Voci e volti della nonviolenza. 143



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 143 del 30 gennaio 2008

In questo numero:
1. Anna Bravo: Donne, guerra, memoria (parte terza e conclusiva)
2. Et coetera

1. ANNA BRAVO: DONNE, GUERRA, MEMORIA (PARTE TERZA E CONCLUSIVA)
[Nuovamente riproponiamo - e nuovamente ringraziamo di cuore Anna Bravo per
avercelo messo a disposizione - il primo capitolo del suo fondamentale libro
scritto in collaborazione con Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi.
Storie di donne. 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000]

5. Prove di dialogo
Quasi cinque anni fa, scrivendo questa introduzione alla vigilia del
cinquantennale del 25 aprile, abbozzavamo un bilancio sia interno alla
storia delle donne sia esterno. Mentre il censimento delle ricerche indicava
che il rapporto donne/guerra/resistenza stava entrando a pieno titolo
nell'agenda delle storiche, i programmi culturali e celebrativi mostravano
un disegno in chiaroscuro. I limiti di militarismo insiti nei criteri per
l'assegnazione delle qualifiche partigiane venivano ormai riconosciuti (46),
e nel dibattito almeno due punti sembravano acquisiti: che la resistenza e'
un oggetto plurale e differenziato su cui era necessario lavorare ancora a
livello di ricerca e di concettualizzazione; che lo studio delle lotte
inermi poteva essere una tappa importante di questa nuova fase (47). Anche
la presenza femminile era in genere ricordata piu' di frequente; sarebbe
ormai stato difficile giustificare un vuoto totale proprio in un momento di
massima visibilita' dell'evento.
Ma si persisteva a usare un concetto come "solidarieta' femminile", che
mette l'accento sull'aiuto offerto ad altri e sull'aspetto umanitario, si
esitava di fronte a quello di resistenza civile, che sottolinea invece il
rapporto fra comportamenti delle donne e forze occupanti e il suo
significato politico e di lotta. Nonostante alcune sollecitazioni a
"complicare" anche in Italia i contenuti del termine resistenza (48), la
tendenza era ancora a trattare l'esperienza di genere come una enclave
all'interno di convegni, libri e mostre, per di piu' limitandosi a vicende e
immagini del femminile senza affrontare ne' quelle del maschile ne' i
concreti rapporti donne/uomini: un'area su cui c'e' stato, e in parte c'e'
ancora, un vasto non detto e un piu' vasto non pensato.
Nel frattempo l'espressione "resistenza civile" continuava ad apparire
vagamente abusiva, concorrenziale alla lotta armata, comunque inessenziale
alla comprensione sia delle tante iniziative di donne (e non solo di donne),
sia degli scioperi operai - che, se si accetta la categoria di guerra
civile, inaugurano nel marzo '43 la resistenza al fascismo.
Oggi la nostra impressione e' che il momento delle rigidezze sia superato.
Nella ricerca e nel dibattito la resistenza civile e le lotte delle donne
compaiono in modo meno episodico, il termine "resistenza passiva" ha perso
credito e la gerarchia armati/inermi non e' piu' intoccabile, mentre voci
autorevoli hanno invitato a ridefinire le caratteristiche e i confini della
minoranza attiva tenendo conto delle lotte non armate (49). E' un processo
lento, non lineare, con varie componenti: la crescita quantitativa e
qualitativa degli studi delle donne e dei gruppi della nonviolenza, le
posizioni di studiosi/e che anche sull'onda del crollo dei regimi comunisti,
invitavano da tempo a considerare nuove categorie e nuovi oggetti di
ricerca; l'incrinarsi di alcuni tabu' storiografici (50); infine ma non da
ultimo il ruolo di quelle partigiane, deportate "razziali" e politiche,
militanti antifasciste, che  hanno pubblicamente guardato con simpatia alla
resistenza civile e spesso hanno offerto notizie preziose in merito. Fra il
concetto di resistenza civile e quello di resistenza tout court, fra i
criteri e i referenti sociali che sono alla base dell'uno e dell'altro, si
e' inaugurato un dialogo.
Lo stesso concetto di resistenza civile si e' aperto al confronto con gli
studi delle donne. Inizialmente, quel concetto privilegiava le mobilitazioni
istituzionali e le iniziative tendenzialmente di massa e politicamente
organizzate, riservando a quelle individuali e di piccoli gruppi lo statuto
piu' debole di disubbidienza o dissenso; oggi si ammette che quell'accezione
lasciava in ombra molti soggetti a pieno titolo attivi, e si tende a
ricomprendere anche le azioni individuali e di microgruppi, l'area a
maggiore presenza femminile.
Ma il legame fra donne e resistenza civile ci sembra piu' un punto di
partenza che di arrivo (51). Quella categoria ha aperto una strada, riunendo
sotto un titolo forte iniziative senza nome, azioni ritenute sussidiarie e
grandi lotte; ha mostrato che quell'area di comportamenti non e' il braccio
disarmato del movimento partigiano ne' un sottoprodotto dei partiti, e
neppure un limbo inorganizzato e impolitico. Ha spostato alcune storie
importanti dalla memoria privata a quella pubblica. E' moltissimo, e non
avrebbe senso pretendere di piu', a maggior ragione perche' il concetto ha
una storia in larga parte autonoma dal discorso di genere.
Il punto e' che, sgombrato il campo dalla gerarchia armati/inermi, diventano
ancora piu' evidenti altri fattori di esclusione. Anche nella resistenza
civile ha corso lo stereotipo secondo cui le donne sarebbero incompatibili
con la sfera politica, e sono all'opera meccanismi che possono tenerle ai
margini.
Non e' soltanto antifemminismo. Vincolata agli imperativi della
clandestinita', organizzata a maglie larghe, spesso poco omogenea, la
resistenza civile nelle sue forme piu' strutturate si regge su una struttura
autoritaria che non prevede ne' criteri di avvicendamento della dirigenza,
ne' regolari meccanismi di controllo e di confronto. Come fa notare Semelin,
non potrebbe essere altrimenti. Ma a essere penalizzate sono in primo luogo
le donne, presenti soprattutto nelle realta' di base, per lo piu' ancora
prive di uno stile politico autorevole, comunque raramente cooptate nelle
leadership. E' un paradosso della resistenza civile antinazista usare
pratiche associate al femminile, e uno stile politico e modelli
organizzativi tipicamente maschili (52).
Persino nelle azioni piu' informali e di base agiscono strutture in cui le
donne possono scomparire. Innanzitutto la famiglia, che nell'Europa occupata
e' un bersaglio delle politiche di sfruttamento e terrore, e nello stesso
tempo un luogo primario di radicamento e concertazione. Non per caso si e'
parlato di politicizzazione dei ruoli familiari e di pubblicizzazione della
sfera privata (53). Spinte e legittimate ad agire in nome e per tramite
della famiglia, le donne restano spesso impigliate nella sua immagine di
unita' organica, che tende ad assumere il ruolo di protagonista in loro
vece, o a assegnarlo al marito, padre, fratello. Come mostrano anche alcune
storie raccontate in questo libro, la figura di moglie e madre puo'
sovrastrare quella della resistente, la sua iniziativa tornare ad essere
classificata come contributo.
E' dunque utile proseguire nella "contrattazione" con la categoria di
resistenza civile - il che equivale a mettersi in cerca dei modi in cui si
esprime l'azione delle donne, a distinguerla dallo sfondo che potrebbe
annettersela e a farla pesare nella concettualizzazione.
In questa prospettiva ci limitiamo a sottolineare il legame privilegiato con
la mutevole zona di separazione/sovrapposizione tra sfera pubblica e sfera
privata che la guerra movimenta fino a scardinarla (54). Le donne - una
minoranza di donne - non solo operano per lo piu' in aree a confini incerti
come la tutela della comunita', l'assistenza ai piu' vulnerabili, la
protezione dei perseguitati, ma quei confini manipolano sistematicamente in
ogni loro attivita'. Scrivono e ciclostilano in case che sono nello stesso
tempo abitazioni e centri di resistenza. Frequentano mercati e botteghe
facendo insieme spesa e propaganda politica. Trasformano gli incontri
amichevoli in riunioni, uno sconosciuto in figlio, marito, amante, un libro
in contenitore per una rivoltella, il proprio corpo in nascondiglio di
documenti; coinvolgono parenti e vicine, tessono relazioni personali negli
spazi pubblici, usano gli spazi privati per stabilire contatti politicamente
utili.
Se il gioco riesce, e' perche' l'associazione tra femminilita' e privato
regge ancora sul piano simbolico, anzi viene rafforzata dalla guerra. E
perche' di questo stereotipo le donne fanno un uso sapiente, spostando
nell'universo delle armi le armi della sfera privata e personale: seduzione,
appello agli affetti, fragilita' esibita, impudenza calcolata, a volte la
tattica del piccolo dono offerto al nemico in segno di pace, spesso
l'esibizione dei simboli del materno. E', dislocata in un ambito del tutto
nuovo, la tradizionale pratica di chi si trova in condizioni di dipendenza e
per questo deve attrezzarsi a interpretare l'altro.
La capacita' di recitare piu' ruoli e di mischiare i confini varrebbe
infatti a poco, se non si sposasse all'ingrediente principe delle tattiche
di divisione psicologica del nemico, l'attitudine a guardarlo come alterita'
composita e decifrabile anziche' come massa indifferenziata; e se non si
fondasse sulla consapevolezza che un punto debole degli occupanti sta nel
bisogno di sospendere momentaneamente il clima di muro contro muro per
godere di un simulacro di rapporti "normali": fame di privato, si potrebbe
chiamare. C'e' questo raffinato gioco delle apparenze e delle probabilita'
alla base degli episodi infinite volte narrati di donne che superano (o si
illudono di superare) i posti di blocco con le loro sporte piene di
volantini o munizioni - piene di politica e di guerra - esibendo i simboli
della routine domestica o della femminilita' inoffensiva.
La "contrattazione" potrebbe partire proprio da qui, dalla ricerca di
concetti e intrecci narrativi capaci di far risaltare, insieme alle nuove
idee e competenze, le tradizioni di saperi femminili attivate nel faccia a
faccia con la guerra.
Resta il fatto che per i suoi strumenti e i suoi contenuti la resistenza
civile si addice alle donne, e viceversa: tanto che si va facendo strada fra
gli storici italiani la tendenza a ritenerla un comportamento e un oggetto
storico quasi esclusivo delle donne. Noi stesse corriamo il rischio di
creare una nuova enclave e di incidere troppo poco nella discussione in
atto.
Sarebbe un peccato. Gia' oggi, grazie all'attenzione di alcune studiose si
sono scoperti o riscoperti fenomeni e soggetti: per esempio quegli
impiegati/e comunali romani che, ancora prima di essere coordinati dal
Comitato di liberazione, organizzano un ingegnoso sistema per procurare ai
ricercati una "regolare" falsa identita', scegliendo come domicilio edifici
bombardati e come luogo di provenienza irraggiungibili Comuni a sud del
fronte; o gli sterratori del Verano, che disseppelliscono le bare dei
fucilati cui i nazisti vietano di apporre segni di riconoscimento, le
aprono, prendono nota delle ferite, dei tratti fisici, dei vestiti, per
consentirne l'identificazione in futuro (55).
Ma casi come questi sono ancora felici eccezioni. La polarita' armati/inermi
risulta davvero incrinata soltanto quando l'inerme coincide con le donne; se
si tratta di comparare uomini a uomini, quella gerarchia regge, almeno a
giudicare dal quasi vuoto di ricerca e di discussione. Degli attori della
resistenza civile ci si occupa di rado e si sa poco, e quel poco a volte
emerge per caso, come avviene nel '98 con la storia dell'agente di custodia
del carcere milanese di san Vittore Andrea Schivo, deportato e ucciso a
Flossenburg per aver "agevolato i detenuti politici ebrei coi loro
bambini... soccorrendoli con delle uova, marmellata, frutta, di tutto quanto
poteva essere possibile e utile" (56).
Forse e' il momento di chiedere le "pari opportunita'" per gli uomini. Certo
e' il momento di riattraversare pazientemente guerra e resistenza, misurando
la seconda in modo diverso sia sul piano della partecipazione numerica (che
senso ha ormai limitarsi a fare il conto dei combattenti in armi?) sia su
quello dei significati. Perche' sono molti, all'interno stesso della lotta
armata, i comportamenti che sfuggono alla contrapposizione fra chi prende e
chi rifiuta le armi. Pensiamo al tema poco studiato delle tregue stipulate
fra resistenti e nazisti/fascisti: sotto il termine tregua convivono
situazioni di crisi militare e manovre contro formazioni partigiane
concorrenti, ma anche il proposito di contenere la distruttivita', di dare
un po' di respiro alla popolazione e all'economia locale. Un discorso simile
puo' valere per l'elasticita' dell'esercito partigiano: se la resistenza
civile e' per eccellenza una realta' a confini mobili, anche dalla
resistenza armata si entra e si esce. Dove le formazioni sono stanziali, ci
sono partigiani che al momento della vendemmia e della mietitura tornano a
casa, per poi rietrare in banda a lavoro finito: rispetto agli eserciti
regolari e' un modello opposto, ed e' proprio quel che contribuisce a
assimilare il partigiano al combattente popolare.
Pensiamo ai tentativi di contrapporre alla bellicosita' come valore il
criterio del caso per caso, di resistere alla logica di una guerra "dove non
si fanno prigionieri", di pesare minuziosamente il rapporto danni/benefici
di una data azione; al dibattito aspro e accorato tra le forze partigiane
sui limiti da autoimporsi; ai molti sforzi di mettere fine al piu' presto
allo spirito della guerra civile, come fa una giovane partigiana torinese
che nei giorni della liberazione viene incaricata di scortare un prigioniero
e che gli consente di dileguarsi: "abbiamo vinto, lascio perdere" (57).
Forse, sottolineando la vicinanza di pratiche di questo tipo alle strategie
di contenimento della distruttivita' (58), si potrebbero chiamare
comportamenti di pace in tempo di guerra e a dispetto della guerra.
Pensiamo all'importanza di ampliare la discussione sulle spinte complesse
che muovono i piccoli e grandi salvatori, dalle ragioni politiche a quella
sorta di rivolta morale che si coglie per esempio nelle memorie di Giorgio
Perlasca, il commerciante fascista che nella Budapest del '44 si fa passare
per console di Spagna e riesce a salvare circa 3.000 ebrei ungheresi
fornendo loro documenti e salvacondotti (59).
Forse da questo ventaglio di esperienze uscirebbe un racconto di guerra e
resistenza piu' vicino alla sensibilita' del presente. E guardando al
presente, ricerca e divulgazione potrebbero avere un significato aggiuntivo.
La guerra del Kosovo e' nata anche dalla sconfitta della resistenza civile
della popolazione kosovara albanese, una sconfitta in cui ha pesato
innanzitutto l'ostinazione serba, ma cui non e' stata estranea
l'indifferenza della comunita' internazionale di fronte a anni di pratiche
nonviolente e poi di fronte alla loro crisi. Rendere onore alle lotte di
ieri e' anche un omaggio a quelle di oggi, fatto nella speranza - precaria,
ce ne rendiamo conto - di guadagnare qualche consenso in piu' all'idea che
la scelta non armata e' spesso la piu' meritevole di riconoscimento e di
appoggio.
*
6. Un lavoro di memoria
Gran parte delle esperienze presenti in questo libro sono state raccontate
dalle protagoniste fra il '90 e il '93. Sono gli anni in cui l'illusione di
pace generale nata con il crollo del muro di Berlino cede di fronte al
moltiplicarsi dei focolai di scontro, all'incrudelirsi delle guerre in atto
e allo scoppio di nuove, nel caso della ex Jugoslavia proprio ai confini
italiani.
Spettacolarizzata nei suoi aspetti sia tecnologici sia arcaici, la guerra
entra ogni giorno nelle case, riattivando paure, sensibilita',
idiosincrasie - il passo pesante dei tedeschi in stivali di cuoio, la sirena
dei bombardamenti -, segnando le forme del ricordo, in particolare in tema
di valutazioni e bilanci.
Succede cosi' che la tensione fra presente e passato, tipica ricchezza delle
fonti di memoria, si caratterizzi per la forza con cui il primo polo agisce
sul secondo. La guerra che si e' vissuta puo' appiattirsi su quelle del
presente in una sola sequenza di sofferenze inutili, o all'apposto
stagliarsi come catastrofe unica e irripetibile. Si desidera raccontare, si
teme di raccontare, ci si interroga sulla sua utilita'. Gli appelli alla
pace e le dichiarazioni di pacifismo si fanno quasi obbligati, in un
intreccio di ritualita' e determinazione: chi ha conosciuto la guerra teme
troppo un suo ripetersi per farsi spaventare dalla ripetitivita' del
linguaggio.
Dimenticare che si tratta di storie di guerra raccontate in tempi di guerre
ci priverebbe di un contesto importante per comprenderle.
Sono, anche, storie narrate su sollecitazione di altre donne personalmente
interessate alla ricerca/costruzione di un'ascendenza femminile, e
all'interno di un progetto che punta in modo dichiarato a dar valore
all'esperienza delle donne. L'interazione fra chi racconta e chi interroga,
grazie alla quale la fonte orale si costruisce come prodotto a due, e'
intessuta qui non solo dalle somiglianze e differenze fra donna e donna, ma
dal diverso modo in cui quel progetto e' percepito e valutato.
Molte narratrici parlavano per la prima volta pubblicamente di se';
pochissime si sono stupite del nostro invito a raccontare. Che la propria
esperienza debba entrare a pieno titolo in una storia rinnovata, attenta al
quotidiano, alle "piccole cose", al privato, sembra una convinzione diffusa;
molto meno diffusa e' la consapevolezza che vari comportamenti attengono
invece alla sfera della politica, e che tocca al concetto di resistenza
ridefinirsi per abbracciarli. Effetto combinato di conquiste e limiti del
femminismo, dei messaggi dei media, di diversi gradi di credibilita' del
nostro progetto, della tenuta degli stereotipi anche in chi li subisce?
Questo e altro sicuramente; ma in certi larvati scetticismi, in certi
impliciti ridimensionamenti, si avverte in primo luogo il peso del senso
comune, storiografico e non, creato dalle interpretazioni dominanti su
guerra e resistenza. Come si vedra', la memoria ne porta molte tracce.
Sebbene alle protagoniste la ricerca sembrasse doverosa non meno che a noi,
lo scarto fra aspettative diverse e' rimasto tendenzialmente netto (60). Una
sola narratrice usa per descrivere la propria vicenda la bella espressione
"piccola resistenza", dove il primo termine allude a una modalita' minore,
ma la seconda ne rivendica l'appartenenza alla sfera del politicamente
significativo. Ne nasce un racconto di grande presa emotiva e teorica, che
tende a fare dell'intervistatrice una "testimone mentale" capace di
trasmettere a un pubblico piu' vasto i significati cari alla protagonista.
E' il desiderio di molte.
Anche per questo ci sembra discutibile l'ipotesi di un rifiuto femminile
alla narrazione legato a riserbo, diffidenze, sottovalutazione della propria
esperienza, rimozioni - che pure possono avere un peso. Crediamo, piu'
semplicemente, che molte donne non abbiano parlato perche' ben poche e pochi
si sono preoccupati di sollecitare la loro memoria (61). Nel dopoguerra e
per tre decenni ancora, le rare pubblicazioni sono orientate da criteri di
rilevanza politico-culturale ancora piu' selettivi di quelli applicati ai
testi maschili.
Che l'esperienza resti muta sul piano pubblico e' dunque il frutto di una
scelta da parte di singoli e di istituzioni, che adottano il silenzio e ne
trasferiscono la responsabilita' da se stessi alle protagoniste e dalla
storia alla memoria. Un esempio ancora piu' evidente riguarda la
deportazione, dove basta una scorsa alle bibliografie per smentire il luogo
comune secondo il quale i sopravvissuti non avrebbero scritto o raccontato
(62).
L'insistenza sull'importanza interpretativa del contesto non implica pero'
una concezione della memoria come materiale infinitamente flessibile alle
suggestioni dell'interlocutore e dell'oggi. Se il racconto non e' mai pura
duplicazione del passato, non e' neppure l'eco del presente. Piuttosto nasce
da una contrattazione ininterrotta fra norme e immagini di tempi diversi, si
costruisce attraverso una pluralita' di repertori narrativi in cui quello
d'epoca fa da caposaldo, denso com'e' di tradizioni familiari e di gruppo,
di simboli popolari e religiosi, di modelli culturali, messaggi politici,
discorsi di propaganda. E a qualsiasi repertorio fa a sua volta da caposaldo
la concretezza dell'esperienza. Tra le risorse conoscitive offerte dalla
memoria biografica, la piu' preziosa e' forse la sua capacita' di ricordare
che la realta' deborda dai linguaggi disponibili per raccontarla (63), che
le idee non nascono per germinazione da altre idee, ma nella loro tensione
con il vissuto corporeo, affettivo, mentale. Convinzioni e valutazioni delle
narratrici sono molto piu' resistenti di quanto spesso ritiene chi le
interroga.
Non per questo diventa automaticamente agevole narrare. Il racconto del
reduce e' un genere letterario, quello femminile manca ancora di un modello,
anche se una guerra come la seconda, per gran parte di retrovia e di
occupazione, tende a minare lo stereotipo che assegna al discorso maschile
il sangue, a quello femminile il lutto. Di questa polarita' si trova traccia
in vari  racconti, in particolare quando la memoria femminile sembra
incorporare ampi squarci dell'esperienza maschile - e' cosi' per la
deportazione, la prigionia militare, la campagna di Russia, dove si ha
l'impressione che gli uomini parlino per interposta persona, e le donne
facciano da voce narrante. Sottrarsi alla celebrazione del lutto non e'
impresa facile, come non lo e' soffrire prima per se stesse che per gli
altri.
Non nasce pero' solo da qui, ci sembra, la riluttanza cosi' diffusa a
presentarsi come pedine schiacciate dall'oppressione, una strategia tanto
piu' interessante se si pensa all'enorme successo editoriale e televisivo
della Storia di Elsa Morante, con quel prototipo di vittima assoluta che e'
il personaggio di Ida Ramundo. Certo gioca in questo rifiuto una tradizione
di vita e di racconto, locale e non solo, imperniata sulla donna anello
forte della famiglia e della comunita'.
Ma nelle narrazioni c'e' materia per un'altra ipotesi, tanto piu' se le si
confronta con quelle raccolte in alcune citta' della Germania. Qui
l'insistenza sulla condizione di vittima e' un dato generale, interpretato
credibilmente come strumento per autoassolversi dalle responsabilita' del
nazismo (64): sull'onda di un simbolismo popolare e religioso che separa
nettamente vittime e colpevoli, chi e' vittima di un evento non potrebbe
esserne considerato responsabile. Risponde allo stesso scopo l'assimilazione
della guerra a una catastrofe naturale o a un meccanismo che si autoscatena.
Che in gran parte delle nostre interviste siano assenti strategie di questo
tipo, suggerisce che in Italia si continua a non fare i conti con la parte
avuta dal paese nei crimini della guerra: quanto piu' ci si ritiene
innocenti tanto meno si ha bisogno di atteggiarsi a vittime. Non e' solo
l'effetto di rigenerazione prodotto dalla resistenza; pesa anche lo
stereotipo del fascismo come altro da se', espresso qui nella prontezza con
cui ci si dissocia a posteriori senza rimettere in discussione ne' se stessi
ne' il proprio rapporto con l'autorita'.
Si potrebbero fare, e faremo, altri esempi della ricchezza di questi
racconti per lo studio delle soggettivita', del modo in cui da un
irrigidimento, un aggiustamento, una deriva della memoria si puo' risalire a
una cultura o a un'ideologia - e naturalmente ai sogni, ai desideri, alle
frustrazioni personali e collettive. Quante volte la storia che la memoria
tramanda e' la vita che poteva essere e non e' stata, la vita che ancora si
spera per se' e per gli altri.
Non vorremmo pero' che sottolineare questo aspetto mettesse in ombra il
contenuto di verita' che il racconto rivendica anche quando si sposta
all'altro polo del continuum che separa e unisce elementi "soggettivi" ed
elementi "oggettivi"; a condizione di farla interagire con altre fonti, come
e' d'uso per qualsiasi documento, la memoria ha pieno diritto di parola sul
piano della conoscenza fattuale.
Dai nostri racconti esce uno spaccato credibile delle esperienze di guerra
in uno spazio che non coincide piu' con la Torino industriale e operaia, ma
con un territorio a confini mobili, in cui citta' e campagna si
sovrappongono modificandosi a vicenda.
Non solo: fra le nostre narratrici, alcune, torinesi di origine, vivono la
guerra lontano da casa; altre vengono da citta' diverse o dalla campagna
piemontese; altre ancora sono emigrate, per lo piu' dal Veneto, ma qualcuna
anche dal Sud. Se il quadro resta ben caratterizzato dal punto di vista
locale, offre pero' possibilita' di comparazione gia' al proprio interno
(65).
In nessun modo abbiamo puntato a un campione rappresentativo, del resto
manifestamente inattingibile, ma alla raccolta del maggior numero possibile
di esperienze, soprattutto di quelle dimenticate o tenute ai margini. La
rappresentativita' che speriamo di aver colto riguarda i molti modi in cui
donne e uomini sono stati - o non sono stati - soggetti della propria vita e
dei propri pensieri; le molte forme in cui nella stessa persona si e' agita
la tensione fra norme e comportamenti, passivita' e liberta', vecchio e
nuovo, sia o no quest'ultimo definibile come moderno. La memoria ha aperto
molti spiragli sulla guerra che intorno a questi nodi si combatte
all'esterno come all'interno delle persone.
*
Note
46. C. Dellavalle, Partigianato piemontese e societa' civile, "Il Ponte", 1,
1995, cit.
47. Cosi' per esempio al seminario Resistance, Widerstand, Resistenza,
Goethe Institut, Torino 6-8 aprile 1995.
48. Cfr. la relazione di L. Paggi al convegno "In Memory: Revisiting Nazi
Atrocities in Post-Cold War Europe", Arezzo, giugno 1994, che sottolinea la
difficolta' "della narrativa fondata sui valori dell'antifascismo e della
resistenza a ricomprendere la memoria delle popolazioni coinvolte".
49. Pavone, Per una riflessione critica su rivolta e violenza, cit.
50. Tra i primi esempi vedi G. Crainz, Il conflitto e la memoria, e Id, Il
dolore e la collera: quella lontana Italia del 1945, ambedue sulle uccisioni
di fascisti nell'immediato dopoguerra, in "Meridiana" nn. 13, 1992 e 22-23,
1995. Vedi anche P. Pezzino, Anatomia di un massacro, Il Mulino , Bologna
1997, e G. Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997, entrambi sulla
memoria conflittuale verso la resistenza di comunita' vittime di
rappreseglie naziste.
51. Per una diversa considerazione del rapporto donne/resistenza civile,
cfr. M. de Keizer, La "Resistenza civile", in "Italia contemporanea", 200,
1995.
52. A. Bravo, La resistenza civile, in L. Paggi (a cura di), Storia e
memoria di un massacro ordinario, Manifestolibri, Roma 1966.
53. P.Schwartz, Redefining Resistance:Women's Activism in Wartime France, in
Higonnet et al. (eds), Behind the Lines cit; A. Rossi-Doria, Le donne sulla
scena politica, in Storia dell'Italia repubblicana, Einaudi, Torino 1994: M.
Nash, Women's Experience, Civil Resistance and Everyday Life in War and
Revolution: Spain 1936-1939, relazione presentata al convegno "Donne,
guerra, resistenza nell'Europa occupata" (Milano 14-15 gennaio 1995).
54. Cfr. anche le relazioni di M. G. Camilletti, L. Capobianco, M. Fraser,
L. Mariani, al convegno citato sopra.
55. S. Lunadei (a cura di), Donne a Roma 1943-1944, Cooperativa Libera
Stampa, Roma 1996.
56. S. Laudi, Un giusto, in "Ha Keillah", 3, 1998.
57. La protagonista e' Marisa Sacco, che narra l'episodio in "Guerra alla
guerra", video a cura di Anna Gasco, Torino 1995.
58. Tzvetan Todorov, Une tragedie francaise, Seuil, Parigi 1994.
59. E. Deaglio, La banalita' del bene, Feltrinelli, Milano 1991.
60. Sulla necessita' di lavorare con la memoria anziche' sulla memoria, vedi
L. Lanzardo, Torino, guerra, donne. Un esempio di ricerca qualitativa: le
fonti orali, in "Qualestoria", 1990, n. 1.
61. Vedi l'analisi di R. Prezzo, La seconda guerra mondiale sul filo della
memoria. Memoria e soggettivita' rammemorante, in "L'impegno", 1993, n. 1.
62. Cfr. A. Bravo, D. Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti di
memoria della deportazione dall'Italia. 1944-1993, Franco Angeli, Milano
1994.
63. Sul rapporto critica femminista / decostruzionismo, vedi E. Alessandrone
Perona, Sincronie e diacronie nelle scritture femminili sulla seconda guerra
mondiale, in "Passato e presente", 1993, n. 30, pp. 118 sg.
64. A. M. Troeger, German Women's Memories of World War II, in Higonnet et
al., Behind the Lines  cit.
65. Delle 125 donne intervistate, sono nate in Piemonte 95 (di cui 60 a
Torino e nella cintura): 87 di loro sono di famiglia piemontese. Fra le
altre, sono nate al Sud 11, nel centro Italia 4, 15 nel Nord Italia. Nel
1940, avevano meno di 19 anni 51 di loro; 43 erano fra 19 e 29 anni; 25
erano fra 29 e 39 anni; 6 fra 39 e 50. Delle loro famiglie (considerando la
condizione del capofamiglia) 39 erano di classe operaia, 20 contadine, 24 di
piccola borghesia impiegatizia, 22 di borghesia delle professioni, 5
artigiane, 10 commercianti. 5 erano famiglie di ufficiali e sottufficiali.
Le donne di religione cattolica sono 115, di cui alcune non praticanti; 8 di
religione ebraica; due valdesi. La loro scolarita' va dalla licenza
elementare (50), alla licenza di scuole tecnico-professionali e di
avviamento (38), alla licenza liceale o al diploma (14), alla laurea (23).
Solo 13 sono definibili come casalinghe; 20 erano ancora studentesse o
scolare; 23 erano operaie, 21 impiegate, 2 contadine, 6 commesse, 7
insegnanti, 5 sarte, 2 modiste, 6 occupate in professioni artistiche, 2
commercianti, 2 ostetriche, 1 medico, 1 infermiera, 1 avvocata, 3
domestiche, 1 traduttrice. Le rimanenti svolgevano attivita' varie. Le donne
ricoverate in ospedale psichiatrico erano 4, 1 e' suora, 1 e' stata
crocerossina per tutta la durata della guerra. All'epoca 52 erano sposate,
38 con figli; 73 erano nubili, 2 con figli; 69 hanno vissuto lo sfollamento,
35 hanno avuto prigionieri, feriti, deportati, dispersi, morti fra i parenti
stretti, 2 sono state gravemente ferite nei bombardamenti. Le partigiane
riconosciute sono 4; 27 hanno fatto attivita' politica, molto spesso senza
legami con partiti e organizzazioni.
26 donne  si sono autocandidate all'intervista rispondendo a un "Invito a
raccontare" diffuso in un convegno; 26 sono state raggiunte attraverso
istituzioni e circoli; 73 attraverso reti di rapporti personali e canali
politici. Alcune hanno scelto di comparire attraverso uno pseudonimo. Da
altre ricerche da noi condotte abbiamo tratto i racconti delle deportate sia
"razziali" sia politiche e di altre partigiane.
A tutte le donne che ci hanno narrato la loro esperienza, sia quelle che
compaiono in questo libro sia quelle che non abbiamo potuto citare, siamo
profondamente grate.
(Parte terza - fine)

2. ET COETERA

Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha
insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e
genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non
omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni
nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha
diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione
nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle
storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza
in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni
culturali. Opere di Anna Bravo:  (con Daniele Jalla), La vita offesa,
Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza,
Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di
memoria della deportazione dall'Italia,  Angeli, Milano 1994; (con Anna
Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza,
Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal
Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria.
Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita
Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne
nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il
Mulino, Bologna 2003.
*
Anna Maria Bruzzone e' nata a Mondovi' e vive a Torino, dove ha insegnato.
Storica, saggista, ricercatrice sociale, acuta scrittrice di storia orale e
delle donne, impegnata per la pace e la dignita' umana. Opere di Anna Maria
Bruzzone: (con Rachele Farina), La Resistenza taciuta. Dodici vite di
partigiane piemontesi, La Pietra, Milano 1976, seconda edizione riveduta
Bollati Boringhieri, Torino 2003;  (con Lidia Beccaria Rolfi), Le donne di
Ravensbrueck, Einaudi, Torino 1978; Ci chiamavano matti, Einaudi, Torino
1979; (con Anna Bravo), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945,
Laterza, Roma-Bari 1995, 2000.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 143 del 30 gennaio 2008

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