Nonviolenza. Femminile plurale. 83



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 83 del 28 settembre 2006

In questo numero:
1. Cindy Sheehan: Virgole
2. Elaine Brower: Una manifestazione nonviolenta a New York
3. Cinzia Gubbini: "Trama di terre" a Imola
4. Marinetta Cannito: La giustizia rigenerativa, percorso per una
trasformazione personale e collettiva
5. Anna Simone presenta "Utopie, eterotopie" di Michel Foucault

1. TESTIMONIANZE. CINDY SHEEHAN: VIRGOLE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di
Cindy Sheehan.
Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra in Iraq; per tutto il
successivo mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in
cui George Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli
per chiedergli conto della morte di suo figlio; intorno alla sua figura e
alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio
movimento contro la guerra; e' stato recentemente pubblicato il suo libro
Not One More Mother's Child (Non un altro figlio di madre), disponibile nel
sito www.koabooks.com; sta per uscire il suo secondo libro: Peace Mom: One
Mom's Journey from Heartache to Activism, per Atria Books.
Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio;
prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice,
regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche
storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di
Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra
Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne
nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005]

Il nostro "conservatore compassionevole", nonche' falsa guida, e' stato
ospite del giornalista Wolf Blitzer sulla Cnn, e di seguito c'e' quello che
ha avuto da dire sul dolore e la sofferenza che ha causato al mondo sin
dall'inizio dell'illegale ed immorale occupazione dell'Iraq.
*
- Wolf Blitzer: Parliamo un momento dell'Iraq, perche' e' una questione
importante, molto importante, per l'opinione pubblica americana: c'e' la
grande preoccupazione che l'Iraq si trovi sull'orlo della guerra civile, se
pure non vi sia gia'. Ci vengono mostrati questi corpi torturati, mutilati;
gli scontri fra sunniti e sciiti e il ruolo palesemente negativo degli
iraniani. E al-Qaida e' ancora operativo, in Iraq.
- George W. Bush: Si', ecco, lo si vede in televisione, e' il potere di un
nemico che e' disposto ad uccidere persone innocenti. Ma c'e' anche
un'incredibile volonta', una resistenza da parte del popolo iracheno.
Bisogna ammettere che ormai sembrano passati gia' dieci anni. A me piace
dire alla gente che quando la parola fine sara' scritta sull'Iraq, ci
sembrera' niente piu' di una virgola, perche' c'e', e' questo il punto, c'e'
una forte volonta' di democrazia.
*
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Queste sono 125 virgole.
Con 2701 dei nostri figli e figlie uccisi ed oltre 20.000 feriti, avrei
dovuto battere 182 linee di virgole. Se poi prendo nel conto la stima
(bassa) di 100.000 innocenti iracheni uccisi, mi servirebbero pagine e
pagine di virgole.
Martin Luther King una volta disse: "Non c'e' nulla di piu' pericoloso
dell'ignoranza sincera e della stupidita' coscienziosa".
Io credo che chiunque stia ancora sostenendo George Bush e la sua guerra
terrorista dev'essere uscito di strada per ignorare i fatti, o sta
profittando in qualche modo dell'occupazione: politicamente o
finanziariamente.
*
Voglio che George ed i suoi coscienziosamente stupidi amici, che scansano
l'evidenza come la peste, sappiamo che mio figlio non era una virgola. Casey
non era una figurina di carta, ne' l'immagine unidimensionale delle sue
fotografie al campo d'addestramento, quando le sue guance erano ancora
rotonde di cibo sano.
Casey aveva tre dimensioni, e aveva speranze e sogni. Voleva finire il
college e diventare insegnante elementare. Voleva sposarsi e avere bambini.
Io volevo tenere i suoi bambini e viziarli e amarli come fa ogni nonna.
Casey amava suo fratello Andy e le sue sorelle Carly e Janey. Amava i nostri
cani, Buster e Chewy, e le nostre gatte, Emily e Molly.
Casey guardava il wrestling in tv e lo definiva "una soap opera maschile".
Collezionava giocattoli, e noi ne teniamo parecchie scatole in magazzino,
ora.
Casey respirava aria, beveva acqua, mangiava e faceva tutte le altre cose
che ogni essere umano fa. Soprattutto, amava Dio e voleva servirlo come
diacono della chiesa cattolica. Ha anche sanguinato, ed e' morto, come un
essere umano, quanto gli hanno sparato alla testa, alle spalle.
*
Le virgole che il regime Bush ha ucciso con le sue bugie riempirebbero
numerose pagine, ma in realta' esseri umani che una volta respiravano
riempiono in questo momento migliaia e migliaia di tombe e giacciono sotto
quintali di terra.
Mi addolora che il leader di quelle che un tempo era una grande nazione sia
cosi' insensibile rispetto alle persone di cui ha distrutto le esistenze.
Che si sia d'accordo o no con il presidente del Venezuela Chavez, la
schietta evidenza del suo dire che la democrazia "non puo' essere imposta da
bombe e marines" e' qualcosa su cui non si puo' fare a meno di acconsentire,
nel nostro paese e nel mondo intero.
La democrazia sorge dalle persone. Uccidere innocenti, torturare, drenare il
nostro bilancio, rubare le elezioni, spiare cittadini americani
illegalmente, lasciare la gente di New Orleans appesa ai tetti, eccetera,
non e' democrazia, e le persone colpite non dovrebbero essere ridotte a
segni di punteggiatura.
Mio figlio e gli altri non verranno scritti nella storia come "virgole", ma
come ulteriori vittime della macchina della guerra, ed io spero come le
ultime vittime della guerra per il profitto. Come fa George Bush a mantenere
quella faccia tosta mentre parla di un "nemico che e' disposto ad uccidere
persone innocenti"? Quando mai Bush e compagnia si sono astenuti
dall'assassinare innocenti?
George Bush verra' scritto come un asterisco, nella storia. E all'asterisco
si leggera': "Incriminato, rimosso dall'ufficio, imprigionato per crimini
contro l'umanita'". E piu' presto succede, meglio e'.

2. TESTIMONIANZE. ELAINE BROWER: UNA MANIFESTAZIONE NONVIOLENTA A NEW YORK
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di
Elaine Brower. Elaine Brower, madre di un marine di stanza a Fallujah, e'
un'attivista contro la guerra e una delle portavoce di "World Can't Wait:
Drive Out the Bush Regime"]

Mentre mio figlio lotta per restare vivo a Fallujah, ove si trova per la
falsa pretesa di "difendere la democrazia" o "uccidere i terroristi", io ho
deciso di lottare a casa. Ne sono rimasti pochi, a difendere i nostri
diritti costituzionali. Quelli che stanno tentando di farlo sono esausti.
Abbiamo camminato marcia dopo marcia, raduno dopo raduno. Cinque anni piu'
tardi, la guerra peggiora ed il Medio Oriente e' in fiamme.
Mettiamoci anche i disastri dell'uragano Katrina, lo spionaggio sui
cittadini statunitensi in nome della loro liberta', il fallimento delle
politiche economiche, i prezzi del gas, e le politiche estere del "cowboy
globale" che siamo costretti a testimoniare su base giornaliera.
Bene. Fuori da casa mia, Staten Island, New York, sventolano la bandiera
americana e quella dei marine, e proprio perche' sono una patriota ho deciso
di lottare contro la rapida erosione del nostro diritto di parola. Per
questo ho pianificato di farmi arrestare alle Nazioni Unite quando i
bugiardi e i criminali vi si sono recati: sto parlando di quelli del nostro
governo.
Il piano ha preso forma, quietamente e fermamente, qualche settimana fa.
All'inizio mi sono confidata solo con quelli che sapevo disperati quanto me.
La questione era ed e' troppo importante per fare solo una manifestazione e
poi andarsene a casa. Quando il mondo e' venuto a New York, ci siamo
mostrati: sedici determinati cittadini, delle piu' disparate eta' ed
esperienze di vita, hanno deciso di compiere un atto di disobbedienza civile
di fronte alle Nazioni Unite il 19 settembre scorso, mentre l'Assemblea
Generale discuteva dei destini del mondo.
E' stata l'impresa piu' difficile in cui mi sia imbarcata in vita mia,
compresi i miei tre matrimoni. Essendo stata sposata con un tenente della
polizia ora in pensione, ed avendo due figli ufficiali nella polizia di New
York, mi sono chiesta cosa diavolo stavo facendo. Ma vedere il ghigno sulla
faccia di George Bush quando ha visitato Ground Zero ed usarlo per un'altra
foto pubblicitaria, mi ha fatto decidere che ero nel giusto. Se lui poteva
starsene li' ad umiliare me ed il mio paese, io potevo camminare fra le
fiamme dell'inferno per fermarlo.
*
La notte prima non sono riuscita a dormire, e quando ho raggiunto il luogo
dell'incontro con gli altri, il cuore mi batteva al punto che pensavo
sarebbe uscito dalla camicia. Allora ho guardato la foto di mio figlio, che
porto sempre con me, e ho pensato a tutti i funerali a cui ho partecipato da
quando lui e' stato mandato in Iraq, ho pensato agli occhi delle madri e
alla loro costante domanda: "Perche'?". Mi sono calmata. Non avevo piu'
paura dei grossi tizi in abiti neri che circondavano l'edificio delle
Nazioni Unite, ne' delle centinaia e centinaia di poliziotti in uniforme.
Ho attraversato il cancello sulla Prima Avenue e la Quarantaquattresima
Strada, e ho camminato diritta fra un drappello di poliziotti e un loro
furgone. Di colpo mi sono trovata a volare per aria, con la foto di mio
figlio in mano. Sono atterrata a circa tre metri dalla cancellata da cui
volevo passare. Dal mio punto di osservazione, vedevo comporsi una grossa
mischia. I miei amici ce l'avevano fatto a passare oltre la barricata. Verso
di loro andavano uniformi, tizi della sicurezza in vestiti neri,
giornalisti, fotografi, visitatori. Le cineprese filmavano. Io ero distesa
per terra con la gente che mi saltava per non calpestarmi, e per un attimo
ho pensato: "Potrei andar via, non se ne accorgerebbe nessuno". Ma non
potevo. I miei compagni in quell'azione, i miei amici, persone per le quali
ho il piu' profondo rispetto, in quel momento venivano malmenati da chi
dovrebbe difendere la legge. Cosi' mi sono fatta largo per unirmi a loro. Il
mio amico padre Luis Barrior era inginocchiato, con addosso quattro
poliziotti che gli tenevano ferme le braccia e la testa. Sembrava quasi
pregasse, ma era evidente che gli stavano facendo male. Ho raggiunto gli
altri, ed abbiamo unito le braccia. Eravamo sconvolti e ammaccati, ma siamo
restati fermi cantando "Arrestate Bush", "Portate a casa ora i nostri
soldati", "Vogliamo la pace subito".
Mi e' parso che in quel momento la polizia e i servizi segreti non sapessero
assolutamente cosa fare. Non riuscivo a capirlo. Mi ero aspettata che ci
saltassero addosso urlandoci "criminali insensati", ma ci lasciarono
cantare. E noi continuammo a farlo. Un passante, in solidarieta', uni' le
sue braccia alle nostre. Gli abbiamo sorriso. Di fronte a noi un mare di
uniformi, videocamere e gente. E tutte le persone che ci guardavano
sembravano scioccate quanto noi.
Per tutto il tempo che siamo rimasti li', ho pensato a mio figlio che dorme
poco, alle sue scarse razioni, a lui la' da qualche parte sul fiume Eufrate
e mi sono sentita piu' forte. Le nostre voci diventavano sempre piu' chiare,
piu' alte.
Il nostro scopo era stato raggiunto, per quanto piccolo fosse il passo che
avevamo fatto verso il movimento di massa che e' necessario in questo paese
per sconfiggere il fascismo. Un passo piccolissimo, ma lo avevamo fatto.
*
Infine, undici donne e cinque uomini, siamo stati arrestati e portati via in
furgone. Le donne sono state separate dagli uomini, avevamo un vagone per
conto nostro, le nostre manette e i nostri vestiti sporchi, ed il sollievo e
la contentezza che riempivano il nostro spazio. Eccoci la', undici donne dai
venti ai settantotto anni, di differenti idee, di differenti generazioni,
arrestate, e non ci eravamo mai sentite meglio!
Ragazzi, la polizia di New York dev'essersi molto pentita dell'averci tenuto
rinchiuse cinque ore. Non ho mai parlato e riso tanto in vita mia. Ci siamo
legate l'una all'altra ancor piu' di prima. Quando quella sera abbiamo
ritrovato anche gli altri, tutti e sedici ci siamo detti che continueremo a
premere contro ogni governo fascista che voglia negarci il diritto di parola
previsto dal Primo Emendamento, ed ogni altro diritto per cui abbiamo
lottato cosi' a lungo, e cosi' duramente, per centinaia di anni.
Per questo volevo dirvi che, vi sia data o no la possibilita' di esprimere
voi stessi, non dovete cedete alla disperazione, al sentimento di impotenza,
al dolore: uscite, e chiedete a voce alta che vi si ascolti. E' vostro
diritto come cittadini americani, e non dovete permettere a nessuno di
portarvelo via.

3. ESPERIENZE. CINZIA GUBBINI: "TRAMA DI TERRE" A IMOLA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 23 settembre 2006. Cinzia Gubbini e' una
giornalista del "Manifesto" che si occupa sovente di diritti umani]

"I servizi sociali mi dicevano che potevano prendermi se c'era un serio
pericolo per la vita mia e della mia bambina. Io dicevo che non mi
picchiava, ma che non lo sopportavo piu'. Dopo che eravamo scappati
dall'Armenia mi trattava male: aveva perso tutto. Ma anche io stavo male,
perche' doveva sfogarsi su di me? Ero fuori di testa, depressa, se non me ne
andavo lo ammazzavo. Alla fine ho detto: 'mette la bambina nella lavatrice'.
Ma non era vero". Pero' cosi' i servizi sociali del comune di Bologna si
sono fatti carico di Vanessa, 35 anni, in Italia con un permesso di
soggiorno umanitario.
Non succede solo a Bologna che una donna debba mostrare l'occhio nero di
botte per diventare ufficialmente vittima di violenze agli occhi dello
stato. Soprattutto quando quei maltrattamenti avvengono in famiglia. Vanessa
racconta la sua storia seduta nel chiostro della sede dell'associazione
Trama di Terre, a Imola. Dopo le peripezie attraversate nei labirinti della
burocrazia, e' finita qui: il comune ha chiesto all'associazione di
ospitarla in uno degli appartamenti destinati all'accoglienza delle donne in
difficolta'. Per Vanessa e' come aver ritrovato casa: "Adesso sono
tranquilla - racconta - qui ho parlato tanto. Qualche volta lui viene, vuole
molto bene alla bambina. Mi dice tante cose, bla bla bla, ma io ora sto bene
da sola".
*
Un angolo di mondo
E' un posto strano il centro interculturale Trama di Terre. Forse unico in
Italia, senz'altro raro. Si trova in un palazzo antico, nel centro della
citta', un angolo di mondo racchiuso nel vicolo di un opulento paese di
provincia. Gia' l'ingresso ricorda vagamente certi luoghi di ritrovo
sudamericani: sulle pareti un murale e le creazioni artistiche di una donna
che tempo fa passo' per il centro. Poi il cortile interno con i fiori che
ornano il piccolo pozzo. Da un lato c'e' la "cucina abitata", inaugurata di
recente: tra i suoi fornelli, dove in genere lavorano le donne detenute in
regime di affidamento sociale, si prepara da mangiare per chi vive qui; ma
si trasforma anche in un piccolo ristorante di cucina etnica. Da un'altra
porta si entra nei locali del piano terra: la sala riunioni, la biblioteca,
la stanza dove si tengono i corsi di italiano per donne straniere. I muri
tappezzati di foto, volantini, manifesti, stoffe, che arrivano dai quattro
angoli della terra, portati qui da qualcuna che in quei paesi c'e' stata, o
c'e' nata. Al secondo piano i quattro appartamenti, circa venti posti-letto,
per ospitare le donne e i loro bambini. Ogni anno passano di qui circa 500
donne straniere.
E' un po' difficile chiamarlo centro antiviolenze: non e' nascosto, non e'
separato e non lo vuole essere. Non ci sono soltanto donne che hanno subito
maltrattamenti fisici o psicologici, come la donna tunisina con i suoi
quattro figli che qualche settimana fa e' finita sul giornale perche' veniva
segregata in casa dal marito. In questi giorni ci sono anche alcune ragazze
dell'est sfrattate dai loro appartamenti. Ma non e' neanche un centro di
accoglienza. Chi non e' inserita a retta dei servizi sociali paga un
affitto, anche se minimo e secondo le proprie possibilita'.
*
L'atea e la musulmana
Il centro interculturale Trama di Terre e' nato, esattamente dieci ani fa,
rompendo gli schemi. A cominciare dalle fondatrici: Tiziana Dal Pra e Nabila
Kovachi. La prima e' comunista, femminista e atea. La seconda, algerina, non
ha precedenti esperienze politiche in Italia, e' musulmana praticante, come
dimostra il velo che indossa. Si sono incontrate durante un corso di
mediazione culturale e hanno deciso di mettere in piedi un'associazione tra
donne italiane e migranti, improntata sul pensiero della differenza di
genere, con l'idea di lavorare e dare lavoro. Gli altri dicevano che
avrebbero litigato presto. Uomini, e donne, di poca fantasia.
I primi interventi sono a Imola e nella vallata: corsi di cucito, lezioni di
alfabetizzazione, attivita' per i bambini. All'inizio in un clima un po'
amicale e di sorellanza, poi, col tempo, la realta' impone un confronto piu'
serrato. Non si puo' insegnare l'italiano senza rendersi conto che gli
uomini si piantano fuori dalla porta dove si tengono le lezioni; senza
intervenire quando qualche moglie viene picchiata con il bastone. Lei ha
difficolta' a denunciare: e' sola, un po' ci e' abituata e sa che la
polizia, quando viene chiamata, spesso si limita a interrompere il
"litigio".
A Trama di Terre questi pezzi di vita quotidiana arrivano giorno dopo giorno
attraverso le parole delle donne, un tam tam che supera le porte chiuse.
Decidono di intensificare il lavoro interculturale: dibattiti, seminari,
presentazioni di libri. "Studiare, in questo sono severissima", dice
Tiziana. Ma soprattutto cercare di costruire uno spazio "di sospensione":
"un luogo in cui nessuna si senta giudicata, in cui nessuna pensi di dover
rinnegare la propria identita'. Il filo d'unione sono le liberta'
femminili".
Succede che dal dibattito, dal lavoro comune si arrivi a parlare della vita
privata. Le mediatrici di Trama sono spesso donne che hanno subito violenze,
ribellatesi grazie al percorso intrapreso qui. Che non e' privo di ricadute:
"E' successo che qualcuna sia tornata da una vacanza nel suo paese di nuovo
velata, sparendo da un giorno all'altro dalle attivita' del centro",
continua Tiziana. "Ma sono tornate. La molla, credo, sia la profonda
consapevolezza che il nostro scambio abbia segnato tutte le nostre vite".
Il prossimo progetto? Un appartamento per accogliere le adolescenti. Che i
problemi intergenerazionali siano il nuovo fronte di intervento qui lo si
era capito molto prima della tragica morte di Hina Saleem, la ragazza
pachistana sgozzata a Brescia dal padre.
Mentre l'Italia scopre che gli immigrati non sono solo delinquenti,
forza-lavoro o compagni sfruttati, a Trama di Terre e' piu' semplice
diradare le nebbie e indicare una strada possibile.
*
Mediazione senza compromessi
La mediazione culturale, per esempio. Le mediatrici di Trama si muovono
secondo una logica ferrea, spiega Malika, marocchina: "Negli interventi
sosteniamo sempre la figura femminile e quella delle giovani generazioni".
Per essere piu' espliciti: se un padre ritiene che sua figlia sia troppo
libera e usa le maniere forti per tenerla in casa, che significa mediare?
Convincere il padre a essere un po' piu' buono e la figlia un po' piu'
casta? Molti mediatori, in giro per l'Italia, risponderebbero di si'. Non le
operatrici di Trama: "Impossibile parlare in astratto - risponde Malika - ma
starei dalla parte della ragazza".
Ovviamente le cose non cadono dal cielo: gli interventi vanno strutturati,
discussi. Le mediatrici di Trama ogni cinque sabati sono obbligate a
partecipare a un'intera giornata di approfondimento. Tempo fa e' capitato
che una mediatrice - durante una discussione sull'interruzione di
gravidanza - abbia ammesso che se si fosse trovata di fronte a una donna
decisa ad abortire avrebbe tentato di farle cambiare idea. Ora lavora in
altri luoghi - scuole, tribunali - e non piu' nei consultori.
Un punto di vista che crea anche problemi alle mediatrici, il cui operato e'
sotto gli occhi di tutti, in un comune cosi' piccolo. L'anno scorso una di
loro intervenne in una famiglia che abitava in vallata: il figlio era un
ragazzino molto vivace. Il padre - un operaio, che parlava poco l'italiano,
incapace di rapportarsi a una realta' sconosciuta e con pochi contatti con
la scuola - trovava nelle botte la sua unica fonte di autorita'.
L'operatrice convinse il padre che non poteva picchiare il bambino. Il quale
nel frattempo e' scappato di casa. Il padre se l'e' presa con la mediatrice:
"Hai visto? Con i tuoi metodi ora e' in giro a fare il delinquente".
Per questo l'associazione cerca di stimolare i servizi pubblici, dalle
scuole agli ospedali, per moltiplicare gli (scarsissimi) incontri di
formazione sulla mediazione. "Non e' possibile pensare di affidare tutto
alle mani delle mediatrici. Insegnanti, dottori, infermieri, poliziotti,
devono rapportarsi a una realta' nuova. Altrimenti i problemi sono
inevitabili. Siamo venuti a conoscenza di ginecologhe che di fronte a una
donna araba decisa ad abortire, e a suo marito contrario all'aborto, non si
preoccupano di tutelare maggiormente la donna. Con un'italiana sarebbe
diverso".
*
Autocensura degli antirazzisti
Confronto, confronto continuo. E una prospettiva apertamente politica. Sono
questi i punti fermi dell'associazione. Il centro interculturale a Imola e'
un riferimento per la parte democratica e antirazzista della citta'. Qui si
e' costruito il social forum dopo le botte di Genova, si organizzano le
manifestazioni contro la Bossi-Fini e la guerra, qui giovedi' si e' tenuto
il dibattito di sostegno al "Manifesto".
E' una questione di stile, a partire dalla precisa scelta di non essere "in
guerra" con nessuno. Non e' certo in guerra con le comunita' straniere ("ma
quali comunita', non esistono. E comunque noi parliamo con le persone, non
con i gruppi", dice Tiziana), e neanche con gli uomini.
Nabila e Tiziana oltretutto non si fanno scrupolo di andare in moschea a
parlamentare delle violenze sulle donne con alcuni rappresentanti. "Portiamo
nomi e cognomi di chi lo fa, li sappiamo, poi chiediamo che si parli del
problema durante le prediche. Ovviamente il nostro rapporto e' con la parte
piu' aperta della moschea. Esattamente come avviene nella nostra cultura
dove le sensibilita' sono molteplici - dice Tiziana - cosi' accade
dall'altra parte. Non si puo' leggere l'immigrazione come un monoblocco".
Tra le regole del centro c'e' che tanto negli appartamenti che nei corsi di
alfabetizzazione non vengono messe insieme donne della stessa nazionalita'.
Anche questo e' un modo per stimolare il confronto.
"Se vengo smentita saro' felice, ma a me pare che la frequenza delle donne
italiane con le donne straniere sia bassissima. Si parla poco della
condizione della donna nella migrazione perche' si pensa ci siano codici
diversi di comprensione, perche' la migrazione comporta spesso un senso di
perdita a piu' livelli: il lavoro, la competenza, la liberta', l'autonomia.
E' un percorso che la maggior parte delle donne di questo paese ha fatto 50
anni fa. Chi ha piu' voglia di vederlo?". Vale anche per la sottile
autocensura che scatta negli antirazzisti. "Capisco l'ansia di non
partecipare a quella che una volta era la caccia all'albanese, divenuta oggi
caccia all'arabo - dice Tiziana - anche perche' certe campagne sono
allucinanti. E' come se la societa' volesse disfarsi di una sua parte
malata: non accetta che la violenza contro le donne sia trasversale alle
classi, all'eta', alle nazionalita'. E' interna alle famiglie, praticata da
mariti, padri, fratelli, amanti, figli. Ma e' ascoltando le donne straniere,
il coraggio con cui denunciano certe pratiche, certi retaggi, quando gli
viene fornito il modo per farlo, che ho imparato. Io difendo i diritti di
cittadinanza, ma a chi dice che le differenze si supereranno con il tempo
rispondo che non esiste un tempo per uccidere le donne".
*
A rischio chiusura
Se ne fanno di cose da queste parti. Eppure, colpo di scena, il centro
interculturale Trama di Terre rischia di chiudere. Il motivo? Mancano i
soldi. "Il Comune non da' nulla per l'affitto e per le attivita' culturali -
spiega Tiziana, che ha gia' annunciato una manifestazione in citta' se la
giunta non si decidera' a riconoscere il ruolo di Trama - tranne che per le
convenzioni che sono lavoro retribuito. Da quando sono stati aperti gli
alloggi abitativi i finanziamenti sono stati dirottati li'". Trama di Terre
chiede al Comune di Imola, giunta ovviamente di centrosinistra, di mettere a
disposizione ogni anno almeno 35.000 euro per il sostegno delle spese vive
del centro. Le risposte pero' per ora non ci sono, nonostante la legge
regionale sull'immigrazione preveda il sostegno a centri di questo tipo.
Vedremo come andra' a finire, ma le donne di Trama lo promettono:
continueranno in ogni caso.

4. RIFLESSIONE. MARINETTA CANNITO: LA GIUSTIZIA RIGENERATIVA, PERCORSO PER
UNA TRASFORMAZIONE PERSONALE E COLLETTIVA
[Da "Arca notizie", anno XX, n. 2, aprile-giugno 2005. "Arca notizie" e' il
foglio trimestrale di collegamento e di riflessione tra gli alleati e gli
amici dell'Arca in Italia; l'Arca e' l'esperienza nonviolenta fondata da
Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto; per contattare la redazione: c/o Enzo
Sanfilippo, via E. Carnevale, 4 90145 Palermo, e-mail: v.sanfi at libero.it,
sito: xoomer.alice.it/arcadilanzadelvasto L'abbonamento annuale e' di 15
euro da versare sul ccp n. 14079214 intestato a Patrizia Brambilla, via
Sottocampagna 65, 21020 Comabbio (Va). Ringraziamo Enzo Sanfilippo per
averci messo a disposizione i testi comparsi negli ultimi fascicoli della
rivista. Marinetta Cannito vive a Washington dove insegna presso l'American
University e svolge attivita' di mediazione tra vittime e autori di reati;
ha fatto parte dell'organizzazione non governativa Witness for Peace,
ispirata ai principi della nonviolenza, la cui missione consiste nel cercare
di cambiare la politica statunitense al fine di promuovere pace, giustizia
ed economia sostenibile in America Latina e nei Carabi; e' stata
recentemente in Italia per una serie di conferenze e convegni sulla
giustizia rigenerativa]

Accettando l'invito di "Arca Notizie", a scrivere questo articolo, ho avuto
la possibilita' di fermarmi a riflettere sulla scelta che mi ha portato ad
impegnarmi da alcuni anni nell'ambito della trasformazione nonviolenta dei
conflitti, e in particolare nel campo di applicazione della "giustizia
rigenerativa".
E' una scelta le cui radici sono legate alla mia personale esperienza di
persona nata in una famiglia protestante e cresciuta in una cultura a
maggioranza cattolica, esperienza che ha poi orientato tutto il mio cammino
di vita. Fin da piccola, (parlo di cinquant'anni fa), il costante confronto
con una realta' nelle cui strutture sociali mi sentivo emarginata e
discriminata, mi ha posto di fronte ad interrogativi sul modo di affrontare
quella realta' conflittuale. In quegli anni il mio conflitto era con la
religione di Stato imposta nelle scuole e il mio modo di intendere la
giustizia si formava sulle narrrative di martiri della fede trasmesse in
famiglia, che sottolineavano la relazione tra fede personale e impegno
sociale per una trasformazione di rapporti e strutture, che riecheggiavano
nell'allora attuale testimonianza di lotta nonviolenta di Martin Luther
King.
Vivevo una costante tensione tra il distacco verso la cultura esterna che
esprimevo mettendo in  discussione i significati che mi venivano imposti, e
l'attaccamento affettivo verso le persone di quella cultura, che mi
portarono a coltivare una profonda e duratura amicizia con una ragazza
cattolica. In quel contesto, il concetto della riconciliazione assumeva per
me una valenza concreta e rappresentava una scelta quotidiana. La mia
percezione della realta' e la mia stessa identita' si sono man mano formate
e arricchite in quegli anni nell'incontro e nel dialogo con il "diverso".
Piu' tardi, in eta adulta, lavorando con l'organizzazione nonviolenta
Witness for Peace (Testimoni per la pace) che mi ha portato a diretto
contatto con persone i cui diritti umani sono sistematicamente violati, ho
riflettuto di nuovo sulla relazione tra giustizia di Dio e giustizia sociale
su cui si era costruita la mia fede. Operando in ambiti caratterizzati da
violenza e crimine e' risultato piu' evidente che la proposta cristiana di
riconciliazione rappresenta un cammino difficile e certo una grossa sfida da
proporre. I miei interrogativi sulla giustizia si sono fatti allora piu'
pressanti.  Quale tipo di giustizia puo' porre un limite a violenza e
crimine e promuovere una reale e duratura riconciliazione tra le persone?
Quale trasformazione deve avvenire negli individui e nei gruppi perche' si
metta in moto un processo di riconciliazione basato su un equilibrio di
potere? Puo' il sistema giudiziario includere un processo cosi' soggettivo,
quale la riconciliazione, che presuppone il riconoscimento di una dimensione
spirituale del conflitto?
La scoperta dei principi della giustizia rigenerativa all'interno degli
studi sulla trasformazione nonviolenta dei conflitti mi ha permesso di
rispondere a queste domande, offrendomi allo stesso tempo un quadro
concettuale e un linguaggio innovativo per articolare i principi della mia
stessa fede. Ne riassumero' brevemente i punti.
*
La nuova ottica della giustizia rigenerativa
Quando parlo di giustizia rigenerativa mi riferisco ad una filosofia emersa
durante gli anni '70 e '80 prima in Canada e poi negli Stati Uniti
(Restorative Justice) in collegamento con una pratica che fu allora chiamata
Programma di riconciliazione tra vittima e autore di reato (Victim-Offender
Reconciliation Program). Questo modello e' stato nel tempo modificato,
rinominato, ed ha assunto nuove forme di applicazione in diversi contesti
culturali e politici: Mediazione tra vittima e autore di reato, Programmi di
pace e giustizia comunitaria, Processi di gruppi familiari, Sentenze a
circolo, Commissioni di verita' e riconciliazione. Nonostante la varieta' di
applicazioni, alla base di tutti i modelli c'e' un modo comune di definire e
affrontare il crimine e la giustizia che rappresenta una "lente" alternativa
all'attuale sistema giudiziario penale.
In effetti, e ci tengo a sottolinearlo, la giustizia rigenerativa non e' un
complesso di tecniche o un nuovo programma di interventi che possono essere
riprodotti indifferentemente in qualsiasi contesto criminale e culturale, e'
piuttosto un paradigma, una serie di principi e valori che offrono nuove
lenti per osservare e riconsiderare la realta' giudiziaria penale. L'ottica
da cui parte la giustizia rigenerativa si basa su una concezione della
societa' come struttura composta di elementi interdipendenti in cui le
persone vivono in un equilibrio di rapporto materiale, sociale e spirituale
tra di loro, concetto espresso in ebraico con shalom. In quest'ottica il
crimine rappresenta il sintomo della perdita di tale equilibrio e la
giustizia puo' e deve promuovere il riequilibrio dei rapporti all'interno
della societa'.
Mentre il nostro sistema penale considera il crimine in termini astratti
come violazione di una norma di legge, per la giustizia rigenerativa il
crimine e' innanzitutto un danno concreto (di natura materiale, psicologica
e morale) commesso nei confronti di persone concrete, che implica la
violazione di un rapporto tridimensionale perche' danneggia sia il rapporto
tra vittima e autore di reato, che le relazioni tra le persone che vivono in
una comunita'. Secondo questa ottica, quindi, per 'vittima' si intende sia
la persona direttamente colpita dal crimine, che le cosiddette vittime
secondarie (quali familiari e amici), che i membri della comunita' coinvolta
negli effetti del crimine (insegnanti, assistenti sociali, guide spirituali,
colleghi di lavoro...), le cosiddette vittime terziarie.
Il nostro sistema penale, che e' essenzialmente centrato sull'autore del
reato, considera la vittima, nelle migliori delle ipotesi, un elemento
secondario della giustizia, e il suo obiettivo e' innanzitutto quello di
stabilire la colpevolezza e infliggere la pena. Sottolineando invece
l'importanza del danno arrecato, la giustizia rigenerativa riconosce la
centralita' dei bisogni delle vittime e la necessita' di una riparazione,
sia materiale che simbolica, nei loro confronti. L'obiettivo e' quello di
incoraggiare gli autori dei crimini a prendere coscienza del danno da loro
causato e ad assumersi le proprie responsabilita' in modo concreto per porre
rimedio a tale danno.
*
Centralita' dei rapporti
Concretamente, questo obiettivo si attua attraverso un modello processuale
collaborativo e inclusivo da cui procedano, per quanto possibile, accordi
che siano frutto di decisioni consensuali.
Mentre l'attuale sistema penale si basa su un processo avversativo condotto
da professionisti che sono estranei al crimine, nella giustizia rigenerativa
tutte le parti coinvolte in un particolare crimine (vittime e autori di
reato, vittime secondarie e membri della comunita') si incontrano (quando
cio' e' possibile e appropriato) e agiscono da partecipanti attivi per
affrontare collettivamente il modo di risolvere le conseguenze del crimine e
discuterne le cause. Gli incontri diretti sono facilitati da persone che
preparano in anticipo le parti, e presuppongono la volontarieta' di
partecipazione della vittima e l'ammissione di responsabilita' da parte del
reo. Negli incontri si attribuisce uguale importanza a fatti ed emozioni e
sono ritenuti validi i bisogni di tutti i partecipanti. Le vittime possono
incamminarsi verso il recupero psicologico dal loro trauma avendo la
possibilita' di porre domande direttamente al reo, raccontare la loro
esperienza del crimine, richiedere risarcimento e riconoscimento morale del
danno subito, in un ambiente in cui si sentono sicure e protette, spazio che
il modello del processo penale attuale non prevede. Gli autori del reato, a
loro volta, hanno la possibilita' di ascoltare il punto di vista delle
vittime e considerare gli effetti del proprio crimine, spiegare le proprie
ragioni, esprimere emozioni, e riacquistare fiducia in se stessi riscoprendo
in se' il potere positivo di poter riparare personalmente al danno commesso.
Il risultato degli incontri e' che ad ognuno e' data la possibilita' di dare
un volto all'altra parte e riumanizzarla e riconoscere la reciproca
interdipendenza.
Sostituendo al principio della retribuzione quello della relazione e
riconoscendo pari dignita' a ciascun individuo coinvolto nel crimine, la
giustizia rigenerativa promuove un processo di giustizia in cui le parti
avverse possono insieme creare le basi per un riequilibrio dei rapporti e
una riconciliazione fondata su un ordine sociale giusto e umano, lo shalom.
*
Comunita' come luogo di riconciliazione
Al centro di questo processo c'e' la comunita', intesa come elemento
coinvolto nelle conseguenze del crimine, ma anche come elemento responsabile
dell'educazione del gruppo sociale che la compone, per analizzare le cause
alla radice dei crimini e trovare soluzioni per la loro prevenzione. Di
conseguenza, i programmi che si basano sui principi della giustizia
rigenerativa mantengono relazioni di collaborazione e consultazione con
individui e organizzazioni che gia' compiono un lavoro nell'ambito della
giustizia sociale, facendosi promotori di programmi di educazione
comunitaria che hanno la potenzialita' di mobilitare i membri della
comunita' in azioni miranti ad una trasformazione sociale. E' un processo
che parte dalla base e percio' presuppone lo sforzo congiunto di comunita'
civili, religiose e giudiziarie per costruire comunita' di riconciliazione e
riabilitazione.
Nella mia qualita' di facilitatrice di incontri tra vittime e autori di
reato posso testimoniare che il processo della giustizia rigenerativa da'
luogo ad esperienze indimenticabili e spesso trasformanti per tutte le
persone coinvolte, a volte culminanti in una sincera riconciliazione tra le
parti, anche in casi di crimini violenti.  Voglio pero' sottolineare che
quando avviene una riconciliazione, questa e' sempre espressione di un
sentimento spontaneo e solo prerogativa della vittima, mai introdotto di
forza nelle fasi del processo.
L'aspetto rivoluzionario della giustizia rigenerativa e' comunque quello di
creare spazi che facilitano una (ri)costruzione di rapporti, sia a livello
personale che sociale.  Mentre gli approcci tradizionali della giustizia
hanno la tendenza a vedere la riconciliazione come periferica, o, peggio
ancora, irrilevante nel processo di costruzione di pace, nella giustizia
rigenerativa l'incontro tra le parti e la messa a confronto delle storie
diverse nella possibilita' di una (ri)conciliazione rappresenta l'elemento
cruciale per creare le condizioni per un cambiamento sociale a lungo
termine.
*
Trasformazione
Nel tradurre dall'inglese Restorative Justice ho preferito usare "giustizia
rigenerativa", invece di "giustizia riparativa", come spesso questo
paradigma viene definito in Italia.  Lavorando nell'ambito della Restorative
Justice, ho notato che gli obiettivi e i risultati di tale processo
giudiziario vanno oltre la semplice riparazione dei danni commessi nei
confronti delle vittime. Inoltre, spesso i rapporti lesi dal crimine non
possono essere "riparati", e vanno invece trasformati. Trasformare il
crimine e le persone afflitte dal crimine significa, nella pratica della
giustizia rigenerativa, dare loro una nuova forma, una forma capace di
sviluppare strategie di intervento che portino alla costruzione di strutture
di pace. La possibilita' offertaci dalla giustizia rigenerativa e' quella di
una trasformazione che non consiste in norme astratte da adottare, ma in una
prassi che offre una prospettiva di speranza annunziata con un nuovo
linguaggio di cambiamento.  Non un linguaggio di opposizioni, di "buoni" e
"cattivi", di gente che vince e perde le cause, ma un linguaggio di rapporti
che ci muove a riannodare la nostra vita a quella degli altri.
Trasformazione dunque verso la costruzione di una realta' che, partendo da
eventi dolorosi passati, puo' dare forma a un futuro individuale e
collettivo basato su rapporti di riconciliazione ed equilibrio di potere. In
questo senso la giustizia rigenerativa diventa il simbolo della sfida e del
paradosso della stessa fede: credere nella possibilita' che si puo'
riaffermare riconciliazione e speranza dove sembra esserci solo evidenza di
separazione e disperazione.
Per un approfondimento sul tema, consiglio di leggere il testo piu'
significativo del principale teorico della Restorative Justice negli Stati
Uniti, il professor Howard Zehr, che si intitola Changing Lenses: New
Perspectives on Crime and Punishment, Scottdale, Pa, Herald Press, 1990.

5. LIBRI. ANNA SIMONE PRESENTA "UTOPIE, ETEROTOPIE" DI MICHEL FOUCAULT
[Dal quotidiano "Liberazione" del 26 settembre 2006.
Anna Simone (Altamura, 1971), ricercatrice nell'ambito delle scienze umane,
saggista; collabora con l'Istituto di sociologia del dipartimento di Scienze
storiche e sociali dell'Universita' di Bari. Opere di Anna Simone: L'oltre e
l'altro, Besa, Lecce 2000; Divenire sans papier. Sociologia dei dissensi
metropolitani, Mimesis, Milano 2002.
Michel Foucault, filosofo francese (Poitiers 1926 - Parigi 1984), critico
delle istituzioni e delle ideologie della violenza e della repressione.
Opere di Michel Foucault: Storia della follia nell'eta' classica, Rizzoli;
Raymond Roussel, Cappelli; Nascita della clinica, Einaudi; Le parole e le
cose, Rizzoli; L'archeologia del sapere, Rizzoli; L'ordine del discorso,
Einaudi; Io, Pierre Riviere..., Einaudi; Sorvegliare e punire, Einaudi; La
volonta' di sapere, Feltrinelli; L'uso dei piaceri, Feltrinelli; La cura di
se', Feltrinelli. Cfr. anche i tre volumi di Archivio Foucault. Interventi,
colloqui, interviste, Feltrinelli. In italiano sono stati pubblicati in
volume anche molti altri testi e raccolte di interventi di Foucault, come
Malattia mentale e psicologia, Cortina; Questa non e' una pipa, Serra e
Riva, Scritti letterari, Feltrinelli; Dalle torture alle celle, Lerici;
Taccuino persiano, Guerini e associati; e varie altre raccolte di materiali,
trascrizioni di conferenze, seminari. Opere su Michel Foucault: tra le molte
disponibili segnaliamo Stefano Catucci, Introduzione a Foucault, Laterza;
Vittorio Cotesta, Linguaggio, potere, individuo, Dedalo; Hubert L. Dreyfus,
Paul Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie; Didier
Eribon, Michel Foucault, Flammarion; Francois Ewald, Anatomia e corpi
politici. Su Foucault, Feltrinelli; Jose' G. Merquior, Foucault, Laterza;
Judith Revel, Foucault, le parole e i poteri, Manifestolibri; Paolo
Veronesi, Foucault: il potere e la parola, Zanichelli; cfr. anche il recente
volume di "Aut aut", n. 232, settembre-ottobre 2004, monografico su Michel
Foucault e il potere psichiatrico.
Herbert Marcuse, filosofo, nato a Berlino nel 1898, fa parte della scuola di
Francoforte; costretto all'esilio dal nazismo, si trasferisce in America;
sara' uno dei punti di riferimento della contestazione studentesca e dei
movimenti di liberazione degli anni '60 e '70. Muore nel 1979. Opere di
Herbert Marcuse: segnaliamo almeno Ragione e rivoluzione, Il Mulino; Eros e
civilta', Einaudi; Il marxismo sovietico; L'uomo a una dimensione, Einaudi;
Saggio sulla liberazione, Einaudi. Opere su Herbert Marcuse: oltre le note
monografie di Perlini e di Habermas, cfr. Hauke Brunkhorst, Gertrud Koch,
Herbert Marcuse, Erre Emme, Roma 1989; cfr. inoltre gli studi complessivi e
le monografie introduttive sulla scuola di Francoforte di Assoun (Lucarini),
Bedeschi (Laterza), Jay (Einaudi), Rusconi (Il Mulino), Therborn (Laterza),
Zima (Rizzoli)]

L'opera di Michel Foucault e' prevalentemente conosciuta in Europa per aver
posto al centro del dibattito politico e filosofico, nella seconda meta' del
'900, una serie di tematiche tra cui i corpi, l'analitica dei saperi-poteri,
i dispositivi di sicurezza e di disciplinamento delle condotte.
I corpi che parlano ed emergono da gran parte dei suoi testi (dalla Storia
della follia nell'eta' classica a Sorvegliare e punire, da Gli anormali alla
Storia della sessualita', sino agli ultimi corsi sulla Nascita della
biopolitica e su Sicurezza, territorio, popolazione) sono sempre corpi
assoggettati ad una forma di potere che non si esercita su di loro in
maniera diretta, come forma di dominio istituzionale (il potere inteso in
senso classico) ma che, invece, li attraversa mettendo a punto un numero
incredibile di tecnologie sociali per addomesticarli, addolcirli, gestirli
(la famiglia, l'istituto penitenziario, il manicomio o i cosiddetti "agenti
delle politiche del corpo" come i pedagogisti, gli operatori sociali).
Sempre Foucault, tra gli anni '60 e '70, coglieva la potenza di
controcondotta dei movimenti di contestazione della norma delle donne, degli
omosessuali, delle lesbiche, dei carcerati dando loro una lettura
completamente diversa da quella esplicitata all'epoca dai francofortesi e da
Marcuse in particolare, proprio perche' aveva capito che e' impossibile
ridurre i singoli corpi ad entita' che, molto banalmente, trasgrediscono i
divieti imposti dalle regolazioni sociali.
Marcuse, infatti, leggeva il corpo e l'erotismo sempre all'interno del
sistema dualistico divieto/trasgressione, sempre attraverso la logica
secondo cui vi e' una liberazione potenziale solo se vi e' una repressione
reale. Ma i corpi assoggettati ai molteplici dispositivi, siano essi
sicuritari o disciplinari, non sono delle singole entita' in grado di
sfuggire continuamente agli ordini costituiti dalle societa' rigidamente
dualistiche? O meglio, non sono in se' delle piccole potenze che eccedono
tutti gli ordini dati? Porsi al di la' degli ordini patriarcali, familisti,
eterosessuali, monoteisti etc. non e' cosa ben diversa dal porsi come
speculari e in opposizione agli stessi ordini dati?
Foucault ci dice che e' proprio cosi', ci dice che l'anormale, l'eccedente,
non esiste solo perche' deve essere speculare ad un ordine normale ma, al
contrario, esiste perche' e' lo stesso ordine normale a produrlo per poi
gestirlo e sussumerlo.
Tuttavia, se fosse davvero cosi', avremmo solo una societa' governata dalla
polizia o dagli anatomopatologi in grado di leggere e vivisezionare i corpi
indipendentemente dalla loro cultura politica, dal loro sentire, dalla loro
straordinaria capacita' di vivere a partire da cio' che sfugge alla loro
irriducibile singolarita'; a partire, cioe', da quella dimensione
dell'eccedente che rende piu' umani gli umani e piu' vivi i viventi.
Per fortuna non e' del tutto cosi'; il corpo rimane conosciuto tanto quanto
sconosciuto. Ed e' per questo, evidentemente, che non puo' essere facilmente
normato e disciplinato senza sollevare immediatamente proteste o, almeno,
forme di resistenza.
*
Al di la' dei testi piu' importanti di Foucault ce n'e' uno, appena edito,
che vale la pena andarsi a cercare tra gli scaffali delle librerie. Si
tratta di due piccole conferenze radiofoniche tenute su France Culture nel
1966 (Utopie, eterotopie, a cura di Antonella Moscati, Cronopio, pp. 58,
euro 6).
Una, in particolare, "Il corpo utopico", ci regala un Foucault che supera
gli steccati accademici e ci parla in prima persona dell'esperienza che
quotidianamente fa del suo corpo. Gia' nelle prime pagine del testo si
legge: "Il mio corpo e' il luogo a cui sono condannato senza appello". Una
condanna certa e squisitamente materiale che, pero', e' sempre stata mediata
da intercessori metafisici come "l'utopia di un corpo incorporeo", l'utopia
dei corpi mummificati della civilta' egizia o il mito dell'anima, di quel
soffio che alloggia nei corpi ma che sa anche fuggire da essi in un attimo.
Tuttavia queste stesse grandi metanarrazioni della storia e delle civilta'
annientano il corpo stesso perche' - continua Foucault - l'anima, le tombe,
i geni e le fate "l'hanno fatto scomparire in un batter d'occhio, ne hanno
cancellato la pesantezza, la bruttezza e me lo hanno restituito splendido e
perpetuo".
Di fatto non abbiamo bisogno di queste utopie metafisiche per essere un
corpo, esso e' gia', in se', "opaco e trasparente, visibile e invisibile,
vita e cosa". Infatti "per essere utopia basta essere un corpo". Anzi, e'
proprio questa impossibilita' della perfezione, questa pesantezza e questa
bruttezza a porsi come unica cifra di lettura della corporeita' proprio
perche' spiazza ed eccede gli ordini discorsivi trascendenti, le mediazioni
tra carne e parola che, anziche' procedere insieme vengono come scollegati,
rappresentati e poi affibbiati al corpo stesso dalle costruzioni sociali e
filosofiche.
In sintesi e' il corpo il "punto zero del mondo" e non il mondo, con i suoi
discorsi astratti, a creare i corpi. Il corpo, infatti, non e' mai un
effetto del mondo. Lo diventa solo perche' i saperi-poteri e i dispositivi
di sicurezza lo producono attraverso tecniche di assoggettamento e
normalizzazione.
Un tema, questo, per nulla risolto e che andrebbe, invece, discusso
pubblicamente per l'enorme posta in gioco politica, relazionale, culturale e
sociale che implica. Un tema che si potrebbe sintetizzare cosi': chi parla?
Chi resiste? Chi ama? Chi pratica le liberta' nel contesto politico del
nostro presente? I singoli corpi o i grandi soggetti della storia costruiti
dalla societa' e dalle grandi narrazioni epiche e maschili degli ultimi
duecento anni?
Il corpo utopico di cui ci parla Foucault in questa breve ma intensa
conferenza e' in se' complesso, molteplice, plurale. Occupa uno spazio ed un
tempo ma si sviluppa continuamente dentro altri tempi e altri spazi. E' un
corpo vivo che, in quanto tale, non ha bisogno di riconoscersi dentro la
canonica raffigurazione dell'operaio maschio, trentacinquenne, padre di
famiglia. Ad essere sfruttati, infatti, non sono solo i corpi codificati
dalla storia. Non e' per questo che i movimenti femministi, gay, lesbiche,
transgender, no-vat etc. mettono al centro della politica i corpi? E non e'
sempre per questo che i corpi, in quanto tali, continuano a far paura alla
politica mainstream e non?

==============================
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
==============================
Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 83 del 28 settembre 2006

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