Voci e volti della nonviolenza. 90



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 90 del 31 luglio 2007

In questo numero:
1. Jean-Marie Muller: Momenti e metodi dell'azione nonviolenta (parte
seconda)
2. Et coetera

1. JEAN-MARIE MULLER: MOMENTI E METODI DELL'AZIONE NONVIOLENTA (PARTE
SECONDA)

6. Azioni dirette
Divenuta inevitabile la prova di forza, in seguito al fallimento dei mezzi
di persuasione, e' necessario mettere in opera dei mezzi di costrizione.
Sottolineiamo tuttavia che e' opportuno proseguire lo sforzo di persuasione,
in modo particolare nei confronti dell'opinione pubblica. Comunque, a questo
stadio del conflitto, non si tratta piu' soltanto di invitare l'opinione
pubblica a esprimersi: bisogna incitarla ad agire. Percio' le manifestazioni
pubbliche non devono essere interrotte. Si puo' prevedere che, quando il
conflitto si inasprira', queste manifestazioni vengano proibite. Sara'
percio' compito dei responsabili dei movimento calcolare la capacita' dei
manifestanti di far fronte alla repressione delle forze di polizia
attenendosi ai principi e ai metodi della nonviolenza. Potra' verificarsi il
caso in cui sia necessario sospendere una manifestazione essendoci
probabilita' che essa non si svolga senza offrire pretesti per gravi
disordini, il che arrecherebbe discredito al movimento. Certi ripiegamenti
strategici si rivelano necessari allo scopo di permettere una migliore
preparazione della successiva offensiva. Sara' percio' opportuno rinforzare
l'organizzazione e il servizio d'ordine delle manifestazioni e forse
limitare volontariamente il numero dei manifestanti, per essere in grado di
sfidare il governo; infatti non si possono sospendere tutte le
manifestazioni. Una simile misura sarebbe una prova di debolezza e
rischierebbe di pregiudicare il morale di coloro che sono mobilitati per la
lotta e di spezzare il dinamismo del movimento. Nel 1962, durante la
campagna condotta ad Albany, una disposizione federale proibi' una
manifestazione di massa indetta da King. Questi, dopo molte esitazioni,
decise finalmente, contro il parere di numerosi leader, di disdire la
manifestazione prevista perche' non voleva violare un'interdizione del
Governo federale che lo aveva sostenuto fino ad allora contro le autorita'
locali quando queste non rispettavano i testi costituzionali. Ma
"successivamente - ci ricorda sua moglie Coretta - egli ebbe l'impressione
che fu questa decisione ad aver spezzato lo slancio del movimento di Albany,
e se ne dispiacque".
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a. Azioni dirette di non-cooperazione
E' importante che i gesti di non-cooperazione proposti dal movimento siano
alla portata di tutti. Chiedere dei gesti di rottura le cui conseguenze
siano molto gravi significa riservare l'azione ad un'elite e costringere gli
altri a tenersi ai margini, nella veste di semplici spettatori; mentre e'
essenziale che il maggior numero di persone possa partecipare.
Facciamo notare che molte di queste azioni di non-cooperazione, cosi' come
abbiamo rilevato per le semplici manifestazioni, possono essere o no azioni
di disobbedienza civile secondo la legislazione in vigore o le decisioni
prese dalle autorita' governative durante il conflitto.
Fra le azioni di non-cooperazione che possono essere adottate nel caso di
una campagna di azione diretta, ricordiamo in particolare:
- L'hartal. Un hartal e' un giorno di sciopero generale durante il quale
viene chiesto a tutta la popolazione di disertare i luoghi di lavoro, le
strade e i locali pubblici e di restare a casa. In quel giorno, tutte le
attivita' devono cessare, le citta' e i paesi devono sembrare morti. Un
hartal puo' essere deciso allo scopo di inaugurare la campagna di azione
diretta. Esso esprime la determinazione della popolazione a condurre la
lotta fino a che i diritti non verranno riconosciuti e rispettati; manifesta
la sua unita' e la sua capacita' di autodisciplina. Il successo di un hartal
implica che la popolazione abbia forte coscienza della portata del conflitto
in corso e abbia gia' dato segni concreti della sua determinazione. Gandhi
fece ricorso a questo metodo in diverse occasioni. Fu proprio con un hartal
che egli inauguro', il 6 aprile 1919, la prima campagna di azione diretta
che segnava l'inizio della lotta aperta dell'India contro il governo
britannico per la sua indipendenza. Questo metodo fu pure utilizzato a
Budapest nel 1956, all'inizio della rivoluzione ungherese.
L'hartal puo' anche essere presentato come una giornata di "lutto nazionale"
deciso dalla popolazione al fine di esprimere i suoi sentimenti di fronte ad
una qualche decisione dei governo mirante a privarla di uno dei suoi diritti
essenziali.
- Rinvio di titoli e di decorazioni. Il rinvio di titoli e di decorazioni
non puo' non avere un'influenza diretta nel rapporto di forze in campo. Esso
e' essenzialmente un gesto simbolico, ma in quanto tale nel suo impatto
sull'opinione pubblica puo' essere considerevole.
Nel piano di non-cooperazione che egli compi' nel 1920, la prima tappa
prevista da Gandhi era il rinvio dei titoli e la rinuncia ai posti
onorifici. Gandhi, come d'abitudine, diede il primo esempio e il primo
agosto 1920 restitui' al vicere' le tre medaglie che gli erano state
conferite per i suoi buoni e leali servizi resi all'impero britannico.
Nel 1970 negli Stati Uniti i resistenti alla guerra del Vietnam
organizzarono una manifestazione di massa durante la quale soldati americani
in congedo che avevano partecipato a questa guerra gettarono a terra le loro
decorazioni, secondo una messinscena che dava a questo gesto un significato
del tutto particolare. Questa manifestazione impressiono' notevolmente
l'opinione pubblica sia nazionale che internazionale.
Si puo' ragionevolmente pensare che se molte personalita' francesi in vista
(universitari, scrittori, vescovi...) decidessero di restituire al
presidente della Repubblica la loro Legione d'onore per protestare, ad
esempio, contro le vendite di armi, consentite dal governo francese, tanto
al governo razzista del Sudafrica quanto alla dittatura militare del
Brasile, questo gesto non mancherebbe di colpire vivamente l'opinione
pubblica. Esso avrebbe una portata non soltanto simbolica, ma realmente
politica.
- Lo sciopero. Lo sciopero illustra direttamente il principio di
non-cooperazione. Poiche' i capitalisti (nel senso tecnico della parola)
devono in gran parte la loro potenza economica e sociale alla cooperazione
degli operai, e' possibile per questi ultimi (quando sono vittime di una
ingiustizia relativa sia alle loro condizioni di lavoro, sia alle loro
condizioni di salario) interrompere questa cooperazione allo scopo di
costringere i propri avversari di classe a riconoscere i loro diritti.
Certo, numerosi scioperi si sono svolti in un contesto di violenza e sarebbe
ridicolo pretendere di recuperare gli scioperi operai nel campo della
nonviolenza. Tuttavia, e' opportuno rilevare che se delle forme di violenza
hanno accompagnato molto spesso - non sempre - gli scioperi, esse sono
rimaste marginali rispetto all'azione di sciopero propriamente detto.
D'altronde resterebbe da dimostrare l'efficacia reale di queste violenze, in
rapporto all'evoluzione del conflitto. Qui e' importante sottolineare che lo
sciopero puo' essere organizzato attenendosi strettamente allo spirito e ai
principi della nonviolenza e, pensiamo, con maggiori possibilita' di
successo.
- Il boicottaggio. Il principio del boicottaggio e' una variante del
principio di non-cooperazione. I proprietari di una impresa commerciale
devono la loro ricchezza alla cooperazione volontaria dei loro clienti. Il
boicottaggio consiste, quando per esempio i proprietari rifiutano di
soddisfare una certa rivendicazione del personale giudicata essenziale, nel
ritirare loro il beneficio di questa cooperazione al fine di esercitare su
di essi una pressione sociale che li costringa a cedere. Il potere di
acquisto dei consumatori diventa allora un vero potere sociale che si oppone
al potere dell'avversario. Certo, il boicottaggio puo' riuscire solo se una
forte percentuale della popolazione si unisce al movimento. Cio' dovrebbe
essere possibile soprattutto quando l'obiettivo e' particolarmente chiaro e
preciso, poiche' la partecipazione a un boicottaggio non comporta
generalmente gravi inconvenienti.
Lo sciopero e il boicottaggio condotti da Cesar Chavez negli Stati Uniti
illustrano in modo esemplare la possibilita' e l'efficacia della lotta
nonviolenta nel contesto della lotta di classe. Cesar Chavez non si e'
avvicinato agli oppressi per fornire loro il suo aiuto generoso. Egli e'
nato tra di loro. E' uno di loro. E' uno di quegli americani di origine
messicana, uno di quei chicanos che formano la maggior parte della
manodopera dei vigneti californiani. I chicanos costituiscono il tipo stesso
di un sottoproletariato inorganizzato e sfruttato. Tutti gli sforzi compiuti
in precedenza erano stati spezzati dai proprietari e votati al fallimento.
Cesar Chavez ha lavorato dapprima con Saul Alinsky nel quadro della Comunity
Service Organisation e fu in questo lavoro che egli scopri' in maniera
empirica i principi della strategia dell'azione nonviolenta. Solo piu' tardi
egli scopri' Gandhi a cui si riferi' costantemente cosi' come a Martin
Luther King. Dopo aver rotto con questa organizzazione, che giudicava troppo
lontana dagli operai stessi, egli decise di creare un sindacato. Prima di
lanciare delle azioni di rivendicazione impiego' parecchi mesi in un lavoro
di "coscientizzazione" e di organizzazione. Spinto dalle circostanze, quando
non si sentiva ancora sufficientemente pronto, nel 1965 diede slancio al suo
movimento in uno sciopero. Chavez volle sin dall'inizio che il movimento
diventasse nonviolento sia nello spirito che nei metodi. Questa scelta
precisa fu sottoposta al voto di tutti gli operai durante una manifestazione
di preparazione allo sciopero e approvata all'unanimita'. Picchetti di
sciopero furono organizzati nei vigneti dagli operai, allo scopo di
proseguire il lavoro di coscientizzazione e di persuadere quelli che
accettavano ancora di lavorare che era loro interesse fare sciopero e unirsi
al movimento. Sin dall'inizio dello sciopero, i proprietari reagirono
brutalmente e cercarono di spezzare il movimento. Inoltre, gli operai
dovettero subire parecchi fastidi da parte delle autorita' locali che si
erano schierate a fianco dei proprietari.  D'altra parte, i proprietari
poterono reclutare lavoratori "crumiri" in numero sufficiente da garantire
la raccolta dell'uva. Tuttavia, questa prima fase della lotta permise agli
operai di superare la loro paura e di prendere coscienza della loro forza.
Fu a quel punto che Cesar Chavez decise di organizzare il boicottaggio
dell'uva. Picchetti di boicottaggio furono organizzati un po' ovunque negli
Stati Uniti e l'azione si rivelo' subito estremamente efficace. Venne
effettuata una marcia di cinquecento chilometri su Sacramento allo scopo di
dare il massimo di pubblicita' all'azione degli operai dei vigneti. A
Boston, i leader del boicottaggio diedero una rappresentazione del Boston
Tea Party (e' noto che fu gettando in mare un carico di te' britannico nel
porto di Boston che inizio' il processo che doveva portare la "Nuova
Inghilterra" alla sua indipendenza): dopo aver effettuato una sfilata
attraverso la citta', essi buttarono diverse casse di uva nel porto. Nel
quadro del boicottaggio, furono rappresentate scene satiriche allo scopo di
drammatizzare la lotta agli occhi della popolazione. L'opinione pubblica
cosi' interpellata e informata si schiero' sempre piu' numerosa in favore
del movimento di Chavez. Versamenti di fondi manifestarono concretamente la
solidarieta' del paese e permisero al movimento di assicurare agli
scioperanti e alle famiglie il minimo vitale. La Chiesa, i sindacati,
numerosi movimenti e diverse personalita' diedero il loro sostegno a Chavez.
I proprietari dei vigneti decisero allora di esportare il massimo di uva che
restava invenduta sul mercato degli Stati Uniti e del Canada. Ma, a San
Francisco, il sindacato degli scaricatori di porto rifiuto' di caricare
l'uva sulle navi che dovevano salpare per l'Oriente. In Inghilterra gli
operai si rifiutarono di scaricare piu' di trenta tonnellate di uva della
California. La stessa cosa si verifico' in Finlandia, in Svezia e in
Norvegia. Ma, dal canto suo, il Pentagono, le cui simpatie si indovina
facilmente a chi andavano, forni' un aiuto prezioso ai proprietari; opero'
massicci acquisti di uva di cui la maggior parte fu destinata ai soldati del
Vietnam. Ma l'intervento dell'esercito non fu in grado di spezzare il
boicottaggio.
Infine, dopo cinque anni di lotta, i proprietari dovettero cedere e il 29
luglio 1970 riconobbero il sindacato di Chavez e accettarono l'essenziale
delle sue richieste. Durante la riunione nella quale furono firmati gli
accordi, Cesar Chavez pote' affermare: "Oggi, nel momento in cui vi e' tanta
violenza in questo paese, siamo felici di mostrare che questo accordo
giustifica la nostra posizione: la giustizia sociale puo' essere realizzata
attraverso l'azione nonviolenta". Dopo questa vittoria Cesar Chavez divenne
il leader di tutti gli operai agricoli della California. Altre azioni furono
intraprese e altri successi ottenuti.
- Lo sciopero degli affitti. Sul finire del XIX secolo, nel quadro della
lotta condotta dall'Irish Land League il cui fine era di "dare la terra al
popolo", "i contadini cattolici irlandesi si rifiutarono di pagare l'affitto
ai proprietari terrieri che erano in genere inglesi molto ricchi" (D. De
Ligt).
In conclusione, nonostante la mobilitazione di 15.000 poliziotti e di 40.000
soldati, il movimento ottenne un largo successo.
Nel maggio del 1965, il primo sciopero promosso da Cesar Chavez non fu
diretto contro i proprietari dei vigneti, ma contro coloro che affittavano
agli operai agricoli capanne di una sola stanza, col tetto metallico, prive
di finestre e acqua corrente, costruite provvisoriamente nel 1937. Era stato
appena deciso un aumento di affitto che elevava il prezzo da diciotto a
venticinque dollari. Cesar Chavez giudico' inammissibile questo aumento e
lancio' la parola d'ordine dello sciopero degli affitti. Nel novembre dello
stesso anno, gli operai videro trionfare la loro causa.
- Il rifiuto collettivo dell'imposta. E' opportuno precisare sin dall'inizio
che il rifiuto di pagare l'imposta non potrebbe giustificarsi come
opposizione al principio stesso dell'imposta. Non soltanto e' legittimo, ma
e' necessario che i membri di una comunita' partecipino al finanziamento
delle realizzazioni della comunita' stessa. Il pagamento dell'imposta e'
l'esercizio pratico della solidarieta' che deve legare tutti i membri della
medesima comunita'. Non si puo' pertanto opporsi al pagamento dell'imposta
che quando questa viene ad alimentare delle ingiustizie di cui ci si rifiuta
di essere complici e che si vogliono denunciare e combattere pubblicamente.
Il rifiuto di pagare interamente o in parte l'imposta puo' concepirsi in due
prospettive diverse. Puo' trattarsi innanzitutto di far cessare
un'ingiustizia di cui si e' personalmente vittima. Quando, ad esempio, delle
imposte colpiscono una certa categoria sociale o un certo settore
d'attivita' in modo abusivo, diventa legittimo per coloro che sono vittime
di questo abuso il rifiuto di pagare queste imposte allo scopo di obbligare
il governo a rendere loro giustizia. Cosi' il rifiuto collettivo
dell'imposta praticato a Bardoli, in India, nel 1928, si rivelo' un mezzo
efficace di lotta nelle mani dei contadini contro l'arbitrio del governo di
Bombay. Questo aveva deciso un aumento del 22% dell'imposta sul ricavato
agricolo. Dopo aver tentato, ma invano, di ottenere l'annullamento di questa
decisione attraverso vie legali, i contadini decisero di organizzare la
resistenza. Fecero percio' appello a Patel, un avvocato che aveva rinunciato
alla sua professione per seguire Gandhi. Sotto la guida di Patel, i
contadini decisero di rifiutarsi di pagare l'imposta fino a che avessero
ottenuto o l'annullamento dell'aumento del 22%, o la creazione di una
commissione d'inchiesta che potesse giudicare imparzialmente la loro
situazione. Il governo si rifiuto' di cedere e decise al contrario di
esercitare una brutale repressione, praticando in particolare numerosi
pignoramenti sui beni e sulle terre dei contadini, e procedendo a numerosi
arresti. Ma i contadini non cedettero e si attennero strettamente alle
indicazioni nonviolente date da Patel. Gandhi sostenne pubblicamente
l'azione. Tutta l'India segui' con molta attenzione l'evoluzione dei fatti e
manifesto' concretamente la propria solidarieta' inviando a Patel
considerevoli somme di denaro. I giornali inglesi fecero eco all'azione dei
contadini e l'opinione pubblica inglese, scossa da questa insurrezione
pacifica, si risveglio'. Fu aperto un dibattito alla Camera dei Comuni sui
fatti di Bardoli. Infine le autorita' di Bombay furono costrette a cedere,
sei mesi dopo l'inizio della campagna di sfida, e a nominare una commissione
d'inchiesta. Questa convenne che l'aumento dei 22% deciso non poteva
giustificarsi.  Essa "decise in conclusione che l'aumento non doveva
superare il 6,25%. Tuttavia, essendosi la commissione dichiarata
incompetente nel giudicare certi elementi del dossier, questi, su pressante
richiesta dei contadini, furono presi in considerazione nell'accordo finale
in modo tale che praticamente non fu deciso alcun aumento d'imposte a
Bardoli" (Joan Bondurant). "Dopo tanti anni d'inerzia - osserva Nanda -
questo successo costitui' uno stimolo senza precedenti (...), poiche' questa
campagna aveva rivelato un'energia latente che si poteva sperare d'impegnare
nella lotta per la liberazione del paese".
In secondo luogo, puo' invece trattarsi di opporsi ad una decisione ingiusta
del governo non accettando che il finanziamento di questa ingiustizia venga
assicurato con i propri denari e mettendo in opera tutto cio' che e'
possibile per costringere il governo a tornare su questa decisione. Quando
gli strumenti di controllo previsti dalla costituzione si rivelano
inefficaci, questo mezzo permette alla popolazione di esercitare un
controllo effettivo sull'azione del governo. Osserviamo che conviene in
questo caso non tenere per se' i soldi "risparmiati" sulle proprie imposte
ma versarli a organismi o movimenti che partecipano direttamente alla lotta
contro l'ingiustizia in questione. Certo, il governo sara' generalmente ben
provvisto di mezzi repressivi che dovrebbero consentirgli in particolare,
attraverso trattenute sui salari o pignoramenti sui beni, di recuperare il
denaro che egli e' stato rifiutato, senza contare le ammende che non
mancheranno di colpire i contribuenti refrattari. Tuttavia l'impatto che si
cerca non e' finanziario, ma politico, e questa repressione deve venire ad
accrescerlo. Se il numero di coloro che rifiutano l'imposta in queste
circostanze diventasse notevole, l'efficace di un simile gesto potrebbe
essere molto grande.  Siccome pero' il costo di quest'azione potrebbe anche
essere elevato, quelli che decidono di ricorrervi devono avere piena
coscienza delle sue conseguenze e devono essere pronti ad assumersele fino
in fondo. E' fondamentale percio' che essi possano contare, se dovesse
occorrere, sulla solidarieta' effettiva di un gruppo di sostegno, in
particolare dal punto di vista finanziario.
Negli Stati Uniti, alcuni militanti contro la guerra dei Vietnam si
rifiutavano di pagare una parte delle loro imposte allo scopo di rifiutare
ogni complicita' personale con quella guerra e di denunciarla pubblicamente.
In Francia, diverse persone appartenenti alla Comunita' di Ricerca e di
Azione Nonviolenta di Orleans hanno incominciato nel 1970 a rifiutare di
pagare allo Stato il 20% delle loro imposte che hanno versato al movimento
"Azione, Giustizia e Pace" di dom Helder Camara. Esse intendono denunciare
in questo modo la degradazione dei termini di scambio con i paesi dei Terzo
Mondo e la politica militare francese soprattutto in materia di armamenti
nucleari, sostenendo che i paesi ricchi si rifiutano di pagare ad un giusto
prezzo le materie prime dei paesi poveri, ma non esitano invece a investire
somme ingenti in una corsa sfrenata agli armamenti. Dom Helder Camara, in
una lettera dei 13 novembre 1970 indirizzata a quelli che si erano impegnati
in questa azione, scrisse in particolare: "La vostra decisione mi sembra un
gesto perfetto di autentica violenza dei pacifici, di autentica pressione
morale liberatrice".
- L'obiezione di coscienza. L'obiezione di coscienza in passato non si
inseriva il piu' delle volte nel quadro di una strategia dell'azione
nonviolenta. Essa si basava fondamentalmente su una esigenza morale e/o
religiosa che proibiva l'omicidio e aveva innanzitutto un carattere
individualista.
L'obiezione di coscienza politica puo' concepirsi secondo due prospettive.
In primo luogo, puo' trattarsi, per coloro che sono convinti dell'efficacia
dei metodi nonviolenti in caso di aggressione straniera diretta contro la
propria nazione, di rivendicare il diritto di essere riconosciuti cittadini
a tutti gli effetti pur scegliendo la via della nonviolenza. Infatti e'
inammissibile che gli Stati impongano a tutti i cittadini il mezzo della
violenza come il solo modo di assumersi le responsabilita' civiche nel caso
di un conflitto internazionale. In questa prospettiva l'obiettore di
coscienza deve svolgere un servizio nazionale durante il quale e' suo
diritto-dovere prima di ogni cosa studiare teoricamente i principi e i
metodi della nonviolenza e prepararsi a metterli successivamente in pratica.
Precisiamo che nei paesi in cui esiste una legge che riconosce l'obiezione
di coscienza, cio' non vuol dire che la nonviolenza abbia ottenuto diritto
di cittadinanza. Infatti questa legge e' stata generalmente accordata al
solo scopo di risolvere qualche singolo caso che diventava sempre piu'
scomodo. La nonviolenza, tuttavia, continua ad essere disprezzata dal
governo come un'idea ingenua e pericolosa.
In secondo luogo, l'obiezione di coscienza puo' essere utilizzata come mezzo
per opporsi alla politica del governo, in un certo campo, in particolare
quando nell'esecuzione di questa politica riveste primaria importanza il
ruolo giocato dall'esercito. In questo caso, l'obiezione di coscienza e' un
metodo nonviolento impiegato per combattere una politica precisa, anche se
essa non implica, come nel caso precedente, un'opzione fondamentale per la
nonviolenza. Cosi', in Francia durante la guerra d'Algeria, molti giovani
chiamati alle armi, giudicando ingiusta questa guerra, si sono rifiutati di
mettersi a disposizione dell'autorita' militare e hanno dichiarato la
propria obiezione di coscienza. Essi si opponevano a quella guerra con un
metodo nonviolento di non-cooperazione, ma cio' non significava
necessariamente che essi si opponessero a ogni guerra e che non fossero
pronti a ricorrere alla violenza in altre circostanze.
- Lo sciopero della fame illimitato. Uno sciopero della fame illimitato non
ha piu' per fine, come e' il caso dello sciopero della fame limitato, di
protestare contro un'ingiustizia. Quelli che ricorrono ad esso sono
intenzionati a proseguirlo fino al raggiungimento degli obiettivi che si
sono fissati, fino a quando, cioe', venga eliminata l'ingiustizia che essi
denunciano. Questa azione pone numerosi e gravi problemi tali da far pensare
che essa non sia un mezzo che possa trovare il suo posto nella strategia
dell'azione nonviolenta. Inoltre, non possiamo affatto citare qui come
esempio i digiuni illimitati intrapresi da Gandhi. Il loro significato e la
loro efficacia devono spiegarsi essenzialmente nell'influsso del tutto
eccezionale esercitato da Gandhi sulla popolazione indiana. Per di piu', e'
in questo caso che religione e politica si trovano inestricabilmente
mescolate nell'atteggiamento di Gandhi. Cosi', a proposito del digiuno
illimitato deciso da Gandhi nel settembre 1932, il suo biografo Nanda
scrive: "Gandhi, tuttavia, non doveva giustificarsi con nessuno tranne che
con la propria coscienza o, come lui diceva, con il suo creatore". Ci
conviene percio' cercare altrove i criteri per definire a quali condizioni
uno sciopero della fame illimitato puo' essere intrapreso conformemente alle
esigenze della nonviolenza.
Innanzitutto, deve essere scrupolosamente rispettato anche qui cio' che e'
richiesto per le altre azioni dirette nonviolente, vista la natura
particolare dell'azione e la gravita' dei rischi che devono correre gli
attori. In particolare, e' necessario che questi abbiano in precedenza fatto
ricorso ad altre iniziative per farsi ascoltare dall'avversario e che
quest'ultimo si sia ostinatamente rifiutato di prenderli in considerazione.
Uno sciopero della fame illimitato non puo' essere intrapreso che per motivi
particolarmente gravi, quando e' apparso, dopo un'analisi dettagliata del
dossier, che l'obiettivo ricercato puo' essere raggiunto nello spazio di
tempo che esso consente. Uno sciopero della fame illimitato intrapreso su un
obiettivo impossibile da raggiungersi, oltre ad essere un gesto disperato di
protesta, non sarebbe un'azione nonviolenta. Questo atteggiamento si
avvicinerebbe invece a quello di coloro che si immolano con il fuoco. Pur
non volendo esprimere qui un giudizio sul significato e sul valore che
simili gesti possono avere - soprattutto quando questi si collocano nella
prospettiva di una filosofia o di una religione orientale -, ci teniamo a
sottolineare che essi non possono entrare a far parte di una strategia
dell'azione nonviolenta.
Resta il fatto che ogni sciopero della fame illimitato comporta, per chi lo
intraprende seriamente, il rischio di morire. Tutte le precauzioni prese per
assicurare l'efficacia dell'azione non possono garantire in assoluto la sua
riuscita. Ma ci sono delle cause che giustificano questo rischio. E colui
che decide di correrlo volontariamente deve assumersene la responsabilita'
fino alle sue piu' estreme conseguenze. Esercitare pressioni sull'avversario
e minacciarlo facendogli capire che non cedendo diverrebbe responsabile
delle sofferenze e, nel caso estremo, della morte di coloro che fanno lo
sciopero della fame, costituirebbe un inammissibile ricatto. Le sole
responsabilita' che gli devono essere attribuite durante lo sciopero sono
quelle che egli porta effettivamente a proposito dell'ingiustizia denunciata
e combattuta. Le pressioni che devono essere esercitate nei confronti dei
responsabili dell'ingiustizia non devono affatto mettere in evidenza le
sofferenze degli scioperanti della fame, ma le sofferenze di coloro che sono
vittime dell'ingiustizia.
Perche' l'obiettivo possa essere raggiunto in uno spazio di tempo cosi
breve, e' necessario che l'opinione pubblica sia gia' sensibilizzata
riguardo all'ingiustizia di cui si vuole ottenere l'eliminazione. La
funzione di uno sciopero della fame illimitato e' di opporsi a una
ingiustizia contro cui si e' delineata una maggioranza, rimasta pero' ancora
silenziosa. L'ingiustizia e' gia' stata identificata come tale, ma non ne e'
stata veramente percepita la sua gravita'. La tentazione di rassegnarsi e'
piu' forte della volonta' di agire. La maggioranza potra' allora trovare
nell'azione degli scioperanti l'espressione del proprio sentimento e del
proprio pensiero. Essa avra' cosi' modo di esprimersi e di agire a sua volta
allo scopo di esercitare il proprio potere politico per far fallire il
potere di coloro che sono responsabili dell'ingiustizia. Lo sciopero della
fame illimitato svolge allora il ruolo di catalizzatore che mobilita e mette
in moto per una stessa azione delle energie rimaste latenti. A questo punto
facciamo nostra l'affermazione di Gandhi secondo cui e' piu' conveniente
intraprendere il digiuno contro i propri amici, che contro i propri nemici.
La pressione, che dovra' essere decisiva per il raggiungimento
dell'obiettivo fissato, non deve essere quella dello sciopero della fame, ma
quella che e' stata suscitata dallo sciopero della fame. Cosi', quando si
conduce la lotta contro una decisione del governo, lo sciopero della fame
illimitato non ha come fine diretto quello di farlo cedere, ma di
cristallizzare l'opposizione e la determinazione della popolazione perche'
questa faccia cadere il governo. E' percio' necessario che gli scioperanti
possano contare immediatamente su appoggi, innanzitutto a livello
dell'informazione ma anche a livello dell'azione. Cio' richiede che
organizzazioni che giocano un ruolo importante nei confronti dell'opinione
pubblica, come i partiti politici, i sindacati e le Chiese, e anche
personalita' influenti, condividano nella parte essenziale, prima ancora
dell'inizio dello sciopero, l'analisi e l'obiettivo di coloro che sono
decisi ad intraprenderlo e siano pronti a sostenerlo. Per costringere
l'avversario a cedere, sara' dunque necessario che siano organizzate altre
manifestazioni nonviolente: non soltanto manifestazioni pubbliche ma pure
azioni di non-cooperazione, magari di disobbedienza civile. E' compito di
coloro che hanno preso l'iniziativa dei movimento di resistenza, cioe' degli
scioperanti, suggerire quali sono le possibilita' concrete di azione. Dovra'
essere costituito un comitato direttivo con il compito di coordinarle.
Ricordiamo che fu attraverso uno sciopero della fame illimitato che Louis
Lecoin, all'eta' allora di settantaquattro anni, ottenne il riconoscimento
legale in Francia dell'obiezione di coscienza. Nell'ottobre dei 1958, il
comitato di sostegno degli obiettori di coscienza consegno' al governo il
progetto di uno statuto. Nonostante tutti i passi intrapresi, non fu dato
alcun seguito a questo progetto. Tuttavia, interrogato in privato,
soprattutto da Albert Camus, il generale De Gaulle rispose che gli obiettori
avrebbero avuto uno statuto, ma che bisognava attendere il momento
opportuno, cioe' la fine della guerra d'Algeria. All'inizio del 1962, Lecoin
stimo' che non c'era piu' niente che poteva opporsi all'approvazione di
questo statuto. Egli decise percio' d'impegnarsi in una prova di forza con
il governo. Il 28 maggio scrisse al generale De Gaulle per informarlo che
avrebbe incominciato dal primo di giugno uno sciopero della fame affinche'
le buone intenzioni manifestate fin allora a favore degli obiettori di
coscienza si traducessero nei fatti. A partire dal primo di giugno Lecoin si
astenne percio' da qualsiasi nutrimento. Dopo qualche giorno, i giornali e
la radio diedero abbondanti informazioni sull'azione di Lecoin. Ben presto
dagli ambienti vicini al presidente della Repubblica arrivarono promesse
ufficiose. Lo stesso generale De Gaulle disse ad una persona molto vicina a
lui: "Non voglio vedere morire il signor Lecoin". Il vecchio anarchico volle
pero' proseguire il suo sciopero fino a che una decisione non fosse stata
presa ufficialmente. L'opinione pubblica, interpellata, incomincio' a
mobilitarsi. Furono promosse numerose iniziative a sostegno dell'azione di
Lecoin. Il 15 giugno, alcuni poliziotti, accompagnati da un medico legale,
fecero irruzione nella camera di Lecoin e lo trasportarono all'ospedale. Il
21 giugno, il primo ministro Georges Pompidou informo' che il governo aveva
deciso di sottoporre all'Assemblea nazionale, durante la sessione in corso,
un progetto di legge per il riconoscimento degli obiettori di coscienza.
Lecoin poteva a quel punto ritenersi del tutto soddisfatto. Tuttavia egli
richiese che se, per un qualsiasi motivo, il Parlamento non avesse potuto
discutere il progetto durante la sessione in corso e fosse stato costretto a
spostare l'esame a una data ulteriore, gli obiettori incarcerati fossero
liberati in attesa di un voto definitivo. La sera dei 22 giugno il governo
diede questa assicurazione e Lecoin cesso' il suo sciopero. Bisogno' pero'
aspettare il 24 luglio 1963 perche' l'Assemblea potesse discutere il
progetto di legge. Lecoin assistette ai dibattiti. Ma numerosi emendamenti,
di cui molti furono presentati dal deputato Michel Debre' che si trovava
purtroppo "in posizione critica rispetto al governo", mutilarono il progetto
iniziale che purtuttavia era stato accettato dallo stesso generale De
Gaulle. A quel punto Lecoin, non potendo sopportare ulteriormente, si alzo'
e grido': "E' una vergogna, e' uno scandalo". Gli uscieri e i poliziotti lo
bloccarono e lo portarono in questura. Alla fine, cio' che resto' del
progetto fu votato definitivamente il 22 dicembre 1963.
- Lo sciopero generale. Nella sua Histoire socialiste Jaures riporta la
seguente dichiarazione che Mirabeau pronunzio all'Assemblee des Etats de
Provence rivolgendola all'indirizzo di "tutti i gentiluomini e signorotti
che intendevano tutelare gli interessi della classe produttiva": "State
attenti, non sdegnate questo popolo che produce tutto, questo popolo che per
essere formidabile non dovrebbe che rimanere immobile". E Jaures osserva che
Mirabeau diede in questa occasione "la piu' potente e la piu' sbalorditiva
formula di cio' che chiamiamo oggi sciopero generale". Cosi' definito, lo
sciopero generale di tutto un popolo, deciso a spezzare il giogo della
tirannide e dell'oppressione che pesa sulle sue spalle e a diventare padrone
dei proprio destino, e' l'esemplificazione piu' perfetta del principio di
non-cooperazione.
Nel suo famoso libro Considerazioni sulla violenza, Georges Sorel fa
l'apologia della "violenza proletaria". Ma nell'affermare con forza la
necessita' della violenza per la liberazione dei proletariato, Sorel non
intende incitare gli operai a buttarsi in uno scontro sanguinoso con gli
eserciti della borghesia. Al contrario, egli si rammarica del fatto che la
parola rivoluzione evochi generalmente questa immagine, e rifiuta questa
prospettiva che, egli afferma, appartiene al passato. "Per moltissimo
tempo - egli scrive - la Rivoluzione e' apparsa, nei suoi tratti
fondamentali, come un succedersi di guerre gloriose, che un popolo, assetato
di liberta', e mosso dalle piu' nobili passioni, aveva sostenuto contro la
coalizione di tutte le forze della tirannide e dell'errore". Ma, facendo
leva soprattutto sui fatti tragici della Comune avvenuti nel 1871, egli
mostra che il proletariato ha dovuto distogliere la sua immaginazione e la
sua ragione da qualsiasi epopea guerresca. D'altra parte, Sorel se la prende
con forza con i "socialisti parlamentari" che vorrebbero convincere gli
operai del fatto che e' possibile ormai ottenere il riconoscimento dei loro
diritti con il solo gioco della democrazia formale. Sorel afferma che ormai
il proletariato deve porre il suo ideale e la sua speranza soltanto nello
sciopero generale. Dicendo cio', egli non si preoccupa di concepire
l'organizzazione pratica di questa azione gigantesca: cio' che a lui
interessa dimostrare e' che l'idea dello sciopero generale corrisponde alle
aspirazioni profonde dell'anima operaia e che essa e' capace di mobilitare
il proletariato nella lotta contro la borghesia. Per lui lo sciopero
generale e' un mito e deve essere considerato come tale, ma pensa appunto
che solo la potenza di questo mito puo' creare il dinamismo necessario al
movimento rivoluzionario. "Lo sciopero generale - egli scrive con molta
perspicacia - e' il mito in cui viene a compendiarsi il socialismo, nella
sua interezza, un organismo d'immagini capaci di evocare, con la forza
dell'istinto, tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse
manifestazioni della guerra, impegnata dal socialismo, contro la societa'
moderna. Gli scioperi hanno fatto fiorire nel proletariato i sentimenti piu'
nobili, piu' profondi e piu' fattivi che esso possegga. Lo sciopero generale
li unisce tutti, in un quadro d'insieme; da' a ciascuno di essi, riunendoli
insieme, la massima intensita'. (...) Noi otteniamo, cosi', quella
intuizione del socialismo che il linguaggio non poteva fornirci in modo
perfettamente chiaro - e l'otteniamo, in un insieme percepito
istantaneamente".
Cosi' Sorel, ed e' in cio' che la sua analisi ci sembra interessante, tenta
di sostituire nella coscienza operaia il mito della guerra rivoluzionaria
con la quale il proletariato schiaccia definitivamente la borghesia in un
bagno di sangue - e noi sappiamo quanti "rivoluzionari" in tutto il mondo
sono ancora legati piu' o meno coscientemente a questo mito -, con il mito
dello sciopero generale con il quale il proletariato pone fine
all'oppressione capitalistica e inaugura con entusiasmo l'era del
socialismo. Comunque, esiste effettivamente una tradizione operaia in cui lo
sciopero generale concentra tutte le speranze del proletariato.  Barthelemy
De Ligt ci ricorda una canzone che una volta "si cantava dappertutto: nelle
famiglie, nelle assemblee e nelle officine". Essa illustra questa tradizione
in modo particolarmente significativo:
"0 tu che ti chini verso la terra / La tua fronte e' pallida dal dolore /
Sollevati, fiero proletario / Un migliore avvenire appare all'orizzonte! /
Non a colpi di mitraglia / Il Capitale vincerai / Per vincere la battaglia /
Non avrai che da incrociar le braccia! / Per la caduta fatale / Degli
sfruttatori tiranni, / Lo sciopero generale / Ci fara' trionfanti! / La
migliore arma per abbattere / I difensori del Capitale, / Questa orrenda
razza matrigna, / e' lo sciopero generale".
Rosa Luxemburg ha consacrato allo sciopero generale uno studio documentato e
dettagliato, facendo riferimento essenzialmente all'esperienza della
rivoluzione russa del 1905. Per molto tempo lo sciopero generale fu
combattuto in seno ai partiti comunisti come un'idea pericolosa,
propagandata dagli anarchici e capace di portare il movimento rivoluzionario
fuori dalle vie realiste. Su questo punto, Engels aveva vivamente attaccato
Bakunin. Ma Rosa Luxemburg non esita ad affermare: "Lo sciopero di massa
(...) appare oggi l'arma piu' potente della lotta politica per i diritti
politici". Analizzando gli avvenimenti sopravvenuti in Russia, Rosa
Luxemburg sottolinea che "lo sciopero di massa non puo' essere "fatto"
artificiosamente, non puo' essere "deciso" nel cielo azzurro, ne'
"propagandato", ma che esso e' un fenomeno storico che in un certo momento
risulta dalle condizioni sociali con la forza della necessita' storica".
Percio' "il Partito deve - se si osa adoperare questo termine - agganciarsi
al movimento di massa, quando lo sciopero sia stato spontaneamente
intrapreso, e ha il compito di dargli un contenuto politico e delle parole
d'ordine giuste. Se non ne ha l'iniziativa, deve averne la direzione e
l'orientamento politico. E' soltanto cosi' che potra' impedire che l'azione
si perda e rifluisca nel caos".
Se ci riferiamo allo sciopero di massa avvenuto in Francia, nel maggio del
'68, non possiamo che essere sorpresi dalla giustezza delle affermazioni di
Rosa Luxemburg. E' vero che nel 1968 lo sciopero generale non e' stato ne'
suscitato, ne' deciso, ne' organizzato da alcun partito ne' organizzazione
ma che esso e' stato intrapreso spontaneamente da un movimento venuto dalle
masse stesse. E' pure vero che, per il fatto di non aver intravisto come
possibile un tale fenomeno, i diversi partiti e le diverse organizzazioni
che si ritiene rappresentino gli interessi delle masse, sono stati presi
alla sprovvista. Si sono trovati nell'incapacita' di dare un contenuto
politico coerente allo sciopero generale e non hanno potuto "impedire che
l'azione si disperdesse". Cosi', anche se appare difficile preparare a medio
termine, per tale giorno e a tale ora, l'inizio di uno sciopero generale, e'
opportuno che quest'ultimo venga tenuto in considerazione come un elemento
essenziale della prospettiva rivoluzionaria. La sua possibilita' concreta
deve essere ricercata in certe circostanze sociali particolari, allo scopo
di potere allora dominare e orientare l'avvenimento e di far riuscire per
quell'occasione i progetti da cui dipende l'avvento di un "socialismo dal
volto umano".
(Parte seconda - continua)

2. ET COETERA

Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente,
ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle
alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E'
direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution
non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece
obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni
nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari
francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative
Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione
democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per
schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far
fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato
dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza,
Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977;
Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e
metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico
della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della
nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses
Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire
de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 90 del 31 luglio 2007

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