Voci e volti della nonviolenza. 219



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 219 del 26 agosto 2008

In questo numero:
1. Alcuni estratti da "La cultura e il potere" di Stuart Hall e Miguel
Mellino
2. Et coetera

1. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "LA CULTURA E IL POTERE" DI STUART HALL E
MIGUEL MELLINO
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Stuart Hall, Miguel Mellino, La cultura e il potere, Conversazione sui
cultural studies, Meltemi, Roma, 2007]

Indice del volume
Presentazione di Miguel Mellino; Capitolo primo: Cultural studies "at
large"; Capitolo secondo: Teoria senza disciplina; Capitolo terzo: Diaspore
e multiculturalismo ai tempi del New Labour; Bibliografia.
*
Da p. 7
Presentazione di Miguel Mellino
Stuart Hall e' sicuramente una delle figure chiave all'interno del panorama
intellettuale europeo degli ultimi cinquanta anni. Principale animatore dei
cultural studies e una delle voci principali della critica postcoloniale, i
suoi studi sui mass media, sulle sottoculture giovanili, sul razzismo, sul
thatcherismo, sul rapporto tra capitalismo e colonialismo, sulla produzione
culturale dei neri britannici, sulle dinamiche delle identita' migranti e
post-migranti e sul multiculturalismo sono stati oggetto di ampio dibattito
nello scenario teorico-politico internazionale. Anche in Italia si riscontra
ormai un sempre maggiore interesse per la sua opera, come dimostra la
recente comparsa di due importanti raccolte contenenti buona parte dei suoi
saggi piu' noti: Politiche del quotidiano. Cultura, identita' e senso comune
(Hall 2006b) e Il soggetto e la differenza. Per un'archeologia degli studi
culturali e postcoloniali (Hall 2006a). Abbiamo incontrato Stuart Hall a
Londra, dove ci ha concesso una lunga conversazione sui cultural studies e
sui momenti piu' significativi di tale esperienza. Appena iniziato il
dialogo, ci accorgiamo che parla piu' volentieri dei problemi - passati e
presenti - riguardanti la "politica dei cultural studies" che non degli
studi culturali in se'. Il dibattito sulla "disciplina" cultural studies e'
qualcosa che, notoriamente, lo affascina molto meno: e' chiaro che
trascurarlo significa per Hall cercare di salvaguardare il "teorizzare" dai
pericoli della "teoria" (ovvero dell'accademicismo). Con grande passione ci
racconta anche del suo attuale impegno nel progetto di Rivington Place, un
ampio spazio espositivo interamente dedicato alle arti visive globali
contemporanee che verra' inaugurato nel corso nel 2007 a Londra. Quasi
volesse riaffermare ancora una volta che "non e' attraverso Raymond
Williams, Edward Thompson o Richard Hoggart che ho incontrato i cultural
studies. E' stata la mia appartenenza alla diaspora afro-caraibica, una
condizione materiale vissuta, una certa dislocazione o dissidio culturale, a
portarmi verso i cultural studies; che per me non sono che il prodotto di
uno scontro dal vivo con la Gran Bretagna e con la cultura britannica, non
fanno che sintetizzare il momento in cui ho iniziato a fare i conti con la
cultura del padrone coloniale a casa sua".
*
Da p. 9
- Miguel Mellino: Come si puo' iniziare oggi un discorso sui cultural
studies? Voglio dire: cosa ti viene da pensare sul campo complessivo dei
cultural studies dopo 15 anni di boom in quasi tutto il mondo, specialmente
nei paesi anglosassoni? Cosa abbiamo oggi: l'internazionalizzazione dei
british cultural studies, una loro ulteriore decostruzione o dislocazione,
la loro decomposizione in singole realta' locali-nazionali o invece una
sorta di global cultural studies?
- Stuart Hall: Domanda interessante, ma a cui e' difficile rispondere. Credo
non si possa parlare di studi culturali globali. C'e' tanta gente che lavora
dentro il contenitore dei cultural studies, ma lo fa in modi molto diversi,
producendo ulteriori differenze al suo interno. Cio' che abbiamo mi sembra
piu' l'indigenizzazione dei cultural studies, la loro creolizzazione o
glocalizzazione. Faccio un esempio per rendere meglio quanto sto cercando di
dire: a Taiwan i cultural studies "locali" rappresentano ormai una
tradizione politica e intellettuale piuttosto consolidata, nonche' molto
diversa da quella dei cultural studies cosi' come vengono praticati negli
Stati Uniti o in Gran Bretagna. Questa situazione ci dice che vi e' in
effetti una frammentazione del campo, che puo' significare anche la sua
decomposizione, forse; ma e' difficile dirlo. Poiche' bisogna sempre tener
presente che i cultural studies sono stati sin dall'inizio un campo di studi
piuttosto ibrido, sono stati sempre intrecciati ad altre cose: alla
sociologia, ai media-studies, ai film-studies, alla critica letteraria,
all'antropologia, ecc. L'eterogeneita' fa parte della natura stessa dei
cultural studies. In sintesi, quello che voglio dire e' che fare cultural
studies non significa percorrere strade prefissate da qualcuno: possono
nascere a partire da discipline, interessi e tradizioni estremamente
eterogenei. Lavorare a partire da repertori concettuali diversi non fa
nessuna differenza, anzi, mi sembra la cosa piu' naturale del mondo. E'
l'oggetto dello studio e il tipo di approccio cio' che conta.
- Miguel Mellino: Ma non ti sembra che cosi' si rischia di restare entro
confini un po' troppo elastici? Non ti voglio estorcere una definizione o
delimitazione del campo, so che non ti piace il ruolo di "custode" di una
presunta essenza dei cultural studies. Ma so anche che tu hai un parere su
questo argomento.
- Stuart Hall: In effetti, c'e' un soggetto unificante dei cultural studies,
qualcosa che devi sempre trovare per poter parlare di cultural studies. E'
il rapporto, la connessione e l'interazione tra cultura e potere. Affrontare
la cultura o le espressioni culturali da un punto di vista meramente
formale, intenderle semplicemente come valori o come significati, non
costituisce affatto la tematica dei cultural studies. Fare cultural studies
significa cercare di identificare i rapporti della cultura - del significato
o del meaning making - con altre sfere della vita sociale, ovvero con
l'economia, con la politica, con la razza, con la strutturazione delle
classi, dei generi, ecc. Dal mio punto di vista, credo si possa parlare di
cultural studies soltanto se si lavora per smascherare l'interpenetrazione
tra cultura e potere. Poi non importa se, per esempio, in Argentina i
cultural studies si collocheranno in un campo concettuale diverso da quello
in cui si sono collocati in Gran Bretagna o altrove. E non potrebbe essere
altrimenti, poiche', per forza di cose, i cultural studies dovranno
affrontare in ognuna di queste societa' congiunture storiche specifiche
molto diverse. Se accettiamo la natura congiunturale del campo dei cultural
studies, dunque, come possiamo pensare che il rapporto tra cultura e potere
possa essere lo stesso in Argentina e in Gran Bretagna? Impossibile! Per
questo, si puo' dire che facciamo tutti cultural studies solo nel senso in
cui - in rapporto alla nostra propria situazione storica specifica e
all'interno delle tradizioni intellettuali in cui siamo stati formati -
affrontiamo nelle nostre analisi i modi attraverso cui la cultura e il
potere operano oggi nelle nostre societa'.
*
Da p. 40 e seguenti
- Miguel Mellino: Sei stato uno dei maggiori interpreti di Gramsci nel mondo
anglosassone. Hai letto il thatcherismo, il postfordismo, lo strutturarsi
del capitalismo globale neoliberale, le dinamiche e le politiche della
razza, del razzismo e dell'etnicita' attraverso la lente gramsciana e
attraverso un uso delle concezioni di Gramsci molto diverso da quello a cui
siamo abituati in Italia (cfr. Hall 1986; 1988a; 1988b; 1989; 1991). Puoi
descriverci il modo in cui la problematica gramsciana ha "interrotto", per
usare una delle tue piu' note metafore, il tuo lavoro?
- Stuart Hall: La problematica di Gramsci ha interrotto il mio lavoro in
diversi modi. Prima di tutto dal punto di vista della specificita' storica.
Ho sempre letto Gramsci sapendo che egli aveva in mente la congiuntura
italiana e che quindi dovevo lavorare parecchio per riadattare la sua
prospettiva a congiunture come quelle britanniche o quella caraibica
postcoloniale. Quindi sono stato sempre consapevole del fatto che Gramsci
parlava da un contesto storico molto diverso dal mio. Come si sa, Gramsci
non ha mai scritto su questioni legate alla razza o al razzismo, cosi' mi
sono chiesto: quali elementi del lavoro di Gramsci possono consentirmi di
capire situazioni storiche "razzialmente strutturate" in modo piu' efficace?
Inoltre mi interessava molto, come sai, il suo concetto di egemonia, l'ho
sempre trovato stimolante per chi come me aveva incentrato il suo lavoro
sull'analisi del rapporto tra cultura e potere. Ero e sono piu' sensibile
alla questione del modo di produzione del potere che non allo sfruttamento
economico in senso stretto, poiche' quest'ultimo mi sembra piu'
"conseguenza" che non "causa" dell'esercizio del potere. Non e' che
sottovaluti il momento dello sfruttamento, so che esiste e che costituisce
un'istanza centrale nella produzione delle societa', ma mi piace iniziare
l'analisi sociale dalla questione del potere. Il potere, chiaramente, e'
qualcosa di infinitamente complesso e contraddittorio, non e' mai condensato
in un unico luogo, circola dappertutto, e' diffuso lungo tutto il tessuto
sociale. Come ci ha insegnato Gramsci, un potere che sia capace di
inquadrare la societa' all'interno di un nuovo progetto storico deve operare
egemonicamente, deve necessariamente intrecciare i modi di pensare, i media,
la cultura, la lingua, la filosofia, l'economia, la cultura popolare, la
Chiesa, ecc. Comunque, sono interessato sia a quelle forme di potere che
pervengono all'egemonia, sia a quelle che non vi pervengono. In effetti, il
concetto di egemonia non deve essere usato come se fosse adatto a descrivere
ogni formazione politica, poiche' certamente non tutte le formazioni sociali
perseguono o conseguono questo processo di (auto)costruzione egemonica. Solo
certe forme di potere riescono a raggiungere questo stadio politico; per
esempio, il New Labour in Gran Bretagna si sta avvicinando ora al suo
momento egemonico, sta ottenendo la mercificazione di ogni cosa, di ogni
istituzione, sta trasformando ogni sfera della societa' in una sfera di
mercato, basti qui pensare all'attuale tentativo di privatizzare il servizio
sanitario nazionale. Sta espandendo il mercato ad aree che finora ne erano
rimaste escluse. Tutto sta diventando una questione di mercato, e non solo
economicamente, sta anche producendo un modo di pensare completamente
pervaso dalla logica del mercato. Questo modo di pensare e' iniziato con il
thatcherismo, che aveva collocato persone provenienti dall'economia in ogni
posto chiave della societa'. Il thatcherismo e' stato il primo stadio, il
blairismo e' quello successivo all'interno di questo lungo movimento
storico. Il New Labour di Blair sta riplasmando ogni istituzione - sociale,
economica, culturale - in funzione di questo modello relativamente nuovo, in
funzione di quello che Philip Bobbitt ha chiamato "the market-state", ovvero
di un nuovo tipo di Stato (Bobbitt 2003). Si tratta di uno Stato che fonda
la sua legittimita' non tanto (come il vecchio Stato-nazione) sulla promessa
di un maggior benessere materiale per tutti i suoi cittadini quanto
sull'impegno a massimizzare fin dove e' possibile le opportunita' di ogni
singolo soggetto (Hall et. al. 2003). Come dicevo, ho capito da Gramsci che
il potere che affonda le sue radici, i suoi fondamenti, in ogni singolo
interstizio o nervo dell'intera societa' sta portando quella societa' verso
un nuovo progetto storico. Devo aggiungere pero' che ho capito molto di piu'
sulle trasformazioni del potere con la Microfisica di Foucault, ma il mio
Foucault e' rimasto sempre un Foucault piuttosto gramsciano. Posso dire che
nelle mie analisi la microfisica dei rapporti di potere di cui parla
Foucault viene interpretata sempre in funzione dei processi particolari di
egemonizzazione che investono le societa'. In sintesi, ho ripreso da Gramsci
il concetto di specificita' storica, la nozione di congiuntura e l'analisi
egemonica delle forme di potere. Tuttavia, credo che Gramsci non possa
aiutarci piu' di tanto a capire quella nuova congiuntura di cui abbiamo
parlato prima, soprattutto perche' aveva come orizzonte il momento della
costituzione del nazional-popolare, e questo momento sembra oggi davvero
passato. Il livello dell'interpenetrazione tra processi globali e
Stati-nazione e' arrivato a un punto tale che qualsiasi soluzione politica
progettata a partire da una sfera meramente nazionale appare piuttosto
anacronistica. Il modo in cui Gramsci pensava alla creazione di una
coscienza nazional-popolare in quanto cornice dell'azione politica e'
proprio quel momento che il globale si e' lasciato alle spalle. Dunque, a
questo punto su Gramsci possiamo farci le stesse domande che io mi sono
posto quando cercavo di utilizzare il suo lavoro per pensare il razzismo
nelle societa' contemporanee: cosa possiamo imparare dalla sua nozione di
egemonia in riferimento all'attuale congiuntura globale? Serve? Non serve?
Perche' questo concetto forse non serve piu'? Cosa puo' dirci dell'oggi,
anche per opposizione? In Iraq, in Libano, non c'e' nessun processo
egemonico in corso, c'e' puro dominio o pura coercizione e basta. Sono i
carri armati o gli aerei militari i veicoli del potere di fronte alla
popolazione... I media, certo, parlano di formazione della societa' civile
irachena, di ricostruzione dello Stato, ecc. ma sono tutte idiozie!
*
Da p. 49 e seguenti
- Miguel Mellino: Vorrei chiederti qualcosa sugli attentati del 2005 a
Londra. I media e la maggior parte dell'establishment politico e
intellettuale, almeno fuori dalla Gran Bretagna, non hanno fatto differenza
tra questi attentati e quelli di New York e di Madrid. La lotta contro Al
Qaeda ha assorbito qualsiasi altro discorso sulla vicenda. Per quello che
sappiamo puo' darsi che vi siano delle connessioni tra tutti e tre gli
attentati, tuttavia penso che il caso inglese resti piuttosto singolare e
che ci riporti direttamente - piu' che verso qualcosa di fantomatico come Al
Qaeda - verso la storia del multiculturalismo e del razzismo in Gran
Bretagna. Sono gli stessi vostri lavori sulla produzione della razza e del
razzismo in Gran Bretagna a spingere in questa direzione. Qual e' la tua
opinione su questi fatti?
- Stuart Hall: Qualche somiglianza fra i tre episodi in effetti c'e'. Anche
in Gran Bretagna vi e' stata la politicizzazione dell'Islam. Ma non possiamo
capire il significato di questo processo per le terze generazioni di
musulmani inglesi senza guardare prima alla storia del colonialismo e poi
del multiculturalismo britannico. Quindi, il nuovo quadro internazionale
c'entra e non c'entra. Il processo di esclusione subito da questa parte
della societa' inglese va avanti da molto tempo prima che comparissero sulla
scena Al Qaeda e Bin Laden. Negli anni delle grandi migrazioni, nei
Cinquanta e Sessanta, afro-caraibici, asiatici e africani sembravano essere
discriminati tutti piu' o meno allo stesso modo, tutti "razzializzati" come
black. In realta', la storia non e' andata proprio cosi'. Le discriminazioni
subite non sono state le stesse. Certe comunita' islamiche sono rimaste
ingabbiate in situazioni molto particolari. Nonostante siamo alla terza
generazione di musulmani britannici, si continua a "orientalizzarli", a
considerarli come la vera "alterita'". Ora inizia a esserci una qualche
consapevolezza di tutto cio': le bombe nel centro di Londra hanno dato da
pensare a qualcuno. La risposta, pero', come accade spesso, e' stata la
peggiore possibile: governo, media, establishment pensano che la soluzione
politica sia costringere pakistani, bengalesi, afghani, ecc. a sentirsi piu'
britannici. Cosi' si elaborano sempre piu' programmi destinati a diffondere
ancora di piu' il senso della "britishness". Siamo a una sorta di
incredibile rilancio dell'assimilazionismo. Si sta adottando quella che ho
definito prima come una "strategia neo-civilizzatrice", per di piu' in un
quadro internazionale in cui la Gran Bretagna ha un ruolo del tutto attivo
nell'aggressione a paesi islamici come l'Iraq, la Palestina, l'Afghanistan.
Blair accanto a Bush, con Guantanamo e Abu Ghraib come sfondo, non potra'
mai far sentire piu' britannici i musulmani britannici. E' in questo modo
che la religione diviene una questione surdeterminata (tornando a
Althusser), che si trasforma in una sorta di elemento di resistenza politica
inerente alle identita' egemoniche. Paradossalmente, la religione finisce a
volte per politicizzare molte persone, anche se questa politicizzazione
arriva in un modo che ha poco a che vedere con l'Islam in se'. Ha piu' a che
vedere con soggetti e comunita' subalterne che reagiscono come possono al
nuovo processo di "civilizzazione" in corso, a processi globali che vengono
percepiti come profondamente iniqui e in cui lo stato di segregazione patito
dalle comunita' palestinesi in Israele assume un significato emblematico.
- Miguel Mellino: Ma quali sono stati gli effetti concreti di questi
attentati sull'opinione pubblica britannica, in particolare sul dibattito
riguardante Il futuro della Gran Bretagna multietnica, per citare il titolo
del noto "Parekh Report" (2000)?
- Stuart Hall: Blair e i suoi si sentono in guerra, e vogliono resistere
invocando una sciocca coesione socioculturale. Lanciano invettive contro il
multiculturalismo, lo dichiarano morto ogni giorno, poiche' non aiuterebbe a
farci sentire tutti uguali, ovvero tutti inglesi. Il New Labour si e'
imbarcato in una politica estremamente contraddittoria su queste cose: cerca
di far sentire piu' britannici i giovani islamici mentre incoraggia, in nome
della diversita', le scuole confessionali. La cosa piu' deleteria e' che
tutto questo dibattito non riesce a uscire dalla banalita' quotidiana, si
parla solo di lotta contro Al Qaeda, come dicevi tu prima, o della
necessita' di espellere certi imam radicali che "riempiono" la testa dei
giovani musulmani. Nessuno si chiede perche', a volte, questi ragazzi
appaiano del tutto disposti a sentire cio' che dicono questi imam,
nonostante siano nati in questo paese e abbiano vissuto qui per tutta la
loro vita. Si tratta di ragazzi cresciuti ed educati qui, che parlano solo
l'inglese, che fanno la vita dei loro coetanei, vanno a ballare ai club, si
vestono e ascoltano la stessa musica degli altri giovani. Perche' allora
sentono a volte il bisogno di ascoltare gli imam radicali? E' questo che
bisogna chiedersi per iniziare a capire qualcosa, ma nessuno lo fa nel modo
giusto. Si pensa unicamente a contenere la paura sotto l'ansia sicuritaria e
non a interrogarsi sui motivi che hanno prodotto l'alienazione di una buona
parte dei giovani musulmani inglesi. La verita' e' che il New Labour non ha
mai capito veramente le questioni legate alla "razza" o alla diversita'.
Affrontano il multiculturalismo da un punto di vista filantropico: bisogna
tollerare la differenza, essere buoni con i bambini neri, aperti con i
nostri vicini stranieri, solidali con l'Africa. Oggi il confine tra questo
filantropismo e l'imperialismo culturale e' sempre piu' sfumato. Per
esempio, quest'anno ricorre il bicentenario dell'abolizione britannica della
schiavitu'. Blair ha gia' detto che la schiavitu' e' stata una brutta cosa,
ma non ha chiesto scusa per le responsabilita' dell'Inghilterra nella tratta
degli schiavi. Sul tema questa sinistra mostra tutta la sua ambiguita'. Per
400 anni l'Inghilterra ha schiavizzato mezzo mondo e a un certo punto ha
deciso l'abolizione della schiavitu'. Magnifico! Da allora, viene celebrata
la "fine" di questa brutta storia, rimuovendo pero' il fatto che l'intera
storia dei Caraibi e' stata deformata da 400 anni di schiavitu',
colonialismo e dipendenza. Ancora oggi i caraibici vivono ogni giorno della
loro vita all'ombra di questa lunga storia, ma la sinistra britannica non ha
una parola da dire su queste cose, vive in una sorta di oblio totale.

2. ET COETERA

Stuart Hall e' uno degli autori piu' rilevanti dei Cultural Studies e della
teoria postcoloniale, nato nel 1932 in Giamaica, si e' trasferito
giovanissimo in Inghilterra. Terminati gli studi al Merton College di
Oxford, comincia a lavorare come ricercatore prima della Birmingham
University per poi diventare direttore del Birmingham Center for Cultural
Studies. E' in questi anni che avviene l'incontro con Edward P. Thompson e
Raymond Williams. Tra i tre studiosi il sodalizio intellettuale sfocera'
nella fondazione di due riviste, 'The New Reasoner' e 'New Left Review'.
Quest'ultima diventa l'approdo di molti intellettuali marxisti usciti dal
partito comunista inglese dopo l'invasione dell'Ungheria nel 1956. Studioso
eclettico, spazia dalla 'teoria dei media' agli studi poscoloniali. Tra i
suoi libri vanno segnalati The Hard Road to Renewal, Resistance Through
Rituals, The Formation of Modernity, Questions of Cultural Identity,
Cultural Representations and Signifyng Practices. Dal quotidiano "Il
manifesto" del 27 luglio 2007 riprendiamo la seguente scheda: "Nato a
Kingston, in Giamaica, nel 1932, nel 1964 Stuart Hall inizio' a collaborare
con il 'Centre for Contemporary Cultural Studies' dell'Universita' di
Birmingham, diventandone in seguito direttore. Stuart Hall e' unanimemente
considerato fra i principali ispiratori della corrente critica dei Cultural
Studies, oltre che figura chiave della teoria postcoloniale. Fra i suoi
libri tradotti in italiano, si ricordano: Politiche del quotidiano. Culture,
identita' e senso comune (Il Saggiatore, 2006) e Il soggetto e la differenza
(Meltemi, 2006). Per orientarsi nel labirinto degli studi culturali sono
utili i lavori di Christina Lutter e Markus Reisenleiter, Cultural studies.
Un'introduzione (Bruno Mondadori, 2004) e Miguel Mellino, La critica
postcoloniale (Meltemi, 2006)". Opere su Stuart Hall: James Procter, Stuart
Hall e gli studi culturali, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007.
*
Miguel Mellino, studioso argentino da tempo residente in Italia, dottore di
ricerca in scienze etnoantropologiche, svolge attivita' didattica e di
ricerca presso la cattedra di antropologia culturale dell'Universita'
Orientale di Napoli; si occupa di studi postcoloniali, cultural studies e di
ricerca antropologica sulle societa' complesse, in particolare sulle
migrazioni, sul razzismo e sul multiculturalismo; per la casa editrice
Meltemi ha tradotto e curato l'edizione italiana di The Black Atlantic.
Modernita' e doppia coscienza, di Paul Gilroy, e Il soggetto e la
differenza, di Stuart Hall. Opere di Miguel Mellino: La critica
postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei
postcolonial studies, Meltemi, 2005.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 219 del 26 agosto 2008

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