel Sudafrica uscito dalla violenza sia dell'apartheid
imposto dai bianchi, sia dalla  rivolta dei neri: un'uscita nella verita',
una pace pur sempre fragile e imperfetta, ma sperimentata in luogo della
probabile catena di vendette reciproche.
Dunque, verita' dei fatti: riconoscere torti errori e colpe nei nostri
comportamenti, limiti e contraddizioni della realta', di cui tenere conto,
come si deve tener conto delle opportunita', dei vincoli del possibile e del
necessario, che sono regola (limite e appoggio) dell'azione. La verita' dei
fatti significa fedelta' alla realta', umilta' dello stare nella realta',
certo per promuoverla verso il suo inveramento ulteriore, ma senza fughe
irreali, che abbandonano la realta' (persone, situazioni, problemi,
sofferenze, aspirazioni) a se stessa, al suo peso, senza sollevarla.
Cio' non significa identificare realta' e verita', fatto e ragione, storia e
spirito (Hegel), ma vedere la differenza e congiungere i poli di un cammino,
senza tagliare la relazione dinamica.
*
3. Abbiano bisogno di verita': reagire alle falsita', alla realta' senza e
contro la verita', quelle realta' che offendono le dignita': il dominio,
l'ingiustizia, le false relazioni, l'abbandono, le risposte violente alle
violenza.
Il bisogno di verita' salva dalla rassegnazione al dato, e' speranza che
vince la disperazione riguardo alla pace e alla giustizia. Abbiamo bisogno
di sentire l'assenza di verita', di soffrire questo vuoto, di non accettarlo
come normale: questo vivere l'assenza sembra un nulla, un non-fare e
non-avere, ma in realta' e' lo stimolo e il primo passo dell'azione
positiva.
*
4. Oggi c'e' un "conflitto di verita'" (di "civilta'"), di verita' parziali,
assolutizzate, strappate e armate (vedi Ernesto Balducci, L'Altro. Un
orizzonte profetico, Giunti 2004). Parliamo di "fondamentalismi" o
"integralismi", ma non e' male avere un fondamento, non e' male conservare
integri certi valori e tradizioni; il problema reale e' il "totalitarismo",
che si ha quando una visione della verita' si fa esclusiva e totale,
pretende di avere tutta la verita'. Mentre le verita' oneste, umili e aperte
sanno di non essere "tutto", pur essendo vere, e dunque possono convivere,
imparando dagli scambi reciproci con altre verita', le verita' totalitarie
devono negare cio' che e' altro da loro come semplicemente falso.
*
5. Anche la nostra nonviolenza e' una convinzione profonda, una persuasione
irrinunciabile, ma credo che non possiamo sentirla, viverla, opporla nel
dibattito sociale come una verita' assoluta, senza problemi. Non sarebbe
buona nonviolenza se fosse acritica, senza pazienza e rispetto dei tempi,
con accuse di tipo "bolscevico" di deviazionismo a chi accetta la necessita'
della gradualita' e la parzialita' (= procedere per parti, anche con
compromessi chiari) nel cammino della nonviolenza. Mi torna in mente la
teoria del "social-fascismo", nel 1929 e 1932 (chi era socialista moderato
era un fascista!), che fece fallire il movimento social-comunista di fronte
ai fascismi Altrimenti si rischia di fare della violenza ideale in nome
della nonviolenza, e si scandalizza chi osserva e legge i nostri dibattiti,
o si da' soddisfazione a chi pensa la nonviolenza come un ideale fanatico,
violento. "Violenza dei nonviolenti" e' un termine che ho sentito circolare
di nuovo. Sara' un alibi per non comprendere la nonviolenza, ma stiamo
attenti...
Di fronte alla guerra stolta del 2001, all'unilateralismo interamente
fuorilegge del 2003, era piu' facile, giusto, necessario affermare
integralmente la nonviolenza e vedere esporre tante bandiere della pace,
quasi come il tricolore del pallone. Oggi, di fronte ad una criticabile ma
non inaccettabile azione di polizia internazionale Onu in Libano (pur con
esitazioni e perplessita') la critica nonviolenta e' piu' articolata, meno
assoluta; stiamo attenti che chi non e' assolutista non venga giudicato un
infedele. Aspre divisioni tra i nonviolenti giovano ai violenti.
Il movimento per la pace e la nonviolenza, oggi, e' piu' articolato e
differente, che non significa diviso, fratturato: la differenza, infatti, e'
costitutiva di ogni muoversi nella vita. Ci sono differenze a) sulla
valutazione della guerra e b) sul ruolo del movimento:
a) questa e' una "guerra unica" continentale asiatica di Usa e Israele
associati, a cui Onu ed Europa sarebbero solo partecipi e funzionali con i
loro tentativi di entrare nel gioco? Oppure e' sperabile e prevedibile
l'avvio, se appoggiato da presa di coscienza popolare, da volonta' e
sostegno politico internazionali, di un controllo delle minacce e violazioni
della pace, tramite la ri-legalizzazione del sistema internazionale,
superando l'illegalita' massima dell'unilateralismo Usa anti-Onu (oltretutto
sanguinosamente fallito)?
b) davanti alla missione Onu in Libano, il movimento per la pace si
differenzia tra "intransigenti" e "politici": i primi, per il fatto che la
missione avviene con personale militare (di cultura, organizzazione e
strumentalizzazione militare) e non in forma davvero indipendente, di vera
polizia internazionale e di intermediazione civile, sono portati a rifiutare
tale missione; i secondi, pur con le stesse riserve per quei seri limiti, ne
vedono anche il relativo valore di contenimento e possibile sostituzione
dell'unilateralismo Usa.
Sul primo punto, del giudizio sulla guerra in corso,  credo che non sia
possibile ne' utile una nostra posizione unica sulla tesi pessimistica (non
dico assurda, purtroppo) della "guerra unica". Avallare questa tesi come
unica o principale interpretazione rischia di lasciarla verificarsi.
Condannare la guerra non basta per arrestarla.
Sul secondo punto, poiche' non c'e' una vera polizia internazionale, con
legittimazione, cultura e etica di polizia e non di esercito, perche'
storicamente le potenze, contro la carta Onu, non l'hanno voluta, e  poiche'
non ci sono i corpi civili di pace sufficientemente consistenti e
organizzati, penso che, oggi, richiedere con chiarezza e forza alla
politica, magari con una grande unitaria iniziativa di legge popolare,
l'istituzione, finanziamento, addestramento dei corpi civili di pace, sia la
cosa piu' urgente per modificare la gestione internazionale dei conflitti in
senso non bellico e non imperiale, ma cosmopolitico, pacifico e nonviolento.
Questo sarebbe oggi un grande ruolo politico del movimento per la pace.
*
6. L'orizzonte ideale e' chiaro, la politica e la storicita' procedono nella
gradualita' mista, che e' valida se orientata: storia e politica non
attingono l'orizzonte, ma percorrono passi sul terreno accidentato; non
ottengono mai intere realizzazioni ideali, ma approssimazioni a giustizia,
pace, verita'; nella politica e nella storia (ma non e' forse cosi' anche
nella vita personale?) raramente l'alternativa e' netta tra il bene e il
male, quasi sempre tra approssimazioni al bene o al male, al giusto o
all'ingiusto.
Se vogliamo che la nonviolenza diventi storia e modifichi le istituzioni,
dobbiamo accettare, senza nulla perdere di chiarezza e volonta', le leggi e
opportunita' dell'azione, che sono il possibile e il necessario,
l'opportunita' e la costrizione, l'occasione e l'attesa, il compromesso
nobile e dinamico esaltato da Gandhi.
La nonviolenza non e' una ricetta, ma una ricerca, un cammino con le sue
erte e stanchezze e incertezze e anche arresti, come ogni cammino della
vita. Non e' un volo rettilineo, qualunque sia il terreno e l'atmosfera. La
nonviolenza ha la forza della verita' - satyagraha - a cui si orienta
continuamente, ma noi non possiamo pretendere di sapere ne' di potere
viverla sempre integralmente. Percio' la nonviolenza, per essere ben
orientata e produttiva, ha da essere non solo ideale, ma anche seriamente
problematica e critica, autocritica.

6. RILETTURE. FRANCO RESTAINO, ADRIANA CAVARERO: LE FILOSOFIE FEMMINISTE
Franco Restaino, Adriana Cavarero, Le filosofie femministe, Paravia, Torino
1999, pp. 260, lire 22.000. Ai due ampi e impegnati saggi di inquadramento
scritti dai curatori (pp. 9-164), fa seguito (pp. 167-251) una sintetica ma
incisiva e rappresentativa antologia di autrici particolarmente rilevanti
(Mary Wollstonecraft, Virginia Woolf, Simone de Beauvoir, Betty Friedan,
Kate Millett, Shulamith Firestone, Anne Koedt, Susan Brownmiller, Juliet
Mitchell, Nancy Chodorow, Carol Gilligan, Luce Irigaray, Helene Cixous,
Julia Kristeva, Carla Lonzi, Luisa Muraro, Adriana Cavarero, Adrienne Rich,
Donna Haraway, Rosi Braidotti, Judith Butler, Christine Battersby); utile
anche la bibliografia alle pp. 253-259.

7. RILETTURE. WANDA TOMMASI: I FILOSOFI E LE DONNE
Wanda Tommasi, I filosofi e le donne. La differenza sessuale nella storia
della filosofia, Tre Lune Edizioni, Mantova 2001, pp. 272, euro 18,07. Una
ricostruzione della storia della riflessione filosofica occidentale
utilizzando gli strumenti euristici del pensiero della differenza, una
ricognizione di grande efficacia disvelatrice, un libro da utilizzare nelle
scuole. L'autrice, come e' noto, fa parte della comunita' filosofica
femminile "Diotima".

8. RILETTURE. CHIARA ZAMBONI: LA FILOSOFIA DONNA
Chiara Zamboni, La filosofia donna. Percorsi di pensiero femminile, Demetra,
Colognola ai Colli (Vr) 1997, pp. 160, lire 14.000. Alcune grandi pensatrici
dal medioevo ad oggi, i cui ritratti l'autrice ricostruisce con grande
finezza in sei capitoli (Uno sguardo diverso; Vita attiva e vita
contemplativa - Trotula de Ruggiero, Ildegarda di Bingen, Margherita
Porete -; Le dame francesi del Seicento; Ad occhi aperti - Simone Weil,
Hannah Arendt -; Femminismo e psicoanalisi - Luce Irigaray, Julia
Kristeva -; Lavori in corso), con una utile bibliografia. Anche Chiara
Zamboni collabora alla comunita' filosofica femminile "Diotima".

9. LE ULTIME COSE. CRUDELIO D'EUCARDIO: RIDUZIONE DEL DANNO

Si ha riduzione del danno quando si fa meno danno alle persone che un danno
gia' subiscono. La prosecuzione della guerra afgana non riduce, ma aumenta
il danno alle vittime della guerra.
C'e' un solo modo per ridurre il danno della guerra: cessare di fare la
guerra. Che cessi immediatamente la partecipazione italiana alla guerra
afgana, e che l'Italia si batta perche' cessino le stragi della Nato,
condizione necessaria per chiedere alle altre parti belligeranti di fare
altrettanto.
*
Questo occorre: opporsi alla guerra. Avviare un'azione nonviolenta per
contrastare le violenze tutte e soccorrere le vittime tutte. Smilitarizzare
i conflitti e aprire negoziati sulla base dei riconoscimento dell'umanita'
di tutti gli esseri umani, sulla base dell'affermazione di tutti i diritti
umani per tutti gli esseri umani. Disarmare.
*
Questo occorre: una politica della nonviolenza.
Solo la scelta della nonviolenza, la nonviolenza giuriscostituente, puo'
fondare una politica internazionale (ed oggi non vi e' piu' poliica che non
sia internazionale) della sicurezza comune e della cooperazione, della
solidarieta' e della convivenza.

10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

11. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1430 del 26 settembre 2006

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