Nonviolenza. Femminile plurale. 184



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 184 del 22 maggio 2008

In questo numero:
1. Alcuni estratti da "Cacciatori di corpi" di Sonia Shah
2. Letture: Giovanna Pajetta, Nati l'11 settembre
3. Letture: Silvia Pochettino, Chernobyl. Una storia nascosta
4. Riletture: Anna Maria Cappelletti, Didattica interculturale della
matematica
5. Riletture: Anna Maria Fracassi, L'arcobaleno negato
6. Riedizioni: Esther Cohen, Con il diavolo in corpo
7. Riedizioni: Linda Colley, Prigionieri

1. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "CACCIATORI DI CORPI" DI SONIA SHAH
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti (scelti da
Elisabetta Cavalli) dal libro di Sonia Shah, Cacciatori di corpi. La verita'
su farmaci killer e medicina corrotta, Edizione Nuovi Mondi Media, San
Lazzaro di Savena (Bo) 2007 (edizione originale: The body hunters: Testing
new drugs on the world's poorest patients, 2006).
Sonia Shah (New York, 1969) e' ricercatrice, giornalista d'inchiesta,
saggista. Tra le opere di Sonia Shah: (a cura di), Between Fear and Hope,
1992; (a cura di), Dragon Ladies, 1997; Untying the knot, 2001; Crude: The
Story of Oil, 2004; The Body Hunters (2006); in traduzione italiana: Oro
nero. Breve storia del petrolio, Mondadori, Milano 2005; Cacciatori di
corpi, Edizione Nuovi Mondi Media, San Lazzaro di Savena (Bo) 2007]

Indice del libro
Prefazione di John Le Carre'; Introduzione; 1. La sperimentazione clinica
prende la via della globalizzazione; 2. Il controllo mediante placebo; 3.
Big Pharma: nascita di un monolito; 4. Cavie senza gabbia; 5. L'Hiv e la
soluzione di seconda scelta; 6. Sudafrica: esperimenti clinici e
negazionismo dell'Aids; 7. L'esternalizzazione verso l'India: la politica
del miliardo di corpi; 8. Come ti aggiusto i codici etici; 9. Il re e' nudo:
stranezze del consenso informato; 10. Tenere la bilancia in equilibrio;
Conclusioni; Note ai capitoli; Ringraziamenti.
*
Da pagina 15
La sperimentazione clinica prende la via della globalizzazione
Era una grigia giornata di ottobre del 2003. Un gruppetto di medici e
scienziati si incontro' in una sala riunioni priva di finestre nel
seminterrato di un hotel di Washington, DC. Li' John Wurzlemann, Md, mostro'
a un pugno di colleghi, proiettandola su uno schermo bianco, una fotografia
della Polonia di oggi. La scena era un paesaggio urbano qualsiasi, con
scintillanti edifici di vetro e acciaio, circondati da ampi marciapiedi di
cemento. Wurzlemann, un uomo in abiti dimessi e dal tono di voce pacato,
sorrise mestamente. "Gran parte della Polonia non e' cosi'", fece notare con
voce raschiante. "La maggior parte del paese appare ancora come era nel
1939", prima dell'invasione nazista e poi di quella sovietica. "Mio padre
fece un viaggio in Polonia dieci anni fa; al suo ritorno raccontava che
nulla era cambiato dagli anni '30. Tutto era semplicemente diventato piu'
vecchio".
E piu' malato. Quanto l'Europa dell'Est sia oggi piu' ammalata di ieri era
appunto l'argomento della relazione di Wurzlemann quel tardo pomeriggio.
Poveri, malnutriti e in preda a un'attrazione fatale per le sigarette, gli
abitanti dell'Europa dell'Est stavano morendo a frotte, disse il dottore al
suo uditorio. Mentre negli Stati Uniti il numero di morti per malattie
cardiovascolari e' andato costantemente diminuendo dagli anni '60,
nell'Europa dell'Est questo tipo di malattie e' cresciuto con estrema
rapidita' fino a raggiungere proporzioni epidemiche e a uccidere molto piu'
in fretta. Wurzlemann era soltanto molto franco. "Malattia per malattia -
disse -, le loro probabilita' di morire aumentano".
Wurzlemann passo' rapidamente la sua presentazione in powerpoint,
corredandola con una valanga di dati e cifre sconvolgenti. "L'Ungheria ha il
tasso piu' alto di mortalita' per cancro della cervice uterina...
L'incidenza del cancro alla mammella e' piu' alta... In Polonia, tra la
popolazione maschile, la mortalita' per una qualche forma di cancro e' la
piu' alta di tutta l'Europa Orientale. La frequenza dei suicidi e' molto
piu' alta".
Si soffermo' un po' piu' a lungo su una diapositiva che mostrava una mappa
dell'Europa, in cui i tassi delle diverse cause di morte erano segnati in
rosso sangue. "Cio' che si vede chiaramente", disse Wurzlemann mentre il
pubblico fissava in silenzio la mappa, "e' che man mano che si procede verso
Est, i tassi di mortalita' aumentano". Difatti, la mappa della Russia
appariva come se vi avessero versato sopra una boccetta d'inchiostro rosso.
La macchia si estendeva a tutti i paesi dell'Europa dell'Est, mentre la
Francia, l'Italia e la Spagna erano pressoche' intatte, appena deturpate,
qua e la', da qualche macchiolina. Le frontiere nazionali segnavano un
confine tra vita e morte, tracciato in linee nere esili come un sospiro.
Gli abitanti dell'Europa Orientale, spiegava Wurzlemann, si ammalano non
soltanto perche' l'aria e' inquinata, il cibo meno abbondante e l'acqua piu'
contaminata. Si ammalano anche perche' la quantita' di denaro che il governo
polacco sborsa per la salute di ogni cittadino e' circa un quarto di quella
che si spende mediamente nell'Europa occidentale. L'esiguita' di questi
investimenti caratterizza tutta la regione. Percio' tutti i tipi di tecniche
preventive, i metodi per la diagnosi precoce e i trattamenti che in
occidente hanno trasformato, nei casi peggiori, malattie mortali in mali
cronici controllabili, la' sono rari quanto i grattacieli scintillanti.
Wurzlemann non ne fece cenno in quell'occasione, ma si potrebbe dire lo
stesso per gran parte del resto del mondo, dato che ben oltre la meta'
dell'umanita' e' stata lasciata brutalmente indietro in questa corsa alla
salute e alla longevita'.
Wurzlemann trasse un respiro profondo, poi si volse verso il pubblico in
attesa e racconto' di aver potuto personalmente godere della salute, della
ricchezza e dell'istruzione dell'occidente. Tuttavia, due generazioni prima
la sua gente aveva dovuto abbandonare la Polonia e la Russia che versavano
in condizioni difficili. Sorrise e mormoro' sottovoce, quasi parlando tra
se': "E' una cosa che addolora, davvero". Quindi si riprese bruscamente e
torno' alla sua presentazione e alla relazione scritta.
I relatori che intervennero dopo Wurzlemann riferirono altri racconti
dolorosi, che avevano come sfondo l'America Latina, l'Asia e il Sud Africa.
Normalmente, un gruppo di medici che venisse a conoscenza di informazioni di
questo genere risponderebbe proponendo possibili misure per alleviare il
carico di sofferenze umane. Poteva servire impegnarsi nella formazione del
personale sanitario? Abbassare i prezzi dei farmaci? Condurre piu' ricerche
sull'eziologia delle malattie? Migliorare le tecniche diagnostiche? Ma ne'
Wurzlemann ne' gli altri relatori erano venuti quel giorno a Washington, DC,
per persuadere i loro colleghi ad aiutare le popolazioni povere e ammalate
del Terzo Mondo, perlomeno non nel modo solito in cui i medici cercano di
aiutare i pazienti.
Quei dottori si erano riuniti perche' le multinazionali farmaceutiche, come
Pfizer, Eli Lilly e Merck, avevano un serio problema commerciale da
affrontare. Grazie alle nuove tecniche sviluppate negli anni '70 dagli
ingegneri genetici e dai biotecnologi, i laboratori delle industrie erano
pieni fino a scoppiare di composti nuovi di zecca, e di idee su quali
fossero i tessuti umani a cui li si poteva utilmente indirizzare. "Oggi ci
sono piu' nuovi farmaci in fase di sviluppo, piu' trattamenti in
sperimentazione... di quanti ce ne siano mai stati prima", dichiarava nel
2003 un esultante Mark McClellan - ex commissario della Food and Drug
Administration (La Food and Drug Administration, o Fda, e' l'organismo
governativo americano preposto alle procedure di autorizzazione e controllo
di farmaci, cibi e alimenti, ndt) - in occasione di un meeting di
ricercatori che lavoravano per l'industria. Ma proprio mentre la rivoluzione
biotech spiccava il volo, il processo per trasformare quei nuovi composti in
prodotti da immettere sul mercato iniziava a ingorgarsi. Dimostrare che i
nuovi farmaci erano efficaci sull'uomo in base alle norme previste dalle
regolamentazioni dell'Fda era diventata un'impresa straordinariamente
complessa, costosa e lunga. E cio' era causa di continue lamentele da parte
di analisti e ricercatori dell'industria. La sperimentazione clinica era
vista come un "profondo canyon" che devitalizzava i nuovi farmaci; una vera
"valle della morte", a detta loro. "Le sperimentazioni su grande scala sono
diventate la norma", lamentava un analista. "Tutti i professionisti che vi
partecipano sono ormai rassegnati all'idea che questo genere di
sperimentazioni durera' un'infinita' di tempo e costera' un mare di soldi".
A quanto afferma CenterWatch, un portale specializzato nella ricerca clinica
svolta dall'industria, per lanciare sul mercato un singolo farmaco
un'azienda deve convincere piu' di 4.000 pazienti a sottoporsi a 141 diverse
procedure mediche ciascuno, in oltre 65 esperimenti distinti. Prima di tutto
c'e' la breve Fase 1, che prevede studi finalizzati a testare la sicurezza
di un nuovo composto; quindi si passa alla Fase 2, un po' piu' lunga, in cui
si cerca di raccogliere prove dell'efficacia del nuovo farmaco; infine c'e'
la lunga Fase 3 con esperimenti tesi a dimostrare l'efficacia di un farmaco
con certezza statistica. Piu' di 100.000 persone devono essere convocate per
gli screening iniziali, dato che solo una piccola frazione di loro si
presentera' davvero all'appuntamento, e solo un'ulteriore frazione di queste
avra' i requisiti medici necessari.
Considerato che la spesa che comporta trovare un singolo soggetto e tenerlo
dentro la sperimentazione si aggira come minimo sui 1.500 dollari, e
considerato che circa il 90% dei farmaci sottoposti a sperimentazione
clinica finiscono per non ottenere l'approvazione dell'Fda, minimizzare i
costi e la durata delle sperimentazioni cliniche era diventato cruciale per
la buona salute delle industrie farmaceutiche.
Eppure, perlomeno negli Stati Uniti, e' a dir poco difficile trovare un
numero sufficiente di volontari per la sperimentazione clinica dei farmaci.
Nel lontano 1954, si contarono a milioni gli americani che offrirono i loro
bambini come cavie umane per sperimentare il vaccino antipolio di Jonas
Salk. Quando i risultati di quell'esperimento di massa furono resi noti, gli
annunciatori radiofonici urlarono la notizia ai quattro venti. Le campane
delle chiese suonarono a stormo. Il traffico si paralizzo', perche' i
guidatori balzarono fuori dalle auto per gridare tutta la loro gioia. Ma non
era ancora trascorso molto tempo che il vaccino, approvato in gran fretta
dalle autorita' sanitarie, infetto' 220 bambini facendoli ammalare di
poliomielite, e la fiducia della gente nella sperimentazione clinica dei
farmaci inizio' ad affievolirsi. Seguirono, poi, le rivelazioni su
esperimenti condotti nella totale inosservanza delle piu' elementari norme
etiche - lo scandalo che nei primi anni '70 accompagno' la scoperta del
"Tuskegee Study", uno studio sulla sifilide finanziato con fondi
governativi, segno' un minimo storico - e la delusione lascio' il posto a
una profonda avversione. Oggi, benche' gli americani acquistino in media
all'anno piu' di dieci farmaci su prescrizione medica, meno di un americano
su venti si dichiara disposto a partecipare agli esperimenti clinici che
fanno la differenza tra farmaci pericolosi e quelli salvavita.
*
Da pagina 85
Cavie senza gabbie
Molto prima che l'industria del farmaco si mettesse a caccia di corpi nei
luoghi piu' poveri del mondo, i ricercatori della scienza medica occidentale
contavano sui corpi delle fasce vulnerabili della loro stessa popolazione
per soddisfare la propria curiosita' scientifica.
Il concetto di utilizzare corpi umani per cercare la risposta a domande
scientifiche ebbe origine, in parte, dal riconoscimento del fatto che
persino le farmacopee piu' sofisticate potevano fare ben poco per alleviare
il tributo di morte pagato alle malattie e alle infezioni. Per una serie di
secoli maledettamente lunga, nessuno seppe davvero come funzionava il corpo
umano o perche' si ammalava. La circolazione del sangue, la pompa del cuore,
la pulsazione di nervi ed organi, tutti questi meccanismi nascosti restarono
per secoli non svelati e il corpo rimase misterioso quanto gli strani
fattori che sembravano portarlo improvvisamente alla malattia.
Ma sezionando corpi e guardando cio' che vi era al loro interno, i medici
occidentali incominciarono a capirne il funzionamento e che cosa accadeva
quando un corpo si ammalava. In un migliaio d'anni la dissezione di corpi
umani e la vivisezione - cioe' la mutilazione di esseri umani vivi -
portarono poco per volta a rivelare i meccanismi del corpo. Questo lavorio
di lame avvenne per la maggior parte sui corpi dei poveri e dei detenuti
nelle prigioni, e solo talvolta in pubblico, per dare spettacolo o come
marchio di infamia.
I travagli di coloro che finivano per diventare "materiale clinico"
raramente erano argomento di conversazione fra persone beneducate. E
comunque si riteneva che i poveri e la gente di colore fossero, in generale,
meno sensibili al dolore. Come il grande fisiologo, e avido dissettore,
francese Claude Bernard scriveva nel 1865 nella sua Introduzione allo studio
della medicina sperimentale, gli scienziati si ritenevano immuni "alle grida
d'orrore della gente alla moda", come lo erano, del resto, anche a quelle
della gente che vivisezionavano. La scienza medica si elevava al di sopra
della mischia, egli insisteva, e poteva essere giudicata soltanto da chi la
praticava. Riguardo agli esseri umani coinvolti negli esperimenti, perche'
gli scienziati avrebbero dovuto rispettarne i diritti, se la societa' nel
suo complesso non lo faceva?
Questi atteggiamenti perdurarono incontestati per quasi un secolo. Infine,
uno studio governativo sul decorso della sifilide li svelo' agli occhi di
un'opinione pubblica scioccata.
La sifilide e' una vecchia malattia americana, portata in Europa dai marinai
di Colombo al loro rientro in patria. In alcune persone il Treponema (un
batterio spiralizzato, cioe' a forma di cavatappi) non provoca alcun sintomo
per anni; in qualche caso la persona puo' non accorgersi neppure di averlo e
inavvertitamente puo' trasmetterlo ad altri attraverso il contatto sessuale.
In una sfortunata minoranza di casi, il batterio causa una malattia grave. I
primi segni sono lesioni genitali, quindi si hanno un'eruzione cutanea
generalizzata e ulcerazioni, infine "ascessi rivoltanti che divorano le ossa
e distruggono il naso, le labbra e i genitali", secondo le parole usate da
Roy Porter, uno storico della medicina.
Non trattata, la sifilide e' spesso mortale. (Per riparare il danno dei nasi
distrutti dalla sifilide, i chirurghi del XVI secolo cucivano sul volto del
malato lembi di pelle presi dalla parte superiore del suo braccio,
lasciandolo per tutto il tempo della convalescenza, che poteva durare
settimane, col braccio attaccato al naso). La medicina aveva ben poco da
offrire. Fino a quando, nel 1908, non furono sintetizzati i farmaci a base
di arsenico, i medici prescrivevano l'applicazione di unguenti al mercurio,
una terapia del tutto inutile che tuttavia causava la perdita dei denti,
l'ulcerazione delle gengive e lo sbriciolamento delle ossa.
Il fardello economico di questa malattia gravava pesantemente sugli Stati
Uniti del sud negli anni '20 del Novecento. Il contagio era una piaga
diffusa fra i neri poveri, la forza lavoro su cui contavano numerose
industrie per poter funzionare. Se fosse stato possibile curare in qualche
modo gli ammalati di sifilide, "i costi sarebbero stati ampiamente ripagati
da un aumento dell'efficienza sul lavoro", affermo' un medico del Public
Health Service (Phs), il servizio sanitario pubblico degli Stati Uniti. Era
urgente condurre una ricerca medica sul campo.
Con il suo prepotente odore di sesso, le deturpazioni che causava e la scia
di morte che si lasciava dietro, la sifilide era considerata una malattia
sporca, immorale. Gli ammalati di sifilide erano disprezzati a tal punto
che, negli Stati Uniti degli anni '30, gli ospedali si rifiutavano di
curarli. Nel 1934 un funzionario della sanita' governativo fu buttato fuori
da una stazione radio per avere semplicemente osato pronunciare ai suoi
microfoni la parola "sifilide". Le persone colpite da malattie veneree erano
relegate in istituti speciali, dove i segni della loro indegnita' morale non
avrebbero potuto contaminare i malati onesti dei vicini ospedali. Il destino
dei ricoverati in queste cliniche non era affatto consolante. All'epoca, il
trattamento standard - piu' di un anno di dolorose iniezioni settimanali di
arsenico - era costoso, prolungato nel tempo e solo parzialmente efficace.
Il senso pubblico di repulsione che circondava i malati di sifilide
facilito' in molti modi questo esperimento. Nel 1931 Mark Boyd, che studiava
la malaria con fondi della Rockefeller Foundation, inietto' il Plasmodium
falciparum - il parassita che causa la malattia - a pazienti neri affetti da
demenza dovuta alla sifilide, ricoverati presso un ospedale della Florida. A
dire il vero, a quel tempo l'idea di uccidere l'agente batterico della
sifilide inducendo alte febbri malariche era una specie di mania
terapeutica. Ma mentre ai pazienti bianchi si inoculava di solito il
Plasmodium vivax, una forma piu' blanda del parassita, Boyd infetto' i suoi
soggetti neri con il Plasmodium falciparum, il cugino con effetti mortali.
Nessuna legge ne' consuetudine sociale imponeva a Boyd di richiedere ai
pazienti o alle loro famiglie il consenso per questo trattamento, anche se
in realta' lo richiese per un'eventuale autopsia sul corpo del defunto.
Nel 1929, uno studio di fattibilita' del Public Health Service [servizio
sanitario pubblico] giunse a stabilire che era possibile avviare un
programma per il trattamento in massa dei lavoratori rurali neri ammalati di
sifilide. Ma giunti al 1932 i fondi per finanziare un progetto di tale
ampiezza si erano prosciugati, e l'attenzione dei medici governativi si
sposto' dal piano della cura a quello della ricerca scientifica. E se
avessero inserito gli ammalati di sifilide in uno studio a lungo termine,
senza somministrare loro alcun trattamento, limitandosi semplicemente a
osservare cio' che sarebbe accaduto?
Uno studio del genere avrebbe permesso di dare risposta a parecchi quesiti
interessanti, sosteneva l'ideatore del progetto, il dr. Clark Taliaferro del
Phs. Forse nei neri il decorso della malattia era differente che nei
bianchi, per esempio, o forse non fornire alcun trattamento poteva dare
risultati migliori. Ad ogni buon conto, l'esame autoptico dei soggetti che
morivano per la malattia mentre erano sotto osservazione poteva contribuire
a far luce su queste pressanti questioni.
Persino allora, probabilmente, sarebbe stato impossibile condurre un
programma del genere - finalizzato a studiare il "decorso naturale" della
malattia - su pazienti bianchi, scolarizzati o appartenenti alla classe
media. Ma i soggetti di questo studio erano braccianti neri poveri e quasi
tutti analfabeti, provenienti da Macon County, Alabama, la contea dove si
trova la cittadina di Tuskegee e dove allora il tasso della sifilide era in
continua crescita.
La scienza americana si era gia' servita della popolazione nera come fonte
di materiale clinico, proprio come le piantagioni americane se ne erano
servite per i lavori spacca-schiena nei campi. Gli inservienti e gli uomini
delle pulizie dalla pelle nera, che ripulivano gli ambienti dopo l'opera
degli scienziati americani, sono stati chiamati spesso a fornire corpi -
umani e animali - su cui sperimentare. I ragazzini neri potevano essere
indotti a catturare e addormentare con l'etere cani da usare negli
esperimenti; uomini dalla pelle nera potevano essere usati per accudire gli
animali da laboratorio nei bui corridoi delle cliniche; persone di entrambe
queste categorie potevano essere avvicinate e indotte a offrire il proprio
corpo per esperimenti orribili, come quello in cui i soggetti dovevano
ingoiare un tubo lungo piu' di tre metri, che poi veniva gonfiato mentre era
dentro le loro viscere.
Eppure, i medici governativi ebbero difficolta' a trovare soggetti per il
loro studio sulla sifilide in assenza di trattamenti, persino fra quegli
operai neri che essi deridevano come pigri e ignoranti nella loro
corrispondenza privata, piu' tardi raccolta da Susan Reverby, specialista in
storia della medicina del Wellesley College. Alla fine fecero ricorso
all'inganno, facendo finta di offrire quello che chiamarono "un trattamento
gratuito". Infine entrarono a far parte di quello studio circa quattrocento
uomini, tutti braccianti neri che si credevano ammalati di "sangue cattivo"
ma che in realta' soffrivano di sifilide all'ultimo stadio, insieme a 201
uomini di pelle nera e in buona salute che dovevano fungere da gruppo di
controllo. Poiche' i soggetti ignoravano di essere ammalati di sifilide, i
medici governativi non erano sottoposti ad alcuna pressione per offrire
quelli che all'epoca erano considerati i trattamenti standard della
malattia. Al loro posto offrirono, invece, unguenti al mercurio gia' da
tempo in disuso, aspirina, tonici, pranzi gratuiti e un'assicurazione che
copriva le spese di sepoltura, limitandosi a osservare i malati e a prendere
nota del loro graduale peggioramento. Poiche' era imperativo che i
partecipanti a questo studio non ricevessero alcun trattamento
farmacologico - che avrebbe contaminato i risultati dell'autopsia sul corpo
del sifilitico - i medici governativi si incontrarono con i medici locali
"per chiedere la loro collaborazione a non sottoporre quegli uomini ad alcun
trattamento", dichiaro' in seguito uno dei ricercatori coinvolti nello
studio.
Quegli uomini ingannati e lasciati senza cure si reputavano fortunati a
partecipare allo studio. "La corsa per e dall'ospedale, su un veicolo con lo
stemma del governo sul davanti e guidato da un'infermiera, era per molti di
loro un segno di distinzione e si divertivano a salutare i conoscenti quando
passavano loro vicino", ricordava l'infermiera assunta per reclutare i
soggetti. Convinti di stare godendo del privilegio di cure gratuite da parte
dei medici governativi, molti di quegli uomini misero su' famiglia,
trasmettendo senza saperlo l'infezione alle mogli e ai figli.
*
Da pagina 127
Sudafrica: esperimenti clinici e negazionismo dell'Aids
Le vite della maggioranza degli occidentali sono cosi' strettamente
intrecciate con i rimedi dalla medicina - dai farmaci per il parto
all'aspirina quotidiana - che credere nelle sue capacita' curative e' ormai
divenuto un dogma di fede. Tuttavia nel resto del mondo le cose non vanno
cosi'. Secondo quanto afferma il farmacologo Manfred Hollinger
dell'Universita' della California, circa l'80% delle persone che vivono nei
paesi in via di sviluppo - che complessivamente comprendono il 64% di tutta
la popolazione mondiale - si affida ai guaritori tradizionali, non alla
biomedicina occidentale. E nelle parti del mondo in cui la presa della
medicina occidentale e', tutt'al piu', debole, sperimentazioni cliniche
malfatte possono alimentare una corrosiva sfiducia nei confronti della
medicina allopatica in generale, con esiti potenzialmente devastanti. In
nessuna parte del mondo questo fenomeno si e' mostrato con maggiore evidenza
che in Sudafrica, dove aspre controversie sulle fragili misure di protezione
dei soggetti che partecipano alle sperimentazioni cliniche hanno dato
periodicamente fuoco a una miscela volatile di rancori razziali e di
sfiducia, accumulatasi in quasi cinquant'anni di apartheid.
Fra il 1948 e il 1994 la minoranza bianca sudafricana, composta dai
discendenti di immigrati olandesi, tedeschi e francesi, ha distribuito
diritti e privilegi secondo un sistema schizoide di segregazione razziale,
"apartheid" in afrikaans, la lingua simile all'olandese creata da questi
coloni. Quando l'Aids fece la sua prima apparizione verso la meta' degli
anni '80, i conservatori bianchi manifestarono apertamente la propria
soddisfazione. "Se l'Aids arrestasse la crescita della popolazione nera -
disse qualcuno - sarebbe come un regalo di Babbo Natale".
L'apartheid aveva gia' iniziato un lento genocidio dei neri sudafricani. Fra
il 1960 e il 1983 la polizia dello stato costrinse con la forza piu' di tre
milioni di sudafricani di colore a lasciare le loro case per spostarsi in
"township" e "bantustan", dove vivevano segregati e isolati dal resto della
societa'. Mentre il governo destinava il 97% del budget per la sanita' a
terapie specializzate di alto livello tecnologico, che nel 1967 culminarono
con lo sviluppo di una rivoluzionaria tecnica di trapianto cardiaco presso
il Groote Schur Hospital di Citta' del Capo, i neri erano colpiti dalle
febbri tifoidi con una frequenza 48 volte superiore ai bianchi e i loro
bambini morivano per malattie di facile prevenzione, come il morbillo. Nelle
township decine di migliaia di persone potevano dividersi un unico rubinetto
per l'acqua. Infuriavano malattie come il kwashiorkor, una grave forma di
denutrizione, ma il sistema sanitario non prendeva la benche' minima misura
per combatterlo. I pazienti neri morivano nell'attesa di un'ambulanza,
mentre ambulanze riservate ai bianchi erano ferme nei pressi senza far
nulla; chi sopravviveva all'attesa a volte moriva fuori da ospedali per
bianchi, vuoti, che rifiutavano di lasciarli entrare.
Nonostante vi siano state notevoli eccezioni, la classe medica sudafricana,
in maggioranza bianca, approvava le restrizioni alla liberta' dei neri
imposte dal sistema dell'apartheid. Alcuni ricercatori studiavano
apertamente la presunta inferiorita' dei neri e nuovi batteri che fossero in
grado di colpirli o ucciderli selettivamente. Il Medical and Dental Council
del Sudafrica propugnava il diritto dei medici di "decidere a chi prestare
la propria opera nelle situazioni non di emergenza". Vi erano medici che
lavoravano per la polizia, presenziavano a fustigazioni e ad altre forme di
tortura, firmavano rapporti menzogneri in cui i morti durante gli
interrogatori erano dichiarati vittime di un incidente o di un suicidio.
Quando il regime dell'apartheid finalmente cadde e il governo passo'
all'African National Congress (Anc), nel 1994, il problema dell'Aids rimase
fuori dall'agenda ufficiale. Gli esponenti dell'Anc sospettavano che i
ricercatori occidentali, razzisti, avessero gonfiato il problema. In effetti
tempo addietro, negli anni '80, ricercatori dei Nih avevano fatto circolare
rapporti sull'infezione da Hiv nei paesi africani con dati grossolanamente
gonfiati - Robert Gallo aveva riferito che due terzi degli studenti
dell'Uganda erano infettati dal virus; Robert Biggar, del National Cancer
Institute, che una proporzione compresa fra un quarto e la meta' della
popolazione keniota era portatrice del virus - il tutto sulla base di test
sbagliati. Conclusioni troppo affrettate sul fatto che l'Hiv si sarebbe
diffuso a partire da Haiti avevano paralizzato l'industria del turismo di
quella martoriata isola.
Quando il leader keniota Daniel arap Moi bollo' l'Aids come null'altro che
una "nuova forma di campagna d'odio" contro le economie africane, molti
esponenti dell'Anc furono d'accordo con lui. "Sembrava inverosimile che una
malattia uccidesse proprio gli omosessuali, le prostitute, i drogati e i
neri", ricorda un aderente all'Anc. "Sembrava l'avverarsi di un sogno da
reaganista sfrenato!".
La confortante illusione che l'Aids fosse un non problema su cui si faceva
un chiasso esagerato, non sarebbe rimasta intatta a lungo. Alla meta' degli
anni '90, l'infuriare del virus nel continente africano era diventato fin
troppo chiaro. Ma il sistema occidentale della ricerca sull'Aids apparve
ancora una volta distaccato dalle realta' africane. Molti adesso
proclamavano che gli africani erano troppo arretrati per la terapia con
cocktail di antiretrovirali, una posizione che adombrava una crudele
indifferenza per la situazione in cui versavano le popolazioni africane,
sempre piu' povere.
L'insinuazione che non ci si poteva fidare a somministrare agli africani la
terapia a base di antiretrovirali suonava come un'offesa alle orecchie dei
nazionalisti sudafricani come Costa Gazi, medico e attivista politico, folta
chioma di capelli arruffati. Gazi si e' fatto due anni di carcere durante
l'apartheid, e dice di provare nei confronti della battaglia contro l'Aids
la stessa passione che lo animava nella lotta contro l'apartheid. "I
diabetici che vivono nelle zone rurali vengono sottoposti a test una volta
al mese; nessuno dice di lasciarli senza cure!" afferma Gazi. Quando infine,
nel 1997, i legislatori sudafricani modificarono il Medicines Act in vigore
nel paese in modo da consentire al ministro della sanita' di rendere
accessibili i farmaci contro l'Hiv, infrangendo le norme internazionali sui
brevetti e acquistando generici a basso costo, gli interessi occidentali
apparvero ancora una volta tesi a impedire agli africani l'accesso ai
farmaci salvavita.
Sebbene la nuova legislazione del paese si applicasse soltanto a casi di
emergenza sanitaria o quando il costo dei farmaci brevettati fosse
insostenibile, trentanove fra le maggiori industrie farmaceutiche del mondo
intrapresero un procedimento legale per impedire che quella legge trovasse
applicazione. "E' una legge arbitraria e conferisce al ministro della
sanita' troppi poteri", protestava Mirryena Deeb della Phrma (Pharmaceutical
Research and Manufacturers of America), l'associazione che rappresenta le
industrie farmaceutiche. "Il ministro puo' decidere che un farmaco e' troppo
costoso e le aziende produttrici non hanno il diritto di difendersi".
L'amministrazione Clinton iscrisse prontamente il Sudafrica nella sua "lista
dei sorvegliati speciali" per le violazioni contro il regime dei brevetti.
*
Da pagina 211
Conclusioni
Ascoltate parlare i ricercatori biomedici abbastanza a lungo, come e'
successo a me di recente a un congresso scientifico multidisciplinare, e
senza dubbio sentirete commenti ammirati sulla sperimentazione clinica dei
bei tempi andati, quando esperimenti audaci, liberi da regolamentazioni
gravose, producevano risultati spettacolari. Quel tipo di sperimentazione,
vi diranno i ricercatori, purtroppo non e' piu' possibile "per via delle
preoccupazioni sul piano etico".
Per via delle preoccupazioni sul piano etico. Ho sentito questa frase piu'
volte nel corso di un singolo congresso nell'arco di una settimana. E' una
formulazione interessante, che pare riservata quasi esclusivamente alle
violazioni dell'etica nel campo biomedico. E' difficile, infatti, immaginare
una qualunque persona parlare di lavoro in nero, sversamenti di petrolio in
mare o appropriazione indebita da parte delle multinazionali, come di cose
non possibili "per via delle preoccupazioni sul piano etico". Queste cose
sono considerate semplicemente sbagliate sul piano morale e socialmente
illegittime, per cui sono punibili dalla legge. Ma quando i ricercatori
clinici ingannano i pazienti, sfruttano la loro poverta', o dirottano scarse
risorse verso la sperimentazione sottraendole alla cura, tutto cio' non e'
considerato un male, punto e basta. L'attivita' principale della ricerca
medica - migliorare la salute, salvare vite umane - le fa passare in secondo
piano. Lo sfruttamento e le violazioni dei diritti umani sono "effetti
collaterali", ne' piu' ne' meno.
Per eliminare tali "effetti" occorre in primo luogo mettere da parte la
mitologia sulla ricerca medica, la stessa che da' origine a quegli "effetti
collaterali". Come spiega il bioeticista Solomon Benatar, "La ricerca
condotta nei paesi in via di sviluppo... non va realmente a vantaggio di
queste persone [i soggetti]. Puo' succedere che lo faccia, per i pochi
abbastanza fortunati da entrare nella prova. Ma la ragione per cui il
ricercatore arriva in quel paese e', il piu' delle volte, perche' c'e'
qualcuno disposto a pagare per quello studio. Qualcuno vuole trovare una
risposta a una certa domanda. I dati hanno valore sia sul piano accademico
che su quello commerciale".
In altre parole, lo scopo principale della ricerca clinica non e' migliorare
o salvare vite, ma acquisire una cosa ben precisa: dati. E' un'industria,
non un servizio sociale. Le persone che finanziano e dirigono gli
esperimenti clinici lo fanno per i dati, non per soddisfare i pazienti o per
soccorrere strutture sanitarie in difficolta', aiutandole a rafforzarsi,
anche se a giustificazione delle proprie attivita' possono indicare questi
effetti secondari. Le loro motivazioni non ne fanno ne' dei corrotti ne' dei
mercenari, solo degli esseri umani normali che cercano di proteggere i
propri interessi, come fa anche il resto di noi.
Ma se la ricerca clinica e' un'industria che fa i propri interessi, allora
non c'e' motivo di riconoscerle una liberta' d'azione tutta speciale, con la
possibilita' di girare lo sguardo da un'altra parte quando dribbla o
addirittura viola le regole. Se pensiamo che i soggetti di un esperimento
dovrebbero essere informati e che la loro partecipazione dovrebbe essere
consensuale, dovremmo chiedere che il consenso informato sia rafforzato e
ben controllato. Se cio' e' impossibile, allora dovremmo chiedere che la
ricerca clinica si fermi. Dovremmo chiedere che i vantaggi per i soggetti -
come, ad esempio, l'accesso al farmaco in studio dopo che l'esperimento e'
terminato - siano garantiti qui e ora, non in un futuro ipotetico in cui i
prezzi cadranno, o non ci sara' piu' poverta' e altri applicheranno
soluzioni migliori.
Queste condizioni, che potrebbero essere incluse nelle regole della Fda,
sarebbero dei correttivi razionali a quell'industria competitiva e guidata
dal profitto in cui oggi si e' trasformata la ricerca clinica. Ma cio'
impone, come petizione di principio, la domanda se desideriamo adottare
questo modello.
Anziche' limitarci a dissolvere i miti sulla ricerca, potremmo incominciare
a chiedere alle aziende farmaceutiche e ai ricercatori clinici di essere
all'altezza di quei miti. La promessa della ricerca medica e' di alleviare
le sofferenze e di salvare vite umane, ma i ricercatori in realta' si
assumono la responsabilita' soltanto per una minima parte di questo compito:
raccogliere i dati. Quando si tratta di dare attuazione agli scopi piu'
vasti, scrollano le spalle: quello e' compito di qualcun altro.
Questa mancanza di connessione potrebbe essere accettabile per la scienza di
base, ma se vogliamo che la ricerca medica sia davvero in grado di alleviare
sofferenze e di salvare vite, allora dobbiamo giudicare le responsabilita'
degli scienziati quando producono poco di piu' che articoli interessanti o
"farmaci fotocopia", e valutare se cio' sia eticamente ammissibile oppure
no.
Arrivare a dare attuazione pratica a questo genere di responsabilita' non e'
facile. In primo luogo, l'opinione pubblica non dispone di alcuno strumento
per incidere sulle priorita' della ricerca; non abbiamo nessun modo per
esprimere quello che vogliamo piu' di tutto dalla ricerca medica, e come lo
useremmo se lo avessimo. A parte alcuni progetti di ricerca finalizzati, e'
il mercato a decidere e la ricerca si dirige verso qualunque prodotto che, a
giudizio delle aziende farmaceutiche, vendera' bene; oppure sono gli sponsor
a decidere caso per caso, e qualunque richiesta di fondi verra' finanziata
se appare piu' interessante.
Immaginate, al posto di tutto questo, un controllo sistematico e un
dibattito pubblico forte, indipendente, aperto, su dove la ricerca medica ci
ha portato finora e dove vogliamo che ci porti, un dibattito che non resti
chiuso solo fra specialisti e avvocati, ma che coinvolga tutti noi. E'
difficile dire dove ci potrebbe condurre un tal esercizio. Forse ci
renderemmo conto che la ricerca staccata dalla societa' ha poco significato.
I paesi poveri potrebbero, a ragione, considerare prioritario dare
finalmente attuazione ai risultati di ricerche ormai vecchie, anziche'
preferire la corsa a sempre nuove sperimentazioni.

2. LETTURE. GIOVANNA PAJETTA: NATI L'11 SETTEMBRE
Giovanna Pajetta, Nati l'11 settembre. I bambini, le famiglie e le scuole
nei sei anni che hanno sconvolto il mondo, Manifestolibri, Roma 2007, pp.
144, euro 8,90. Un libro-inchiesta: intorno al cratere dell'11 settembre
2001 la vita quotidiana destrutturata e ristrutturata dal ritorno della
guerra e del razzismo, il trauma nel trauma di genitori e insegnanti e
bambini; Giovanna Pajetta, giornalista e saggista acuta e vibratile,
incontra persone e vicende - in giro per l'Italia e non solo, nelle scuole e
non solo - ed ascolta e descrive con viva empatia. Una lettura - e
un'esperienza - a tratti enigmatica e sconcertante, un libro polifonico e
sorprendente. Che merita di essere letto.

3. LETTURE. SILVIA POCHETTINO: CHERNOBYL. UNA STORIA NASCOSTA
Silvia Pochettino, Chernobyl. Una storia nascosta, Nuova iniziativa
editoriale, Roma 2006, pp. 176, euro 5,90 (in suppl. a "Liberazione" e a
"L'Unita'"). In forma narrativa ma fondandosi sui dati documentari l'autrice
(giornalista che da oltre dieci anni dirige la rivista "Volontari per lo
sviluppo" ed ha gia' pubblicato due volumi per la Emi sulla situazione
internazionale e i diritti umani) ricostruisce le testimonianze, le
ricerche, le riflessioni, le denunce, l'azione di Vassili Nesterenko, Yuri
Bandazhevsky e Galina Bandazhevskaya, e le persecuzioni subite per il loro
impegno di verita' sul disastro di Chernobyl e di solidarieta' con le
vittime.

4. RILETTURE. ANNA MARIA CAPPELLETTI: DIDATTICA INTERCULTURALE DELLA
MATEMATICA
Anna Maria Cappelletti, Didattica interculturale della matematica, Emi,
Bologna 2000, 2001, pp. 96, euro 6,20. Un volumetto della collana dei
"Quaderni dell'interculturalita'" destinato alle scuole elementari; alcune
proposte di lavoro (e di gioco) interessanti e piacevoli. Per richieste alla
casa editrice: Emi, via di Corticella 179/4, 40128 Bologna, tel. 051326027,
fax: 051327552, e-mail: sermis at emi.it, stampa at emi.it, ordini at emi.it, sito:
www.emi.it

5. RILETTURE. ANNA MARIA FRACASSI: L'ARCOBALENO NEGATO
Anna Maria Fracassi, L'arcobaleno negato. Ai ragazzi e alle ragazze del
mondo. Percorsi didattici sulla condizione dell'infanzia nel mondo, Emi,
Bologna 1999, pp. 80, lire 7.000. Una proposta di lavoro per le scuole medie
sulla condizione dell'infanzia nel sud del mondo; la gran parte dei
materiali qui raccolti sono stati elaborati da studenti di scuole medie
italiane. Con la collaborazione di Gianni Tarquini e Massimiliano Tarullo,
postfazione di Mauro Bolognese. Per richieste alla casa editrice: Emi, via
di Corticella 179/4, 40128 Bologna, tel. 051326027, fax: 051327552, e-mail:
sermis at emi.it, stampa at emi.it, ordini at emi.it, sito: www.emi.it

6. RIEDIZIONI. ESTHER COHEN: CON IL DIAVOLO IN CORPO
Esther Cohen, Con il diavolo in corpo. Filosofi e streghe nel Rinascimento,
Ombre corte, Verona 2005, "Il giornale", Milano s.d., pp. 182, euro 5,90 (in
supplemento al quotidiano "Il giornale"). Una raccolta di saggi che indagano
l'altra faccia del Rinascimento europeo, e non il dionisiaco in cui
l'apollineo obliquo si rispecchia, ma la barbarie del totalitarismo
dell'ideologia dominante, la ferocia dell'azione repressiva del potere, la
persecuzione spietata dell'alterita' di ogni ricerca ed esperienza autonoma
e diversa, la dominazione che pur si congiunge al Rinascimento piu'
luminoso: l'incipit della modernita' nei suoi aspetti piu' foschi. La grande
luce, e l'ombra profonda.

7. RIEDIZIONI. LINDA COLLEY: PRIGIONIERI
Linda Colley, Prigionieri. L'Inghilterra, l'impero e il mondo, Einaudi,
Torino 2004, "Il giornale", Milano s.d. ma 2008, pp. XVI + 460, euro 6,90
(in supplemento al quotidiano "Il giornale"). Nelle testimonianza di europei
altrove prigionieri, si riflette quell'immane prigionia che l'Europa
colonialista e razzista impose ai popoli d'interi continenti.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 184 del 22 maggio 2008

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