Minime. 4



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4 del 18 febbraio 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Una politica di pace
2. Aldo Visalberghi, un maestro
3. Anna Bravo: Per una questione di decenza
4. Riedizioni: Primo Levi, I sommersi e i salvati
5. Riedizioni: Primo Levi, Se questo e' un uomo
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. UNA POLITICA DI PACE

Una politica di pace ripudia la guerra.
Una politica di pace pratica il disarmo.
Una politica di pace smilitarizza le relazioni internazionali e i conflitti
sociali.
Una politica di pace si oppone a tutte le uccisioni.
Una politica di pace riconosce tutti i diritti umani a tutti gli esseri
umani.
Una politica di pace sceglie la nonviolenza.

2. LUTTI. ALDO VISALBERGHI, UN MAESTRO
[Aldo Visalberghi, nato a Trieste nel 1919, e' deceduto a Roma nel febbraio
2007. Illustre pedagogista, nitido antifascista, protagonista della lotta di
Liberazione nell'esperienza partigiana di "Giustizia e liberta'", docente
nelle Universita' di Torino, Milano, Roma, direttore di prestigiose collane
e riviste pedagogiche, ha dato uno strardinario contributo agli studi
pedagogici sia con l'elaborazione teorica, sia con ricerche sperimentali e
indagini sul campo anche di dimensione internazionale. Tra le opere di Aldo
Visalberghi: John Dewey, La Nuova Italia, Firenze 1951; Esperienza e
valutazione, Taylor, Torino 1958; Scuola aperta, La Nuova Italia, Firenze
1960; Problemi della ricerca pedagogica, La Nuova Italia, Firenze 1965. Qui
in particolare segnaliamo: Pedagogia e scienze dell'educazione, Mondadori,
Milano 1978, 1985; (a cura di), Scuola e cultura di pace, La Nuova Italia,
Scandicci (Firenze) 1985. Opere su Aldo Visalberghi: un utile punto di
partenza e' Giacomo Cives, Maria Corda Costa, Maria Fattori, Nicola
Siciliani de Cumis (a cura di), Evaluation. Studi in onore di Aldo
Visalberghi, Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta-Roma 2002 (con una
vastissima, eccellente bibliografia)]

E' stato un luminoso maestro, Aldo Visalberghi.
Maestro di vita civile, di rigore morale e intellettuale, di scienze
dell'educazione, di cultura della pace.
Resistente contro l'inumano, suscitatore di umanita', educatore alla
liberta' e alla responsabilita', una delle grandi voci della nonviolenza in
cammino.

3. RIFLESSIONE. ANNA BRAVO: PER UNA QUESTIONE DI DECENZA
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "La Repubblica" del
31 gennaio 2007.
Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha
insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e
genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non
omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni
nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha
diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione
nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle
storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza
in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni
culturali. Opere di Anna Bravo:  (con Daniele Jalla), La vita offesa,
Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza,
Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di
memoria della deportazione dall'Italia,  Angeli, Milano 1994; (con Anna
Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza,
Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal
Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria.
Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita
Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne
nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il
Mulino, Bologna 2003]

Secondo un sondaggio dell'Antidefamation League (cfr. "La Repubblica" del 24
gennaio 2007) il 49% degli italiani pensa che gli ebrei parlino troppo della
Shoah (in Polonia il 52%, in Inghilterra il 28%); sulla domanda se siano
piu' fedeli a Israele che al paese in cui vivono, siamo al primo posto in
Europa con il 55% di si' (in Polonia il 52%, in Germania il 50%). Dal 2004
il pregiudizio e' cresciuto, e sembra cresciuta anche la tendenza a
considerare la memoria del genocidio come una questione esclusiva degli
ebrei. Non credo sia soltanto l'effetto di una visione compartimentata della
storia, in cui degli ebrei dovrebbero occuparsi gli ebrei, delle donne le
donne, dei cattolici i cattolici e cosi' via. Questa concezione esiste, e
sotto la copertura della correttezza politica fa danni ovunque. Ma qui si
tratta di altro, del ritrarsi dalla comunanza nel ricordo costruita
faticosamente nei decenni, della rottura del patto morale che riconosce alla
Shoah un posto unico nella coscienza dell'Occidente, al di la' delle
ideologie e delle fedi politiche o religiose.
Ora sempre meno. Quel 49% comprende probabilmente un buon numero di persone
convinte di sapere gia' tutto quel che deve sapere un "non ebreo". Siamo di
fronte a un nuovo doppio standard, per cui il livello accettabile di
informazione varia a seconda dell'appartenenza? Una certa quota per gli
ebrei, un'altra per i non ebrei - e quale per i figli di matrimoni misti? A
me pare che un non ebreo debba sapere ne' piu' ne' meno di quel che deve
sapere un ebreo di pari sensibilita', e che soltanto da questa base possa
nascere la condivisione. Con una avvertenza: un non ebreo deve mettere in
conto che l'empatia e la buonafede non bastano a rendere il suo discorso
"innocente"; che per nominare questo spartiacque della storia non esistono
un modo giusto e uno sbagliato, ce ne sono molti e quasi tutti manchevoli.
Forse alle radici del senso di colpa che Hannah Arendt aveva riscontrato fra
giovani tedeschi non ancora nati ai tempi del nazismo, premeva la
consapevolezza di questo ingorgo comunicativo capace di scavalcare le
generazioni.
*
Mi chiedo quanti si rendano conto di cosa significhi ricordare in
solitudine. Nel suo bellissimo (e colpevolmente non tradotto) Deportation et
genocide, Annette Wieviorka nota che per gli ebrei francesi la
consapevolezza del genocidio ha avuto bisogno di tempo per formarsi, e fra i
motivi indica il bisogno di vivere, dopo lo stigma della diversita', la
comunanza con tutte le vittime, l'uguaglianza con tutti i cittadini. Mi
chiedo quanti capiscano la violenza implicita nel caricare il diritto/dovere
del ricordo su qualcuno, e nel deprecare allo stesso tempo che faccia troppo
uso di questa facolta'.
Oggi si parla molto di negazionismo e dell'orizzonte politico in cui si
iscrive. Giusto, necessario. Ma altrettanto necessario guardare alle forme
piu' o meno mascherate di antiebraismo, di cui le risposte di quel 49% sono
un segno. Qui non servono leggi. Servono cultura, informazione, nozioni.
Molti politici hanno detto: "bisogna saper spiegare alle nuove generazioni
cosa e' accaduto e perche' e' necessario che non accada mai piu'". Il punto
e': e poi?
Che di fronte al male (agito, accolto), la conoscenza non abbia di per se'
un effetto salvifico e' ovvio; se mai c'e' da stupirsi delle tante
dichiarazioni fiduciose espresse nei dintorni del Giorno della memoria. Ci
sono persone che sanno, e approvano; ci sono stati regimi che hanno preso a
modello i Lager; chi esibisce la svastica negli stadi non e' necessariamente
uno sprovveduto inconsapevole del suo significato. Non e' risolutiva nemmeno
la forma di conoscenza impegnativa e raffinata che dobbiamo innanzitutto ai
racconti delle e degli ex deportati, e che passa attraverso
l'identificazione - mettere una parte di noi dentro la vita di un altro, far
entrare la vita di un altro dentro di noi.
Certo, e' una via maestra. Secondo una quantita' di ricerche americane ed
europee, a mettere radici sono le storie individuali, le tranches
biografiche, che si prestano al registro della narrazione e che possono, a
racconto finito, continuare nella mente di chi ha ascoltato, letto, visto.
Eppure c'e' chi chiude occhi e orecchie, perche' identificandosi con le
vittime si soffre; o perche' un perfetto curriculum di lettore e spettatore
non impedisce di trovare piu' seducente il carnefice.
Tutto questo non cancella affatto il dovere di sapere, di comunicare, e di
farlo sempre meglio, sperimentando ogni strumento possibile; spinge pero' a
chiedersi come e dove far circolare la conoscenza, a beneficio di chi.
*
In un altro bellissimo libro (Fabio Levi, I ventenni e lo sterminio degli
ebrei, ed. Zamorani) sono raccolte le risposte date da studenti torinesi del
primo anno di Lettere a un questionario aperto sulla persecuzione. Si
chiedeva, fra l'altro, come ci si sarebbe comportati con un ipotetico
coetaneo negazionista, razzista, odiatore degli ebrei. Una risposta diceva:
"Gli racconterei, gli spiegherei, gli direi di leggere Primo Levi. E se
continuasse come prima, io lo chiuderei in un sgabuzzino buio".
Metafora fulminante della necessita' di isolare socialmente quei discorsi. E
preziosa indicazione sui luoghi e modi in cui ha senso agire. Non e' strano
che a parlare sia una persona giovane, i giovani sanno quanto conti per il
loro benessere mentale e spirituale l'accettazione del gruppo dei pari,
della cerchia di amici; quanto sia devastante esserne espulsi. Lo sgabuzzino
buio avverte che esistono limiti all'indulgenza, qualunque sia l'eta'; che
parole e atteggiamenti chiamano in causa la responsabilita' personale, e per
questo hanno un costo. Probabilmente il ragazzo pensava anche che
l'esperienza diretta dell'esclusione fosse un buon modo per sollecitare la
comprensione di quella altrui. Puo' sembrare poco caritatevole, ma se si
pensa a certe ottusita' marmoree e' piuttosto saggio.
Il gruppo amicale e' una struttura particolarmente forte, ma il discorso
vale per ogni ganglio della coesione sociale, dalle scuole alle reti di
parentela alle Chiese, dagli ordini professionali alle associazioni di ogni
tipo. E' vero che la cosiddetta societa' civile non va mitizzata, ma e' vero
anche che mantiene al suo interno una innervatura di relazioni cruciale per
la costruzione del sentire comune. Lo sapevano bene i nazisti, che gia'
entro la fine del 1933 avevano soppresso o riassorbito nelle loro
organizzazioni tutti i club, le cooperative, le associazioni indipendenti -
sportive, religiose, amatoriali, filantropiche, ricreative. "Non c'era piu'
vita sociale; non si poteva neanche avere una bocciofila", racconta un
protagonista del libro di Allen Come si diventa nazisti. Persino le riunioni
familiari e le sere in birreria potevano finire sotto controllo poliziesco,
tanto era il terrore dei liberi rapporti fra persone.
E' nei gruppi intermedi fra singolo e Stato che dovrebbe esistere uno
"sgabuzzino buio"; e che potrebbe trovare concretezza la lotta contro
negazionisti, riduzionisti, e sciocchi all'apparenza innocui. Se ricordare
non puo' essere un obbligo, non lo e' neppure stringere loro la mano, sedere
alla stessa tavola (e allo stesso tavolo), ascoltarli, sopportarne
l'ignoranza narcisistica - "io non l'ho mai letto, non l'ho mai sentito".
Nella sfera sociale esistono possibilita' di intervento che la sfera
politica non conosce. Esistevano persino, e non comportavano rischi
terribili, nella Germania anni Trenta: se le cerchie socialmente
importanti - degli aristocratici, dei militari, degli industriali - avessero
allontanato i nazisti; se chi trovava divertente spaccare le vetrine di un
negozio di ebrei fosse stato messo ai margini dal suo gruppo di riferimento;
se le persone "rispettabili" avessero manifestamente preso le distanze dal
regime. Si dice che la storia non si fa con i se; ma e' con i se che si
capisce che le cose potevano andare diversamente, che il nazismo non era
scritto nel destino della Germania e non era soltanto il frutto di grandi
processi impersonali.
In fondo, a proposito di isolamento sociale, non c'e' neppure bisogno
dell'appoggio di un gruppo. Chiunque e' padrone di respingere chi vuole, di
ritirargli il diritto di cittadinanza nella sua casa, il diritto di accesso
ai suoi pensieri, ai suoi amici, ai suoi libri, al suo indirizzo di posta
elettronica, al suo telefono.
Sarebbe bello poter dire: "se qualcuno non vuol sapere, non vuole
condividere, se nega, se mente, peggio per lui". Solo che il peggio non
consiste in un processo, dove potrebbe addirittura giocare la parte del
martire del libero pensiero. Il peggio deve venire da vicino, dalla
quotidianita'. Dallo sgabuzzino buio. Da singole persone che sappiano far
circolare conoscenze e cultura, ma facendo leva sul dovere di tradurle nei
comportamenti. E in comportamenti visibili: di fronte a un'offesa, tacere in
pubblico e solidarizzare in privato e' un escamotage in voga dai tempi delle
leggi antiebraiche del '38.
*
Molti ex deportati puntano da anni ad allargare l'area di risonanza della
loro memoria, a moltiplicare le voci. Come se, accanto ai testimoni oculari,
si cercasse di far nascere figure nuove, una sorta di "testimoni mentali"
che, pur non avendo vissuto l'esperienza, siano in grado di farne propri i
significati e di trasformarsi da ascoltatori in narratori. Ora penso che
potrebbero in qualche caso avere anche il ruolo del teste di accusa. Contro
una menzogna, un insulto, una indifferenza esibita, una scritta sui muri,
una battuta pronunciata chissa' dove. Non per la dubbia pretesa di farsi
paladini degli ebrei, semplicemente per una questione di decenza, per amore
di se', perche' pensano che se non lo fanno loro, forse non lo fara'
nessuno.

4. RIEDIZIONI. PRIMO LEVI: I SOMMERSI E I SALVATI
Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, 2003, pp. XXVI +
238, euro 8,50. L'ultimo capolavoro di Primo Levi, un'opera la cui lettura
e' indispensabile per ogni persona di retto sentire. Questa recente edizione
vi aggiunge un eccellente apparato: con un'introduzione di David Bidussa,
una nota biografica (e sulla fortuna critica) di Ernesto Ferrero, e un'ampia
appendice critica curata da Bidussa con testi di Lorenzo Mondo, Cesare
Cases, Pier Vincenzo Mengaldo, Frediano Sessi, Cesare Segre, Stefano Levi
Della Torre, e una puntuale bibliografia. Naturalmente di Primo Levi occorre
leggere tutto, e all'uopo ben soccorre l'edizione delle Opere in due volumi
curata da Marco Belpoliti sempre per Einaudi nel 1997.

5. RIEDIZIONI. PRIMO LEVI: SE QUESTO E' UN UOMO
Primo Levi, Se questo e' un uomo, Einaudi, Torino 1958, 2005, pp. 214, euro
9,80. Questa nuova edizione di un classico tanto della cognizione del dolore
quanto della paideia dell'intero genere umano reca oltre al testo della
massima testimonianza sia dell'abisso della Shoah sia della dignita' umana
che alla disumanita' si oppone, ed alla fondamentale appendice leviana
all'edizione scolastica del 1976 (qui alle pp. 155-178) che costituisce
anche per cosi' dire l'incunabolo de I sommersi e i salvati, una penetrante
postfazione di Cesare Segre (pp. 179-199), ed una cronologia della vita e
delle opere dell'autore. E' sempre l'ora di rileggere Se questo e' un uomo.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell’ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell’uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4 del 18 febbraio 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
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