La domenica della nonviolenza. 209



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 209 del 29 marzo 2009

In questo numero:
1. Maria G. Di Rienzo: La gonna
2. Edoardo Boncinelli presenta "Contro la bioetica" di Jonathan Baron
3. Paola Capriolo presenta "Nel labirinto dell'intelligenza" di Hans Magnus
Enzensberger
4. Fabrizio Coscia presenta "Teoria del tunnel" di Julio Cortazar
5. Stefano Garzonio presenta "Fra Oriente europeo e Occidente slavo. Russia
e Polonia" di Luigi Marinelli
6. Rino Genovese presenta "Il secolo dei media" di Peppino Ortoleva
7. Giovanna Pajetta presenta l'"Atlante dell'immigrazione in Italia" di
Fabio Amato
8. Angelo Trento presenta "L'America gringa" di Emilio Franzina
9. Alberto Ziparo presenta "Archetipi di territorio" di Anna Marson

1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: LA GONNA
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo intervento]

Il popolo Lisu dello Yunnan ama raccontare questa storia. Due tribu' del
luogo combattevano da tempo nella valle di Nujang. La battaglia in corso era
grande e sanguinosa. Ambo le parti ormai avevano molte vittime e feriti e
rancore e desiderio di vendetta. A mezzogiorno, mentre la battaglia era
ancora in corso, un'anziana donna di una delle due tribu' sali' in cima ad
una collina che dava sulla valle, si sfilo' la lunga gonna e l'agito' come
una bandiera, gridando che la guerra doveva finire. Le due parti smisero
immediatamente di combattere e tornarono ai loro villaggi. "Era costume, nei
tempi antichi, che le donne avessero il diritto di fermare ogni guerra. Se
una donna delle due parti in causa compiva il gesto di sfilarsi la gonna e
chiamare ad un armistizio i combattenti dovevano garantirlo subito", hanno
spiegato i Lisu ai ricercatori. Poi hanno chiesto se vivere in Europa e
negli Usa e' sicuro, visto che partecipiamo ad un sacco di guerre (e nessuno
si sfila alcunche' per fermarle).

2. LIBRI. EDOARDO BONCINELLI PRESENTA "CONTRO LA BIOETICA" DI JONATHAN BARON
[Dal "Corriere della sera" del 29 giugno 2008 col titolo "Bioetica, quando
l'utile e' morale" e il sommario "Un saggio di Jonathan Baron contesta le
certezze del 'mondo latino' e riapre il dibattito. La lezione degli
scienziati anglosassoni: empirici e possibilisti. Il conflitto. In questa
'guerra di religione' si fronteggiano pragmatismo e utilitarismo da una
parte, essenzialismo e normativismo dall'altra"]

Una guerra di religione o, se preferite, di mentalita', e' in atto da un
certo numero di anni qui, al centro dell'Europa; una guerra culturale che
vede da una parte principalmente l'Italia, e alcune frange di altri Paesi
latini, e dall'altra il mondo anglosassone. Certamente meno devastanti del
razzismo, ma piu' sornione, pervasive e forse perniciose, le guerre di
religione offrono a chi le combatte il vantaggio di potersi sentire buono,
se non santo: si lotta per i propri valori e la propria identita'. E ci si
sente moralmente superiori. "Gli altri" al contrario non hanno sensibilita',
sono barbari, mentre e' inutile far notare che, come in ogni guerra,
esistono persone degnissime da una parte e dall'altra e loschi figuri
sull'una e sull'altra sponda. Nel caso specifico si fronteggiano pragmatismo
e utilitarismo da una parte ed essenzialismo e normativismo dall'altra, per
non parlare degli opposti atteggiamenti dei due mondi verso il materialismo
e l'empirismo. Nel campo morale gli uni amano quasi sempre veder adottare
norme universali imposte una volta per tutte, gli altri preferiscono un
atteggiamento possibilista e maggiore disponibilita' a decidere caso per
caso.
La divergenza, nata probabilmente con lo sviluppo della filosofia inglese
del Sei-Settecento, nelle sue articolazioni conoscitive e morali, ha
raggiunto una nuova notorieta' e grande popolarita' con il diffondersi delle
questioni bioetiche e piu' in generale con l'imporsi del dibattito pubblico
sugli interrogativi sollevati dalla biomedicina. Nelle questioni bioetiche
la mentalita' angloamericana e' avversata apertamente dalle gerarchie della
Chiesa cattolica, ma anche da esponenti della cultura laica italiana che
affermano con un sospiro che gli anglosassoni hanno una cultura e una
sensibilita' differenti, ovvero una cultura e una sensibilita' sbagliate.
Qualcuno in passato si e' appellato addirittura a Kant, che sarebbe
debitamente preso in considerazione dalle nostre parti, ma non da "quelli",
e qualcuno e' arrivato a demonizzare tutto cio' che si fa o si dice in campo
bioetico soprattutto in Inghilterra, ma anche negli Stati Uniti e in Canada.
Come succede quasi sempre in questi casi, molte affermazioni nascono
dall'ignoranza, per esempio a proposito della natura dell'utilitarismo, una
dottrina filosofica considerata con grande sufficienza nel nostro Paese - al
punto che nel linguaggio quotidiano l'aggettivo "utilitaristico" ha una
connotazione assai negativa - ma che possiede invece un grande valore morale
e politico se letto e studiato nella sua formulazione piu' autentica. Si
tratta spesso di un vero e proprio abbaglio filosofico, alimentato da
interessi culturali non sempre trasparenti.
Queste considerazioni mi sono venute prepotentemente alla mente leggendo
Contro la bioetica di Jonathan Baron (Raffaello Cortina, a cura di Luca
Guzzardi), un libro molto ponderato, aggiornato e coraggioso, centrato su
alcuni aspetti particolari del ragionamento bioetico di oggi. Il titolo non
deve ingannare; non si tratta di un libro contro la bioetica, ma di un
tentativo sistematico di riconsiderarne alcuni lati sotto varie angolature.
"Questo libro - dice infatti l'autore proprio all'inizio dell'opera - mette
in relazione tre aree di ricerca che coltivo da anni: la teoria della
decisione, l'utilitarismo e la bioetica applicata". Non insistero'
sull'utilitarismo, una posizione che "ritiene che la scelta migliore sia
quella che comporta il maggior bene atteso", perche' cio' richiederebbe un
discorso troppo lungo, ma vale la pena spendere due parole sulla moderna
teoria della decisione, una disciplina che sta divenendo sempre piu'
importante.
Partendo dalla considerazione che i pareri in tema di bioetica "tendono a
fondarsi sulla tradizione e su giudizi intuitivi", l'autore ci ricorda
quanto fallaci possano essere proprio i giudizi basati sull'intuizione e
sulla prima impressione. Esistono ormai molti lavori, piu' o meno estesi e
articolati, che illustrano tale punto con grande dovizia di particolari.
Messo alla prova della logica, il nostro cervello fornisce molto spesso
giudizi infondati e lo fa quasi sempre se deve pronunciarsi in fretta. E'
anche per questo motivo che molte cose costano 19,99 euro invece di 20 o 699
invece di 700. Se e' costretto poi a ripensarci e a considerare le cose con
piu' calma, il cervello di ciascuno di noi puo' anche ricredersi e formulare
giudizi piu' corretti, ma in prima battuta siamo tutti inclini a sbagliare.
E sempre nella stessa, prevedibile direzione. Sarebbe assurdo, dice Baron,
non tenere conto di queste nostre tendenze innate, soprattutto oggi che le
conosciamo bene, e arriva a proporre una sua "analisi utilitarista delle
decisioni", una forma di ragionamento e di valutazione che potrebbe portare
i comitati di bioetica o il consulente bioetico singolo a sbagliare di meno.
Qualcuno potrebbe ribattere, dice il nostro autore, che gli eventuali sbagli
sono "semplicemente il prezzo della moralita', ma quale 'moralita'' ci
autorizza a peggiorare la situazione di qualcun altro?". Al di sopra e al di
la' delle guerre ideologiche personali, dovrebbe esserci un'attenta e
sollecita considerazione per il disagio e il dolore del singolo interessato:
gli ideologi disputano, ma e' il singolo che soffre. Lui e la sua famiglia.

3. LIBRI. PAOLA CAPRIOLO PRESENTA "NEL LABIRINTO DELL'INTELLIGENZA" DI HANS
MAGNUS ENZENSBERGER
[Dal "Corriere della sera" del 24 febbraio 2008 col titolo "L'intelligenza
non si misura" e il sommario "Enzensberger contro i test che classificano le
menti umane. 'Razzisti' ed 'eugenetici', trascurano eleganza e bellezza. La
discussione. Lo scrittore tedesco contesta la serieta' scientifica degli
studi sull'intelletto: sono troppo grandi le differenze culturali"]

Un mio cugino di terzo grado e' un grande appassionato di sudoku, e ogni
settimana vaga come un'anima in pena da un'edicola all'altra per procurarsi
tutte le riviste dedicate a questo gioco. Alcune, pero', non gli piacciono
affatto, e sono quelle che accanto a ogni schema portano l'indicazione del
tempo mediamente necessario per risolverlo. Mio cugino non ha problemi a
rispettare questa media; cio' che non sopporta e' l'idea di esercitare il
proprio cervello tenendo d'occhio l'orologio. Lo trova frustrante, ma
soprattutto grossolano: per lui, piu' che la rapidita', conta l'eleganza
delle strategie di soluzione, sicche' a volte si astiene addirittura dallo
scrivere subito un numero nella casella appropriata per arrivarci in un
altro modo, piu' soddisfacente dal punto di vista estetico.
Quando mi sono trovata tra le mani il brillante volumetto di Hans Magnus
Enzensberger Nel labirinto dell'intelligenza (tradotto da Emilio Picco,
Einaudi, pp. 64, euro 9), ho capito immediatamente che era il libro giusto
da regalare a quel mio cugino, anche se non vi si parla affatto del sudoku e
persino i tradizionali giochi enigmistici sono trattati solo di sfuggita. In
compenso, vi si svolge una critica serrata di quella concezione quantitativa
e agonistica dell'intelligenza umana che conduce appunto a calcolare il
valore di una prestazione mentale in base alla sua velocita', ma che
innanzitutto e' responsabile del proliferare di test per la misurazione del
quoziente intellettuale e di cavie pronte a sottoporsi a un simile esame.
Quella della misurazione dell'intelligenza, cioe' dell'intelligenza come
quantita' misurabile, e' un'idea piuttosto recente, "senza la quale il
genere umano ha dovuto cavarsela per qualche centinaia di migliaia d'anni"
(con risultati non disprezzabili, a quanto sembra), ed Enzensberger la
ripercorre con sarcasmo dai suoi albori alla fine dell'Ottocento sino
all'apogeo raggiunto ai giorni nostri, quando si contano ormai alcune
migliaia di metodi diversi per la determinazione dell'"IQ", si offrono al
consumatore gadget elettronici per verificare costantemente la propria
efficienza mentale, e cercando su Internet si possono trovare titoli
stravaganti come "IQ Islamic Quiz", "Potenziate il vostro IQ golfistico" e
persino "Test dell'IQ per i gatti". Quanto e' intelligente in effetti il
vostro gatto?
Certo, una cosa sono le mode, un'altra la serieta' dei metodi scientifici;
ma proprio su questa serieta' Enzensberger avanza i dubbi piu' corrosivi.
Gia' suscita qualche perplessita' il fatto che in molti casi la misurazione
dell'intelligenza sia stata affiancata da sinistre utopie eugenetiche o sia
stata piegata a sostenere tesi razziste: due tendenze esemplarmente
sintetizzate dallo studioso inglese Francis Galton, che nel 1883 proponeva
di consentire la procreazione solo a persone dall'adeguato patrimonio
genetico, in modo da allevare un'umanita' "che sarebbe intellettualmente e
moralmente superiore ai moderni europei, cosi' come i moderni europei sono
superiori alle piu' brute razze negre". Ma anche prescindendo da simili
aberrazioni, rimane l'impossibilita', sottolineata da Enzensberger sulla
scorta di numerosi studi, di creare test sufficientemente neutri rispetto
alle differenze culturali, ragion per cui un inuit della Groenlandia o un
indio dell'Amazzonia avrebbero scarse probabilita' di brillare in base ai
criteri stabiliti dagli esperti delle universita' europee o statunitensi, i
quali a loro volta andrebbero incontro a una "figuraccia clamorosa" se i
ruoli fossero invertiti.
Soprattutto, pero', rimane il fatto che l'intelligenza cosi' misurabile e',
nel migliore dei casi, quell'arma nella lotta per la sopravvivenza di cui
l'uomo si e' servito nel corso della sua evoluzione come altre specie si
sono servite degli artigli o delle zanne: di qui il ruolo centrale della
rapidita', della capacita' di rispondere con prontezza alle sfide poste
dall'ambiente. In questo senso, con buona pace di mio cugino, le riviste di
sudoku non hanno torto nel costringere i solutori a guardare l'orologio.
Eppure, da qualche millennio a questa parte, per intelligenza umana eravamo
abituati a intendere essenzialmente qualcos'altro, qualcosa che nelle sue
piu' tipiche manifestazioni e' del tutto inutile, se non addirittura
dannoso, ai fini della conservazione della specie o del successo
individuale: quella strana qualita' "bionegativa", per usare una definizione
di Gottfried Benn, dalla quale sono nate le arti, le religioni, persino le
scienze, se e' vero che aspetti cosi' poco misurabili come la bellezza e
l'eleganza formale hanno un'importanza decisiva non solo nelle strategie di
soluzione dei piu' comuni giochi logici, ma anche nell'elaborazione delle
teorie con cui cerchiamo di costruirci un'immagine del mondo.

4. LIBRI. FABRIZIO COSCIA PRESENTA "TEORIA DEL TUNNEL" DI JULIO CORTAZAR
[Dal quotidiano "Il Mattino" del 16 gennaio 2004 col titolo "Cortazar,
viaggio nel tunnel della teoria di uno scrittore ribelle" e il sottotitolo
"Un inedito dello scrittore argentino a vent'anni dalla morte"]

Si apre l'anno internazionale di Julio Cortazar. Vent'anni fa, nel 1984,
moriva da esule, a Parigi, lo scrittore argentino che con i suoi libri ha
fatto irruzione come un benefico terremoto nella letteratura in lingua
spagnola. E proprio in Spagna e' appena uscito il primo dei nove volumi
della sua opera completa (nella nuova edizione proposta da
Galaxia-Gutenberg-Circulo de Lectores), che comprende titoli indimenticabili
come Rayuela e Bestiario, Storie di cronopios e famas e Le armi segrete, e
numerose altre iniziative si prevedono per il 2004. In Italia, dove una
riflessione critica approfondita sullo scrittore e' ancora assente (basti
pensare che non tutta l'opera di Cortazar e' ancora edita), ci ha pensato la
casa editrice napoletana Cronopio, dal nome tipicamente cortazariano, con la
pubblicazione dell'inedito Teoria del tunnel (pp. 125, euro 13). Scritto nel
'47, a margine del biennio di docenza di letteratura francese tenuta da
Cortazar all'Universita' di Cuyo a Mendoza, il saggio fu pubblicato per la
prima volta in Spagna nel 1994 e presentato da Saul Yurkievich come una
"autodefinizione letteraria".
Attraverso un excursus che parte da Mallarme' e arriva fino
all'esistenzialismo di Sartre, passando per il surrealismo di Breton, e
indagando l'itinerario storico del romanzo del XIX e XX secolo, l'allora
poco piu' che trentenne Cortazar declina due prototipi di scrittore: il
"tradizionale", per il quale l'universo culmina nel libro, e il "ribelle",
per il quale, viceversa, il libro "deve culminare nell'universale, essere il
suo tramite e la sua rivelazione". Da un lato, quindi, lo scrittore "di
vocazione", colui che vive per scrivere, e dall'altro lo scrittore
"contemporaneo", colui che scrive per vivere. E non e' difficile,
naturalmente, intuire che dietro la figura dello scrittore "ribelle" che
sancisce fino in fondo "la fine del letterario", riconosce nella scrittura
la sua natura sovversiva e "d'amicizia" allo stesso tempo, trasformando il
libro nell'accesso, nel tramite per una fantastica dimensione comunitaria,
si celi lo stesso Cortazar, il futuro maestro della letteratura fantastica,
colui che fara' del surrealismo e dell'esistenzialismo le sue due "armi
segrete" usate per sconvolgere le regole della verosimiglianza, per affinare
la sua "fenomenologia dello sguardo eccentrico", per affrontare il suo
straordinario "giro del giorno in ottanta mondi", per farsi veggente e
camaleonte, un "cronopio" (personaggio indefinibile, fluttuante, tra
l'animale e l'"oggetto verde", partorito dalla fantasia dello scrittore,
protagonista di racconti esilaranti e geniali), che - come confessera' in
una sua lettera a un amico - "scrive racconti e romanzi senza altro fine che
quello ardentemente perseguito da ogni cronopio: la propria esclusiva
letizia". Salvo poi accorgerci, con Osvaldo Soriano, suo grande collega e
connazionale, che con quella letizia, quella "spensieratezza", quella
"disinvoltura" Cortazar ha saputo "sondare le ossessioni dell'anima e il
profondo mistero del destino umano".

5. LIBRI. STEFANO GARZONIO PRESENTA "FRA ORIENTE EUROPEO E OCCIDENTE SLAVO.
RUSSIA E POLONIA" DI LUIGI MARINELLI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 gennaio 2009 col titolo "Slavistica.
Tra Polonia e Russia un modello comune di nuova etica dell'est"]

Luigi Marinelli, Fra Oriente europeo e Occidente slavo. Russia e Polonia,
Lithos, euro 9,50.
*
"In base alle piu' recenti stime l'Europa ha una popolazione di circa 702
milioni di abitanti, dei quali ben piu' di un terzo (263 milioni) parlanti
una delle dieci lingue slave principali", e l'Italia stessa "e' (anche) un
paese slavo" per le sue minoranze nel Friuli e nel Molise. Cosi' annota lo
slavista e polonista Luigi Marinelli nel saggio Fra Oriente europeo e
Occidente slavo. Russia e Polonia, nato come pubblica lezione per il primo
ciclo delle Conferenze Sinopoli e ora accompagnato da un ricco apparato di
note. Basandosi sulla fertile tradizione degli studi slavistici italiani,
Marinelli ripercorre la storia delle definizioni del mondo slavo tra Slavia
Romana e Slavia Orthodoxa, anche alla luce delle diversificazioni derivanti
da capovolgimenti storici, quali il giogo tataro-mongolico e la dominazione
ottomana. In particolare, Marinelli si concentra sulla piu' lampante
dicotomia storico-culturale e geopolitica che caratterizza il mondo slavo,
quella tra Polonia e Russia: evidenziate le diverse posizioni
storico-culturali, il rapporto tra le due nazioni/narrazioni viene
esemplificato attraverso l'analisi di alcune figure simboliche e di
orientamenti-guida, come le opinioni espresse su Russia e Polonia da
Voltaire e Rousseau, tra "ragion di stato vs utopia". Centrale in
particolare e' il confronto tra Puskin e Mickiewicz, e tra la differente
concezione del ruolo delle loro patrie - un confronto che si ripropone anche
nel dialogo tra Iosif Brodskij e Czeslaw Milosz.
A interessare Marinelli non e' pero' solo il paragone tra panslavismo russo
e messianismo polacco, tra monolitismo autocratico e "disordine", ma anche
il tentativo di individuare le aspirazioni che caratterizzano il mondo slavo
moderno, specie alla luce dell'esperienza degli intellettuali polacchi e
russi all'epoca del totalitarismo sovietico. Egli giunge cosi' a proporre un
comune, sebbene composito, modello di "est-etica", un'"etica della
resistenza, salvificamente aliena dei falsi valori del consumismo, del
narcisismo e dello showbiz occidentali". E' forse questo il complesso di
valori piu' genuini che, tra mille insidie e malgrado le evidenti divisioni,
resiste nel mondo slavo inteso nel suo complesso, anche se non va
sottovalutata la presenza di un terzo attore, quello atlantico, che incide
con i suoi modelli politici e culturali sull'identita' europea e, attraverso
le diaspore slave nel Nord America, interviene sul processo di
ricostituzione delle coscienze nazionali dei vari paesi appartenenti all'ex
blocco sovietico. Ricostruendo i rapporti tra le due Europe, Marinelli
prende in esame la fascia mediana tra Europa e Slavia, la "fascia del
ventesimo meridiano", e nel contempo individua una fascia mediana tra
Polonia e Russia - un punto, questo, molto complesso, che richiama evidenti
criticita' della storia contemporanea. Storicamente tale fascia e'
costituita da Rutenia e Ucraina, e ha fatto nei secoli da tramite tra Russia
e Europa occidentale, ma in prospettiva culturale e' forse opinabile
includervi alcuni territori dell'odierna Ucraina russofona e della Crimea,
storicamente piu' legati alla Slavia eurasiana.
Il libro di Marinelli, che molto deve alle idee di Mauro Martini (alla cui
memoria e' dedicato), offre ricco materiale per riflettere sul ruolo
culturale dell'Europa e sul suo atteggiamento verso il mondo slavo. Decisivo
in questo senso risulta il dialogo tra l'Europa e la Russia, come parte
ineludibile della tradizione europea, e insieme come ponte tra Europa e
Asia, un dialogo in cui un ruolo di responsabilita' ricade anche sulla
Polonia e in generale sui paesi della fascia del "ventesimo meridiano" se
sapranno superare il particolarismo per ritrovare i tratti di universalismo
che Marinelli sottolinea nell'opera di tanti artisti mitteleuropei e nel
pensiero del filosofo ceco Jan Patocka, autore del fondamentale Platone e
l'Europa.

6. LIBRI. RINO GENOVESE PRESENTA "IL SECOLO DEI MEDIA" DI PEPPINO ORTOLEVA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 17 marzo 2009 col titolo "Il Novecento
attraverso l'evoluzione dei media. Un legame sociale cementato dalle
tecnologie digitali"]

Peppino Ortoleva, Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie, Il
Saggiatore, pp. 334, euro 19.
*
Il libro che Peppino Ortoleva pubblica con il titolo Il secolo dei media.
Riti, abitudini, mitologie raggiunge due risultati notevoli: quello di
offrire una descrizione obiettiva - cioe' non moralistica, non
pregiudizialmente liquidatoria - di cosa sia stato, e di cosa sia diventato
con le nuove tecnologie, il sistema dei media; e quello di riaprire il
dibattito sul significato generale dei rapporti tra la tecnica e la forma di
vita moderna. Corrispondera' al vero, infatti, il ritornello su cui insiste
una vulgata molto pervasiva che fa della tecnica guidata dal capitalismo la
grande distruttrice del "legame sociale", il veicolo di un'atomizzazione
individualistica pressoche' irreparabile? O non e' piuttosto vero il
contrario, cioe' che i media - da non intendere riduttivamente come mezzi
soltanto tecnici -, nel corso del Novecento e in questo nostro inizio
secolo, hanno costituito il tratto piu' tipico di una cultura da considerare
in senso propriamente antropologico, quindi come una forma di legame perfino
soffocante? Assumere fino in fondo la seconda ipotesi vuol dire fare
dell'Occidente moderno non tanto il mondo dell'individualismo, quanto
piuttosto quello di un individualismo corretto da forti dosi di
comunitarismo neo-arcaico, se cosi' si puo' dire; e considerare percio' il
secolo dei media non come contrassegnato dalla semplice fine del mito e del
rito, ma come il tempo in cui si forma e si sedimenta quella che Ortoleva
chiama una "mitologia a bassa intensita'".
Che cos'e' una mitologia di tal fatta? Lo spiega bene Ortoleva: "A
differenza dei miti classici o di quelli Bororo di Levi-Strauss, a ripetersi
e' la formula, anziche' la singola storia; sono le situazioni e i tipi (il
detective, il potente-corruttore, la dark lady), anziche' i nomi e i
personaggi". Il fruitore in questo modo e' inserito in una dimensione fatta
di accumulo ripetitivo, di abitudini (il che e' caratteristico del mito), e
insieme di piccole variazioni introdotte da storie simili e tuttavia sempre
diverse (si pensi al serial televisivo), nei cui confronti puo' arrivare ad
assumere l'attitudine piu' o meno compulsivamente giocosa di un bricoleur
"fai da te". E' un accumulo ripetitivo, certo, ma un accumulo di atti di
consumo che hanno la forma di acquisizioni di volta in volta connotate
individualmente. Proprio questo fa si' che la cultura di massa diffusa dai
media sia un misto di individualismo e conformismo antindividualistico. Il
cosiddetto legame sociale e' tutt'altro che spezzato. Al contrario, assume
la forma compatta di una cultura nel senso dell'antropologia culturale. Sia
pure in una maniera "a bassa intensita'", nel cui ambito e' previsto un
allentamento del carattere imperativo del mito e una certa liberta'
dell'individuo, quello dei media e' pur sempre un mondo fondato sopra
abitudini difficili da scalzare una volta instaurate, come appunto quelle di
qualsiasi cultura.
Ortoleva si conferma in questo libro un acuto rinnovatore della linea di
ricerca che annovera tra i suoi capostipiti Marshall McLuhan, e che consiste
nel vedere nei media novecenteschi, cioe' nella cultura di massa o industria
culturale che dir si voglia, non soltanto qualcosa da cui non si puo'
prescindere per una sociologia del presente, ma un succedersi di rotture da
collocare in una prospettiva storica. Rispetto al maestro canadese,
tuttavia, Ortoleva e' piu' attento nel descrivere gli aspetti di continuita'
e discontinuita' all'interno di questa storia, che viene presentata talvolta
un po' troppo come aperta al nuovo e per principio inquieta. Per esempio, un
medium del passato come il giornale non e' affatto sparito, non e' stato
soppiantato dai media recenti e recentissimi, e anzi ha conservato intatta
la sua struttura comunicativa fatta di un collage di commenti e "notizie"
(un'invenzione storica anche questa, dato che nessuno saprebbe dire cosa
veramente sia una notizia). Al tempo stesso, pero', la vorticosa
comunicazione resa possibile dai media ha mutato, in una maniera non
governabile, usi e costumi che affondavano le radici in un tempo molto
remoto, facendo cadere i due tabu' forse piu' forti che l'Occidente abbia
mai conosciuto: quello sul giuramento, sul "dare la parola", e quello sulla
rappresentazione del sesso.
Lo sviluppo della pornografia reso possibile dalla riproduzione fotografica
e dal cinema ieri, oggi dai video e da Internet, e' cresciuto in effetti
esponenzialmente su se stesso, e non puo' nemmeno essere ridotto alla sua
forma di merce, che pure c'e'. Ha la portata di un'estetizzazione ed
esposizione integrale del corpo umano nel cui ambito, come spesso in
Occidente, la spinta liberatoria iniziale e la sua impasse finale risultano
indistinguibili. Allo stesso modo, la caduta del tabu' riguardo all'onore
che il giuramento e il "dare la parola" mettevano in gioco e' certo
collegata a un processo di deritualizzazione della vita sociale, che
sembrerebbe "liberare" le forze dell'individualismo moderno; ma cede il
passo, ancora una volta, alla "bassa intensita'" dei molti riti "fai da te",
in cui consumo e sacralizzazione diffusa fanno tutt'uno. Non appare allora
strano che chi voglia sul piano mondiale contrastare l'egemonia della
cultura occidentale assuma posizioni religiose oltranziste e
tradizionaliste.
Il merito principale del libro di Ortoleva e' dunque in un forte richiamo
alla complessita' e finanche paradossalita' del mondo contemporaneo. Una
lezione a cui qualsiasi sinistra da ripensare e da rifondare non dovrebbe
sottrarsi.

7. LIBRI. GIOVANNA PAJETTA PRESENTA L'"ATLANTE DELL'IMMIGRAZIONE IN ITALIA"
DI FABIO AMATO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 18 ottobre 2008 col titolo "Sparpagliati
oltre le rive del Po" e il sommario "Ricerche. La mappa dei migranti in
Italia"]

Fabio Amato, Atlante dell'immigrazione in Italia, Carocci, Roma 2008, pp.
139, euro 13,50.
*
Insultati, bistrattati, malmenati, pestati a sangue o addirittura a morte
per una scatola di biscotti. Cronache di ordinario razzismo, puntellate
dagli allarmi, addirittura di Giorgio Napolitano. Eppure, in questo
crescendo d'autunno, la vera novita' non sta nel comportamento degli
italiani, ma in quello dei loro nuovi concittadini. Decisi, forse per la
prima volta, a denunciare i maltrattamenti subiti per decenni, a manifestare
nelle piazze e, soprattutto, a rimanere a vivere in Italia. Patria
d'elezione per piu' di due milioni di uomini e donne, forse persino amata,
anche quando a noi fa spavento. Perche' il primo dei tanti paradossi della
presenza straniera nel nostro paese sta proprio nella scelta dei luoghi dove
abitare, portare le proprie famiglie, iscrivere i bambini a scuola. Visto
che, come racconta Fabio Amato in questo Atlante dell'immigrazione in
Italia, la maggioranza di loro, ben il 59,6% preferisce percorrere le strade
della pedemontana padana. Sopravvive, anzi forse si trova a suo agio, dove
piu' ruggisce la xenofobia leghista. Regalando il primato, in numeri
assoluti e in percentuale, a paesi e cittadine della bergamasca, del
bresciano, del comasco o addirittura del trevigiano tanto caro allo sceriffo
Gentilini.
Costruite incrociando i dati del rilevamenti Istat del 2006 con le analisi
della Caritas del 2007, le mappe che illustrano il libro curato dalla
Societa' geografica italiana, non lasciano dubbi. Se all'inizio, quando
negli anni Ottanta si aprirono le porte alle prime ondate migratorie, si
andava d'estate a tirare le reti sui pescherecci siciliani o a raccogliere
pomodori nel casertano, adesso tutti, compresi tunisini e marocchini,
preferiscono prendere la via del Nord. Certo, e' li' che c'e' piu'
possibilita' di trovare lavoro, magari stabile anche se poi ci pensa il
costo della vita a ridimensionare il salario. Ma a differenza di dieci anni
fa, non si emigra solo per questo.
Nei progetti di vita, tra le motivazioni per vivere in Italia c'e' ora anche
la famiglia, al primo posto per il 35,6% nei questionari della
Caritas-migranti. E' quella che Fabio Amato chiama "una tendenza
all'inserimento assimilativo", un vero e proprio radicamento il cui segnale
piu' forte viene dalla presenza dei bambini e dei ragazzini, che erano solo
35.000 nel 1996 e sono diventati ben 638.000 nel 2006. Sono loro, assieme
alle loro famiglie, i protagonisti dei primi tentativi di una
"appropriazione territoriale", che comincia per l'appunto nelle terre sopra
il Po.
Se la media nazionale parla infatti di un timido 5% di immigrati, vicino
peraltro ai dati del resto d'Europa, per le strade della pavese Rocca de'
Giorgi o della vicentina San Pietro Mussolino, si respira tutt'altra aria.
Qui infatti "loro" superano il 20% degli abitanti, e certo si vede, visto
che parliamo di piccoli paesi, come la comasca Veleso, dove su 300 residenti
ben 70 vengono da altrove. Casi tutt'altro che isolati, visto che dei 450
comuni italiani in cui si supera la media del 10% di immigrati, 170 sono
lombardi e 100 sono veneti (37 solo nel trevigiano). In gran parte non si
tratta di citta' ma di paesi, perche' l'altro paradosso sta qui, nella
preferenza per la cosiddetta "piccola Italia". Se si guardano i numeri
assoluti, ovviamente la fanno da padrone le metropoli, Roma, Milano o
Napoli, ma questa scelta di vita dei nostri immigrati conferma quella che,
da sempre, e' stata una peculiarita' degli insediamenti italiani.
A differenza di quello che accade nei paesi di piu' antica immigrazione, in
Francia, Gran Bretagna o anche in Germania, nel nostro paese infatti non si
sono mai formati dei ghetti, persino i cosiddetti "quartieri etnici" come
Braida a Sassuolo o Serenissima a Venezia, si contano sulle dita di una
mano. Per il resto, per citare il titolo di un capitolo del libro, i nostri
immigrati preferiscono vivere "sparpagliati", forse non solo perche' le loro
comunita' (in Italia ci sono ben 180 nazionalita' diverse) sono piccole.
Anche questo e' un segno di un processo di integrazione, che va di pari
passo con il fenomeno che piu' e' cresciuto in questi anni,
l'imprenditorialita'.
Oggi in Italia ci sono 140.000 imprese in cui il titolare e' un immigrato,
nel 2006 sono state oltre un terzo delle nuove nate, e per lo piu' sono
situate guarda caso nel Nordest (il 37%) e nel Nord ovest (27%). E' un
fenomeno che si e' gia' realizzato in buona parte d'Europa, ma favorito per
una volta dalle leggi italiane. Se infatti c'e' chi e' piu' generoso di noi
sul piano ad esempio dei diritti sociali, come la Germania, e' grazie alla
legge 40 del 1998 che gli immigrati regolari possono aprire ditte
individuali o diventare soci di cooperative. Per ora chi lo fa, in Toscana
in primo luogo, sono soprattutto i cinesi e i marocchini, cosi' come la gran
parte delle imprese sono commerciali, piccoli negozi o ristoranti. Ma non e'
detto che, a furia di vivere nel regno del lavoro autonomo e delle partite
Iva, senegalesi o indiani non decidano nel prossimo futuro di diventare loro
i nuovi "padroncini" della Padania.

8. LIBRI. ANGELO TRENTO PRESENTA "L'AMERICA GRINGA" DI EMILIO FRANZINA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 marzo 2009 col titolo "Emigrazione.
Italiani in Sudamerica, le storie di una diaspora"]

Emilio Franzina, L'America gringa, Diabasis, pp. 286, euro 17.
*
Tra gli anni '70 del XIX secolo e il primo dopoguerra gli italiani
riempirono campi e citta' di Argentina e Brasile, avviando in alcune aree
spopolate di queste nazioni un processo di "fertilizzazione demografica" e
monopolizzando a lungo taluni settori e professioni, ma rimanendo per lo
piu' ai margini della politica con l'importante eccezione del mondo del
lavoro, all'interno del quale rappresentarono la spina dorsale del movimento
operaio in diversi centri urbani, anche grazie alla presenza di nomi di
spicco delle sue varie anime, da Malatesta a Gori, da De Ambris a Vacirca. A
queste mete dell'emigrazione italiana e' dedicato il volume America gringa,
nel quale Emilio Franzina ha raccolto alcuni dei suoi numerosi saggi per
offrirci un'opera densa e suggestiva, da cui emerge un quadro assai
complesso, che da' ampiamente conto dell'importanza assunta dall'esodo di
braccia nella nostra storia e nella costruzione di una memoria collettiva.
Concentrandosi sulla fase dell'emigrazione di massa, ma riservando spazio
alla penetrazione del fascismo tra le collettivita' immigrate e al secondo
dopoguerra, Franzina traccia il dipanarsi della diaspora non solo con gli
strumenti classici dell'indagine storica, ma avvalendosi anche di altre
fonti, dalla narrativa alla letteratura di viaggio, dalla memorialistica
agli epistolari. Pur senza sottacere la valenza dei fattori di attrazione e
di espulsione, degli interessi delle compagnie di navigazione e degli
incentivi concessi dai governi latinoamericani, Franzina insiste quindi con
forza sulla centralita' dei fattori umani. L'emigrazione viene cosi'
riportata nell'ambito delle strategie messe in atto per sfuggire ai processi
di proletarizzazione nelle campagne a partire dagli anni '80 del XIX secolo,
e l'individuo perde la sua dimensione di mera eccedenza demografica,
rivelandosi autore di scelte coscienti, come testimonia la diffusione delle
catene migratorie su base familiare e paesana.
Il ricorso a epistolari e memorie agevola la ricostruzione di storie di
vita, emblematiche anche quando descrivono, oltre agli inevitabili
fallimenti, cammini di modesta ascesa sociale da non confondere con il
fallace mito degli "zii d'America", cioe' della ridottissima categoria di
emigranti poveri in canna accumulatori di fortune colossali oltreoceano a
forza di dedizione, abilita', spirito di sacrificio. La mobilita' di conio
minore fu resa possibile, oltre che dal magmatismo di un mercato del lavoro
in fieri, da un facile inserimento in societa' che, pur non aliene da
tensioni xenofobe, furono sostanzialmente ricettive verso gli stranieri, e
gli italiani in particolare, cui attribuivano una identita' nazionale che
esse erano ben lontane dal possedere, specie sino alla prima guerra
mondiale.
Questa circostanza determino' una piu' facile interiorizzazione del concetto
di italianita', che solo in un secondo tempo prevalse sulle iniziali
identita' regionali, fenomeno, questo, facilitato dalla forte prevalenza,
nei primi decenni dell'emigrazione, di liguri e piemontesi in Argentina e di
veneti, friulani e trentini in Brasile. Tali provenienze hanno fatto si' che
le antiche radici siano state esaltate, come nota Franzina, in tempi a noi
piu' vicini dallo schieramento di centrodestra padano, che ha moltiplicato
le occasioni di contatto con i discendenti, utilizzando le risorse
finanziarie delle regioni per promuovere, approfittando delle difficolta'
economiche attraversate dai paesi latinoamericani dagli anni '80, l'arrivo
di nipoti e pronipoti con passaporto italiano, per sostituire
extracomunitari e affini, battendo la grancassa di una piu' facile
integrabilita' ma destinandoli quasi sempre al precariato e impedendone di
fatto l'integrazione.

9. LIBRI. ALBERTO ZIPARO PRESENTA "ARCHETIPI DI TERRITORIO" DI ANNA MARSON
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 marzo 2009 col titolo "Urbanistica.
Per le citta' del futuro un ritorno alle origini"]

Anna Marson, Archetipi di territorio, Alinea, pp. 286, euro 22.
*
La catastrofe economico-finanziaria si aggiunge a quella ambientale e ne
aggrava gli effetti, accelerando la metamorfosi degli statuti scientifici di
molte discipline. Tra queste, l'urbanistica che - nata per dare risposte
razionali alle esigenze di crescita in epoca industriale - fatica a trattare
oggi in modo adeguato la perdita di qualita' dei luoghi in cui viviamo. In
un saggio di qualche anno fa (Il libro dei luoghi, Jaca Book, 2001) Giovanni
Ferraro ricordava come anche per le scienze territoriali i cambi di
paradigma abbiano significato, nel tempo, la necessita' di individuare
"sguardi altri", nuovi linguaggi, differenti fuochi e prospettive, algoritmi
rinnovati. Consapevole di tutto cio', il filone territorialista della
disciplina urbanistica - che ruota attorno all'esperienza scientifica e
progettuale di Alberto Magnaghi - da tempo ricerca linguaggi, scenari e
statuti coerenti con orientamenti realmente improntati all'ormai matura
esigenza di ristrutturare, restaurare e riabilitare il territorio, piuttosto
che alla costruzione di una nuova citta', o pezzi di essa.
Archetipi di territorio di Anna Marson si colloca all'interno di questo
percorso e in un campo nel quale l'attitudine alla conoscenza e al progetto
diventa metodo e tecnica solo nell'interazione con il contesto locale, offre
utili spunti di riflessione e occasioni di azione innovativa verso una
sostenibilita' sociale e ambientale non meramente declaratoria, come quella
che connota molta comunita' politica e scientifica. Nella fase di
deterritorializzazione che stiamo attraversando, Marson raccoglie i caveat
di Giovanni Ferraro, oltre che di molta cultura ambientalista, e guarda ai
fondamenti del sistema ecologico e ai principali costrutti, la cui influenza
e' tuttora evidente nell'organizzazione territoriale, per ridare senso al
progetto di ricostituzione ecologica e culturale dei luoghi.
Con una traiettoria simile a quella che Osvaldo Pieroni ha proposto tempo fa
per esplorare le istanze innovative di nuove formazioni comunitarie e buone
pratiche di riuso dell'ambiente (Fuoco, acqua, terra, aria, Carocci 2002),
l'urbanista Marson richiama l'importanza, anche simbolica, che le quattro
primitive matrici ricoprono per l'ecosistema e interpreta anche gli effetti
sociali e ambientali della loro progressiva perdita di peso nella
modernita'. Oggi la terra e' diventata suolo da consumare; l'acqua -
inquinata, avvelenata, privatizzata - manca sempre piu' oppure si presenta
in forma turbolenta, alluvionale, di onda gigantesca. Il fuoco significa
crisi energetica e guerra, cioe' conflitti per il controllo di fonti fossili
o nucleari che inquinano, intossicano, producono sprechi. L'aria e' di nuovo
problema di inquinamento, di impatti sanitari, di crisi climatica. Questi
elementi insomma non ci appartengono piu'. E se un tempo i luoghi, con i
loro simboli e segni, ci restituivano continuamente il senso del nostro
viverci, abitarci dentro, oggi sono suolo da consumare, spazio da ingombrare
sempre piu' intensamente, per il profitto di interessi lontani,
globalizzati.
Marson propone invece di rivisitare gli "archetipi del territorio": i centri
dai grandi valori storici, artistici, culturali, i margini di cui bisogna
riaffermare ruolo e senso, il giardino nelle sue diverse accezioni (cortile,
parco, oasi...), lo spazio naturale con le sue peculiarita' ecologiche. La
reinterpretazione di questi valori puo' favorire profili progettuali che ci
aiutino a riabitare e ridisegnare il paesaggio, muovendo da alcuni criteri
che ancora troviamo sovente strutturanti in quegli ambiti: la "grandiosa
potenza" del limite; "un tempo piu' lento"; "un nuovo senso estetico per
tutta la schifezza prodotta nella seconda parte della modernita'"; il
"ritrovarsi e ritrovare l'appartenenza ai luoghi".

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 209 del 29 marzo 2009

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